CULTURA
Augusto De Angelis e Carlo De Vincenzi, una certa Milano Gialla e Nera /2
L’esordio “devincenziano” di Luca Crovi (Milano, 1968), critico creativo, storico del genere giallo, conduttore radiofonico ed esuberante fumettologo (alla Sergio Bonelli Editore) è L’ombra del campione. Nebbia, sangue e il delitto Meazza (Rizzoli 2018), ambientato nel 1928, significativamente prima del De Vincenzi di De Angelis. A loro modo prequel risultano anche i successivi romanzi e racconti di Crovi. Si tratta di una sorta di godibili commedie gialle, opportune anche per ricostruire la storia di Milano sul piano urbanistico-architettonico e per incontrare altre famose personalità che vi vissero o la frequentarono, narrazione in terza varia, all’incrocio tra finzione e realtà; veri i tanti meneghini modi di dire, usi e costumi, ricette, musiche, ricordi. Il 1928 fu l’anno dell’attentato a Vittorio Emanuele III, in cui entrarono in servizio i nuovi tram a Milano. Il 18enne interista Giuseppe Peppino el Balila Meazza (1910-1979) incontra l’ancor giovanissimo commissario De Vincenzi e arrivano guai, fin dentro San Vittore.
Il secondo della serie è L’ultima canzone del Naviglio (Rizzoli 2020), ambientato nel gennaio 1929, più o meno quando Arturo Toscanini (1867-1957) si rifiuta alla Scala di eseguire gli inni al re e al duce; il terzo Il Gigante e la Madonnina. Un suicidio inspiegabile all’ombra del Duomo (Rizzoli 2022), ambientato nel maggio 1932, con il gigantesco pugile Primo Carnera (1906-1967). Segue la raccolta di racconti “gialli” (alcuni già editi, alcuni scritti prima dell’esordio) Il mistero della torre del parco e altre storie (Sem Milano 2022), ambientati fra il 1926 e il 1933. Qui il “poeta del crimine” incrocia con garbo Alfred Hitchcock, Antonio Gramsci, Nguyễn Sinh Cung (Hồ Chí Minh), Nicolò Carosio, Riccardo Bauer e molte altre personalità poi divenute famosissime, davvero storicamente capitate in quegli anni a Milano (in questura, in carcere, nella Trattoria della Pesa, in stazione e in altri luoghi topici descritti con maestria, pure fuori la città). Lo spunto è in un fatto di cronaca (se criminale, più furti che omicidi) o in una contingenza sociale e istituzionale. Anche il quarto colto e articolato (finora ultimo) romanzo di Crovi su De Vincenzi (uscito pochi giorni fa) ha più tempi narrativi, qui Parigi a inizio ‘800, il commissario sia a Domodossola all’inizio del nostro secolo che a Milano nel 1934 (con Tazio Nuvolari): La velocità della tartaruga, Rizzoli Milano 2024, pag. 197, euro 17.
Poche settimane fa è poi uscito il bel romanzo di Alessandro Robecchi, Le verità spezzate (Rizzoli 2024, pag. 267 euro 16), un doppio giallo ambientato a Milano e sul lago di Como, nel recente settembre e tempo addietro. Meglio raccontarlo con precisione. Il 74enne Manlio Parrini è oggi un regista mitico, un Maestro nella storia del cinema planetario. Si è ritirato poco dopo l’enorme successo mondiale di critica e di pubblico del suo capolavoro Le verità spezzate. Nel febbraio 1998 si trovava a Montréal a ritirare l’ennesimo premio, stufo di venir considerato una sorta di culto ambulante, Anita lo aveva appena lasciato per un attore più giovane di lei, allora aveva pubblicamente dichiarato di smettere: non avrebbe mai più fatto cinema, ormai un posto senza verità. Un quarto di secolo dopo, quel dì, quasi alle sei di un tramonto settembrino milanese, davanti alla statua del Manzoni di piazza San Fedele, si accende una sigaretta e pensa a quando lì c’era la questura, vede il commissario De Vincenzi che entra ed esce all’aperto, in quel “lago bituminoso di nebbia”, come bene scriveva De Angelis nel 1935, e immagina una storia dentro l’antica città senza nessuna frenesia, monumentale e scura, oppressa. Ci si potrebbe fare un gran film, pensa e rimugina.
Parrini raccoglie materiali nella sua funzionale elegante centrale residenza studio, un ampio padiglione vetrato con piccola sala di proiezione, autonoma dépendance dell’enorme villa di un suo mecenate, presa per un modesto affitto (che non aveva mai dovuto pagare) e poi acquistata a poco quando il cavalier Guido Bastoni stava per morire (praticamente solo le spese del notaio). Mentre cerca un produttore, chiama l’amica 38enne sceneggiatrice Sara De Viesti, alta con i capelli rossi, e la coinvolge nell’ipotesi di impresa artistica, un cold case del luglio 1944, la morte di De Angelis a Bellagio, da poco uscito dal carcere dove era detenuto per teorico antifascismo, ancora per mano fascista sembra (nel periodo di Salò). Vengono distratti, nella villa è stato scoperto l’omicidio della ricca vedova Bastoni, si scatena un nuovo caso eclatante (il nipote ha incarichi ministeriali, l’anziana riceveva in nero quote di affitti, i giornalisti impazzano) accanto all’indagine sul 1944 (del gruppo intorno al regista e dello stesso Robecchi), entrambi da risolvere con nuove idee.
A inizio anno 2024 il giornalista (spesso argutamente radicale e satirico), autore televisivo (con Crozza dal 2007) e affermato scrittore Alessandro Robecchi (Milano, 1960) era uscito con il decimo godibile romanzo dell’ottima serie metropolitana d’alta qualità, la divertente raffinata epopea monterossiana (il primo volume nel 2014, poi anche vari racconti), giunta in televisione (protagonista il bravo attore Fabrizio Bentivoglio). A autunno 2024 esce il primo romanzo “fuoriserie” (a parte saggi e articoli), molto ben fatto. Il titolo (anche del capolavoro cinematografico del protagonista) riguarda ogni vita e ogni storia, piccola e grande, non a caso in esergo c’è George Simenon (“la verità non sembra mai vera”): occorre cercare di raccontare un sapiens rispettando ciascuno di noi, dare sempre una curvatura universale, di metafora, di senso generale; nel caso della personalità di Augusto De Angelis (Roma 1888 - Como, 1944), un milanese d’adozione (forse), le censure imposte e autoimposte, le differenti versioni e interpretazioni emerse sulle ragioni del pestaggio (più o meno convincenti o ufficiali), le resistenze non eroiche (più o meno libere) a torti imposizioni umiliazioni.
Forse de Angelis era un antifascista riluttante (anche Darwin è stato autorevolmente definito “l’evoluzionista riluttante”), certo le sue attività letterarie non possono essere considerate propaganda di regime (in “Il candeliere a sette fiamme”, settimo della serie, quinto del 1936, si schiera a favore del popolo ebraico) e lo stesso cold case della sua morte, secondo fonti originali cui Robecchi accenna con misurata competente dovizia di particolari, va annoverato fra i misfatti fascisti annebbiati per interesse o dovere. Pure nel caso dei possibili autori o autrici dello strangolamento, il nostro contemporaneo caso caldo, si tende ad ammettere quasi solo ciò che noi decidiamo siano verità, con il nostro timbro, la nostra approvazione, condizionati comunque da esigenze esterne. Particolare attenzione l’autore dedica quindi ai due personaggi, comunque indomiti, che più e meglio si sforzano di scoprire i meccanismi vitali dietro l’omicidio, diventando a loro modo amici del regista: la colta sostituta procuratrice della Repubblica Chiara Sensini e l’arruffato giornalista del “Corriere della Sera” Claudio Tarsi.
La narrazione è in terza persona al presente, fissa sul Maestro Parrini e sulle difficoltà di essere liberi, condensate in una riflessione amara: “La verità non esiste, la libertà è una convenzione, si allarga e si restringe a seconda del periodo storico, dell’ottusità di chi comanda, della volgarità di chi la vieta e la ostacola”. Accanto al percorso documentaristico e visivo di costruzione del nuovo film emergono flash sul decorso e sui pensieri nella degenza ospedaliera di De Angelis e (verso la fine) qualche concreta scena girata con il giovane commissario Carlo De Vincenzi (frequenti le citazioni da alcuni relativi romanzi), geniale e riflessivo, riservato e taciturno, eroe senza saperlo, uno che leggeva i poeti francesi, che misurava le sue indagini su delitti e omicidi con il metro della psicologia umana, che conosceva Freud e si addentrava nei labirinti della mente dei personaggi, mentre invece là dentro (nelle questure) erano solo botte e voci urlate.
Nel romanzo di Robecchi affetti e libertà s’affermano, qualche innamorato compare, non storie d’amore e avventure sessuali. Bianchi, rossi, champagne senza etichette, liquori vari quando ci vuole. Il regista si culla e si cura con il quartetto di Miles Davis. L’autore coglie anche l’occasione per rendere omaggio a Oreste Del Buono e per fare un po’ di storia di quella letteratura “gialla” non solo italiana, che dominava la scena durante la prima metà del Novecento, difesa da De Angelis. Fra le sue opere, cita più volte sprazzi di testo della Conferenza sul giallo scritta tra la fine del 1939 e l’inizio del 1940, comparsa in forma ridotta nella sua stessa prefazione di un romanzo uscito nel 1940, poi pubblicata per intero a cura di Del Buono su “La Lettura” del 1980, con l’aggiunta