L’intrigante bivio di fronte al quale si trova oggi il nostro paese colpito, al pari di tanti altri, dalla pandemia da Covid-19, innescata da un virus aerobico di origine zoonotica e che sta investendo tutte le sfere della convivenza umana, è quello riguardante la scelta della strategia di uscita dalla crisi attuale. Due le opzioni principali. Per un verso, quella del ritorno alla situazione precedente alla crisi, una volta apportati gli aggiustamenti urgenti e necessari. Ciò rinvia al “modello dell’alluvione”: si attende che l’acqua rientri nell’alveo del fiume che è esondato; si rinforzano poi gli argini dello stesso; dopodiché si procede col business as usual. Per l’altro verso, c’è l’opzione della resilienza trasformativa, il cui obiettivo è quello di accrescere le capacità di resistenza del sistema nei confronti di future crisi (già sappiamo, infatti, che l’attuale pandemia non è certo l’ultima).
Se la prima opzione si rivolge alle fragilità, la seconda ha di mira tutti quegli interventi volti a ridurre sensibilmente le vulnerabilità del paese (giova ricordare che essere vulnerabile vuol dire poter ricevere delle ferite). La vulnerabilità dunque non va confusa né con la fragilità, che riguarda l’inconsistenza intrinseca delle cose, né con la precarietà, che designa il carattere transitorio e passeggero di una situazione. Per quanto i danni della vulnerabilità siano assai più seri di quelli associati alla fragilità e alla precarietà, quasi mai nel dibattito pubblico e nell’agire politico il riferimento è alle vulnerabilità. Penso non vi siano dubbi intorno alla scelta da fare. Anche il conservatore più logico non potrebbe non riconoscere che a poco varrebbe fare lo sforzo di diventare più resilienti se lo scopo fosse semplicemente quello di conservare l’ordine sociale pre-esistente.
“ Dopo tutto, perché mai sprecare l’occasione di una crisi così profonda per imprimere al nostro paese un cambio radicale di passo?
Piuttosto, conviene interrogarsi intorno ai punti qualificanti di un progetto trasformativo capace di incidere profondamente sulle cause strutturali del declino che affligge l’Italia da oltre un quarto di secolo. Ebbene, non ho esitazione ad affermare che uno di tali punti qualificanti riguarda proprio il ripensamento radicale del modo di concepire la città e il suo senso. Invero, un territorio può essere concettualizzato come spazio oppure come luogo. La differenza è immediata: lo spazio è una categoria geografica, il luogo, invece, è una categoria socio-culturale; identificare perciò i due termini è errato, oltre che deleterio a fini pratici. Tale distinzione si riallaccia ad un’altra di più antica tradizione, quella tra urbs e civitas. La prima – da cui la parola urbe – è, secondo la felice definizione di Cicerone, la “città delle pietre”; la seconda la “città delle anime”. E dunque la civitas è un luogo che ha una coscienza (“la coscienza dei luoghi” secondo la indovinata intuizione di Giacomo Becattini); l’urbs, uno spazio. “Civitas in civibus est” ha scritto Agostino di Ippona; quanto a dire che non sono le pietre, ma i cittadini a fare la città.
Questa distinzione di pensiero è purtroppo andata persa nel corso degli ultimi tre secoli e ora ne stiamo soffrendo le conseguenze: città ridotte a real estate da costruire, lottizzare e vendere come bene rifugio per qualificate élites. Lo spazio urbano, infatti, è bensì un elemento essenziale della città, ma senza una comunità e un insieme di norme sociali ed etiche condivise, non si può avere una città come civitas, ma solo un mero agglomerato di edifici e strade. È in ciò la differenza tra la città-comunità e la città-spazio urbano (per una trattazione originale e stimolante, cfr. Cristoforo Sergio Bertuglia e Franco Vaio, Il fenomeno urbano e la complessità. Concezioni sociologiche, antropologiche ed economiche di un sistema complesso territoriale, Bollati Boringhieri, Torino, 2019).
Le brevi note che seguono mirano a portare argomenti che valgano a orientare l’opinione pubblica sull’urgenza di avviare un processo trasformazionale – e non meramente riformatore – delle nostre città. Cuore della civiltà moderna, le città sono oggi a un bivio. Proseguire sulla via di crescita incontrollata del XX secolo o diventare il motore di un nuovo modello di sviluppo che metta, in armonia, sostenibilità, economia circolare, pubblica felicità. Preoccupanti, infatti, sono le stime recenti della “United Nations Population Division”, secondo cui il 55,5% degli abitanti del pianeta vive in aree urbane, cifra che salirà al 68% entro il 2050. Nel 2030, 43 saranno le metropoli con più di 10 milioni di abitanti. Già oggi le città consumano l’80% delle risorse alimentari, mentre occupano appena il 3% della superficie terrestre; quanto a significare che sempre più persone si nutrono del cibo prodotto da sempre meno persone. Donde la necessità di ripensare, su basi nuove, i sistemi alimentari urbani (si consideri che il 90% di chi vive negli slum del Sud del mondo soffre di insicurezza alimentare).
Dopo lo scoppio della pandemia, la prospettiva caldeggiata da C40 – la rete di un centinaio di grandi città del mondo costituitasi a seguito degli accordi di Parigi del 2015 – ha acquisito nuova spinta. E ciò in forza della constatazione che l’impostazione seguita durante il secolo scorso di sviluppare le città attorno a piani di zonizzazione per evitare la prossimità tra luoghi di lavoro (le fabbriche) e le residenze, ha generato effetti grandemente perversi. La speculazione immobiliare ha impedito, di fatto, che lo spazio urbano condiviso divenisse luogo di relazione, di incontri comunitari per favorire la prossimità. Eppure, già Francesco Milizia, allievo di Antonio Genovesi all’Università di Napoli, nel suo Principi di architettura civile del 1781, si era speso per un’architettura che vedesse lo spazio di relazionamento, come modalità di connessione tra le persone. Grande il merito dell’architetto Milizia per aver riproposto all’attenzione dei contemporanei la celebre affermazione di Marco Tullio Cicerone: «Le città senza la convivenza umana non si sarebbero potute né edificare, né popolare; di qui la costituzione delle leggi e dei costumi; di qui l’equa ripartizione dei doveri e una sicura norma di vita. Da tutto ciò ne conseguì la gentilezza degli animi e il rispetto reciproco. Onde avvenne che la vita fu più sicura e noi, col dare e col ricevere, cioè con lo scambiarci a vicenda i nostri averi e i nostri poteri, non sentimmo mancanza di nulla». (Dei doveri, II, IV). È difficile trovare una concettualizzazione più chiara e profonda di cosa sia la città, di questa.
Due sono i principali modelli di ordine sociale nati e diffusi in Occidente: il modello della polis greca e quello della civitas romana. Quest’ultima, a differenza della prima, è un tipo di società includente di tipo universalistico e ciò nel senso che l’organizzazione sociale è tale che tutti devono poter essere accolti nella città, sotto l’unica condizione che se ne rispettino le leggi e i principi fondamentali del vivere comune. Non così nella polis greca, alla cui agorà (piazza) non erano ammesse le donne, né i servi, né gli incolti. Quello della polis greca fu dunque un modello di ordine sociale escludente. Come è stato detto, Roma fu cattolica (cioè, letteralmente, universale) prima ancora di diventare cristiana.
È sul fondamento valoriale della civitas che, a far tempo dalla rinascita dell’XI secolo (il secolo del cosiddetto “risveglio europeo”), prende avvio in Italia il modello della civiltà cittadina, una delle più straordinarie innovazioni sociali nella storia dell’umanità. La ripresa della vita culturale, emblematicamente espressa dalla nascita dell’Università a Bologna nel 1088, per un verso, e il successo straordinario della Rivoluzione Commerciale, per l’altro verso, sono all’origine del nuovo ordine sociale centrato sulla “città”. Non però la metropoli capitale di imperi, come erano state Roma o Costantinopoli, luoghi del potere centralistico e crocevia di etnie diverse. Ma la città-comunità di uomini liberi che si autogovernano mediante istituzioni appositamente create, che si attornia di mura per tutelarsi da chi non merita la pubblica fiducia. Lo stesso spazio urbano è disegnato in modo da rendere visibile e da favorire lo sviluppo degli assi portanti della nuova convivenza: la piazza centrale intesa come agorà, la cattedrale, il palazzo del governo, il palazzo dei mercanti e delle corporazioni, il mercato come luogo delle contrattazioni e degli scambi, i palazzi dei ricchi borghesi, le chiese che ospitano le confraternite (si veda il contributo, veramente notevole, di Marino Berengo, L’Europa delle città. Il volto delle società urbane europee tra il Medioevo e l’Età Moderna, Einaudi, Torino, 1999).
Era entro questi luoghi, tutt’altro che virtuali, che venivano coltivate quelle virtù che definiscono una società propriamente civile: la fiducia, la reciprocità, la fraternità, il rispetto delle idee altrui, la competizione di tipo cooperativo. Questo impianto della città è qualitativamente diverso sia da quello dei villaggi agricoli, spesso un mero agglomerato di case senza un’urbanistica che rinviasse a pratiche di autogoverno, sia da quello dei villaggi annessi ai castelli dei signori feudatari. La cifra della città-comunità non è tanto la più grande dimensione, quanto piuttosto la capacità di realizzare coesione sociale e di esprimere un’autonomia politica ed economica. Nel Trecento, nell’Italia centro-settentrionale, dove il modello di civiltà cittadina ha trovato facile diffusione, si contavano già 96 città con più di cinquemila abitanti – 53 delle quali con più di diecimila abitanti – con un’incidenza del 21,4% sul totale della popolazione ivi residente, a fronte di un’incidenza europea del 9,5%. Solamente i Paesi Bassi riuscirono ad imitare celermente il modello italiano, mentre l’Inghilterra ancora nel 1500 aveva un’incidenza della popolazione urbana pari a solo il 4,6%.
L’economia delle città italiane era costituita di manifattori e di mercanti, oltre che di navigatori nelle città costiere. Ai mercanti spettò il ruolo di aprire nuovi mercati, anche a grande distanza, verso i quali riversare i prodotti della manifattura e dai quali importare materie prime e quanto di interessante essi avevano da offrire. I mercanti furono non solamente i più attivi produttori di innovazioni organizzative in campo aziendale, ma anche i più attivi soggetti di apertura culturale. Fu all’interno delle città che si affermò l’amore per il bello: la filocalia che crea e realizza la percezione di un’appartenenza, e quindi facilita le relazioni interpersonali. Se ne ha chiara manifestazione nella costruzione e nell’arredamento delle chiese, nell’edificazione di palazzi, dapprima pubblici e poi anche privati, inaugurando quel mecenatismo che non solo finanziò gli artisti, ma consentì la nascita del mercato dei beni durevoli di carattere artistico. Il mecenate – si badi – non è semplicemente il filantropo che, mentre fa donazioni attingendo alla propria ricchezza, non si cura dei modi del loro utilizzo. Il mecenate, invece, si relaziona con l’artista, instaurando rapporti di collaborazione di lungo periodo, non sempre privi di conflitti, ma certo non anonimi, allo scopo di perseguire obiettivi di interesse collettivo, in funzione dei quali egli pone le proprie risorse e il know-how organizzativo.
La città rappresentava dunque l’ambiente ideale per tutto ciò, e se ne comprende agevolmente la ragione. Di cosa aveva primariamente necessità il nuovo modello di ordine sociale, basato sull’economia di mercato che, in modo del tutto spontaneo, si andava imponendo? Soprattutto di fiducia e di credibilità reciproca, virtù queste che abbisognavano di norme sociali, la cui propagazione l’ambiente cittadino tendeva appunto a favorire. Al tempo stesso, però, un tale ordine sociale finiva con il distinguere nettamente tra coloro che prendevano parte attiva alla costruzione del bene comune attraverso attività economiche esercitate con competenza e con profitto e coloro invece – come gli usurai, gli avari, i manifattori incompetenti, ma anche quei poveri che, pur potendo fare qualcosa, si lasciavano andare all’accidia – che accumulavano solo per sé, tendendo a sterilizzare la ricchezza in impieghi improduttivi. Per garantire che la fiducia non venisse mal riposta, le città si dotavano sia di tutte quelle istituzioni di controllo dell’attività economica facenti capo alla Camera dei Mercanti (in seguito, Camera di Commercio) sia di quelle iniziative di solidarietà civica messe in atto dalle confraternite. Chi sono le persone degne di rispetto e di fiducia? Quelle che non lavorano solo per sé e per la propria famiglia, ma che si adoperano per realizzare opere di carità e che mantengono la parola data: in tal modo, facendosi conoscere ed apprezzare dalla comunità, esse accrescono il proprio capitale reputazionale.
Vengo ora al nostro tempo. Perché nell’attuale fase storica le città sono tornate, dopo un lungo periodo di ibernazione, ad occupare un ruolo di primo piano ai fini del progresso spirituale, sociale ed economico dell’intero paese? La ragione principale è che la seconda globalizzazione ha fatto rinascere, in questo tempo, l’interesse alla città come spazio privilegiato non solo del civile, come era stato da tempo, ma anche dell’economico e del sociale. Invero, la “nuova competizione”, conseguenza diretta della rivoluzione delle tecnologie info-telematiche, chiama in causa non solamente le imprese, ma anche le città. Le quali possono “morire”, cioè declinare rapidamente, assieme alle imprese che in esse operano. E viceversa. Sono le cosiddette economie di agglomerazione a rendere le città attrattori credibili delle attività di impresa. Una città bene organizzata sotto i profili della mobilità, dei servizi pubblici, della logistica, dei servizi sociali, delle proposte culturali è oggi il più rilevante dei fattori di vantaggio competitivo. È un fatto che le attività produttive ad alta intensità di conoscenza sono, quasi interamente, attività cittadine. Il che implica che le “industrie creative” tendono a raggrupparsi in quelle città che sanno offrire opportunità culturali, sociali ed economiche adeguate. Da ciò segue che il governo di una “città creativa” non può non differenziarsi sostanzialmente dal governo di una “città imitativa”.
Le città sono società tutte intere. Tutti i maggiori problemi che intrigano, oggi, la nostra società si presentano come problemi cittadini. Dal che si trae che le città devono tornare ad essere unità strutturate dell’organizzazione sociale, pena il loro inevitabile declino. La strategia dello sviluppo locale, allora, non può prescindere da due idee di fondo. Primo, le politiche territoriali non possono limitarsi alla redistribuzione di risorse date, siano esse di provenienza europea, statale o regionale, ma devono saper liberare gli “spiriti animali”, come li chiamava John Maynard Keynes, presenti nel territorio. Affermazioni del tipo: «Non si riesce a realizzare il tal progetto per mancanza di risorse» sono o prive di senso in quanto circolari oppure costituiscono un’ammissione di incapacità ad amministrare. Secondo, lo sviluppo locale è sempre il frutto dell’azione sinergica di più attori – privati, pubblici, civili – che si autovincolano ad adottare una strategia di tipo cooperativo.
Queste idee trovano il modo di materializzarsi solo in presenza di specifici assetti istituzionali. Non basta la buona volontà dei singoli attori, né la loro retta intenzione. Quel che in più si esige è il passaggio dal government alla governance. Il primo è un sistema di governo localizzato in un determinato centro di responsabilità – tipicamente il Comune – che agisce in nome di un mandato ricevuto dai cittadini. La governance, invece, è il sistema di governo in cui enti locali, società commerciale e società civile interagiscono, secondo ben definite regole, per disegnare il futuro delle città e per dare ad esso concreta attuazione. La governance non è compatibile con una concezione dirigistica dell’amministrare; essa postula, invece, la versione circolare del principio di sussidiarietà.
«Gli Stati cambiano, le città restano» era solito ripetere Giorgio La Pira, il celebre sindaco di Firenze. La città è il luogo per eccellenza in cui si forma e si rafforza l’identità culturale di una comunità di persone. Essa è anche il luogo in cui si coltivano le virtù civiche. È nello spazio cittadino che prendono forma le pratiche sociali e culturali. È nella città che si danno le condizioni per attuare forme varie di democrazia di prossimità. La gestione di una città che voglia dirsi “virtuosa” non può non porsi il problema della propria matrice culturale; il problema cioè di come stimolare il community building. Si tratta, per un verso, di risocializzare i cittadini alla vita politica; per l’altro verso, di favorire la crescita di capitale sociale attraverso il coinvolgimento diretto nella programmazione di attività pubbliche e di servizi per la collettività.
A nessuno sfugge che l’attività delle amministrazioni locali è troppo spesso ostacolata da una triplice sindrome: del NIMBY (not in my backyard), corporativa, sindacale. Nel primo caso, le autorità si trovano di fronte comitati o gruppi di cittadini che si oppongono a politiche pubbliche. Nel secondo caso, i gruppi di pressione, con la strategia della minaccia, premono a monte per impedire che questioni spinose entrino nell’agenda politica. Nel terzo caso, è il timore di generare malcontento nell’opinione pubblica a spingere i governanti verso scelte fin troppo prudenti. È così, come ognuno può costatare, che vengono bloccati progetti in corso d’opera, che proliferano le non decisioni con la tecnica del rinvio, che il dibattito pubblico si focalizza su politiche simboliche poco efficaci. Accade così che politiche pubbliche che incidono in modo drastico sul territorio sempre più spesso generano rifiuti incondizionati; d’altro canto, politiche regolative che toccano abitudini di vita dei cittadini sono afflitte da immobilismo (Giulia Lucertini, “La città circolare”, Equilibri, 2, 2020).
Qual è il presupposto perché la città torni a essere luogo privilegiato di uno sviluppo umano integrale? La risposta è presto detta: che si accetti di passare dal modello tradizionale di amministrazione al modello, che taluno ha chiamato di “amministrazione condivisa” (Sabino Cassese; si veda Gregorio Arena, Cittadini attivi, Laterza, Roma-Bari, 2006). La cifra del nuovo modo di amministrare sta tutta nel diverso rapporto tra politica, amministrazione e cittadini. Nel caso del modello tradizionale, politica e amministrazione si rapportano ai cittadini come un blocco da essi separato e distinto quanto a interessi perseguiti. Nel caso dell’amministrazione condivisa, invece, i tre vertici del “triangolo magico” (soggetti politico-istituzionali, società civile e mondo degli affari) convergono nel perseguimento dell’interesse generale.
Si passa così da un rapporto tra istituzioni e cittadini di tipo bipolare e unidirezionale a uno di tipo multipolare e circolare. L’assunto centrale del paradigma bipolare è che i cittadini sono capaci solamente di perseguire interessi particolari e pertanto che alle pubbliche amministrazioni spetti il compito di farsi carico dell’interesse generale. In questo preciso senso, si può affermare che l’impianto filosofico del paradigma bipolare è hobbesiano. Il paradigma alternativo è quello della sussidiarietà circolare, ossia della partnership sociale, che costituisce la base teorica per il nuovo modello di amministrazione condivisa, secondo quanto previsto dall’articolo 118 della Carta costituzionale. La sussidiarietà è un principio eminentemente relazionale, per la cui realizzazione è necessario instaurare fra soggetti pubblici e privati rapporti fondati sulla trasparenza, la collaborazione, il rispetto reciproco, l’assenza del sospetto.
A scanso di equivoci, conviene rammentare che l’esternalizzazione di funzioni e servizi pubblici, nelle forme degli appalti o dell’outsourcing, è un modo di amministrare che rientra nell’ambito del paradigma bipolare, non di quello sussidiario. La ragione è presto detta: l’amministrazione rimane pur sempre l’unico soggetto legittimato al perseguimento dell’interesse generale, mentre l’affidamento ai cittadini organizzati ha natura solamente strumentale. Il “Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni”, predisposto da Labsus alcuni anni fa, è a oggi adottato da 233 città italiane, e fornisce un quadro di regole chiare sulla cui base sviluppare la cooperazione per la cura dei commons, beni che, come è noto, sono né beni privati né beni pubblici (si veda Elena Granata, “L’Italia del quarto d’ora: ripensare i ritmi a partire dalle città medie”, il Mulino, 4, 2020). I piani strategici attuati nel corso dell’ultimo quindicennio confermano ad abundatiam che il fattore più importante di successo è stata la governance. Invero, le differenze di performance tra una città e l’altra non sono dovute tanto alla diversa qualità delle analisi tecniche o alla diversità delle risorse messe in campo, quanto piuttosto alla diversa capacità di tradurre in pratica il modello della partnership sociale.
Sorge spontanea la domanda: perché la scienza economica ufficiale mai si è fatta carico di studiare il modello di amministrazione condivisa? E, più in generale, perché la città mai è stata presa in seria considerazione dagli economisti mainstream di ieri e di oggi? Costoro hanno volentieri lasciato ai geografi o agli architetti di occuparsi di essa, per concentrarsi o sui grandi aggregati, come PIL, disoccupazione, inflazione, oppure sull’azione del singolo individuo, visualizzato come produttore o come consumatore. Nei loro modelli teorici mai c’è stato spazio per la città, perché non c’è posto per quella terra di mezzo tra la nazione e il singolo, e cioè per quel luogo caratterizzato da rapporti personalizzati, nei quali l’identità mia e dell’altro conta.
Se guardiamo la storia della scienza economica di questi ultimi due secoli, possiamo anche leggerla come una progressiva fuga dalla città: una scienza economica che è diventata sempre meno “civile”. Siamo infatti passati dall’analisi dei primi economisti classici, tutto sommato ancora sociale, alla Robinson Crusoe Economics, che non solo non ha metodologicamente bisogno della città e della vita in comune, ma neanche di Venerdì. E oggi, quando l’economista pensa alla persona umana per poterne studiare i comportamenti, quando costruisce il proprio modello di uomo al fine di poterne isolare e prevedere le azioni, il vecchio homo oeconomicus o il moderno homo rationalis lo immagina dotato di una logica caratterizzata da due principali attributi. Il primo è la strumentalità: il comportamento umano non è un fine ma un mezzo, e la razionalità di un atto è misurata dal rapporto mezzi/fini. Il secondo è l’individualismo, o egoismo filosofico: la persona umana è un ente massimizzatore di obiettivi individuali; questi obiettivi possono avere contenuti diversi (altruistici, masochistici, egoistici...) purché siano individuali, siano cioè i suoi obiettivi. Per restare dentro la razionalità economica, gli obiettivi che massimizzo non possono essere né i tuoi (il vecchio non-tuismo di Philip Wicksteed) né i nostri, ma semplicemente i miei.
Se dunque l’economista vede in questo modo gli agenti economici, si capisce come faccia gran fatica a capire la città, dove invece normalmente nei comportamenti ci sono molte componenti non-strumentali, o “espressive”. Pensiamo alla partecipazione politica o alla contribuzione per il finanziamento di beni pubblici, comportamenti questi che, se letti attraverso la lente della razionalità strumentale, non possono essere compresi appieno. Infatti il soggetto strumentalmente razionale – il fenomeno ampiamente noto con il nome di “free riding” – non dovrebbe né votare né contribuire ai beni pubblici. Non solo, ma molte scelte civili vengono attuate sulla base di un ragionamento non del tipo “qual è il miglior comportamento per me?”, ma “quale è il migliore per noi?”, per la nostra città, per il mio/nostro quartiere, gruppo o comunità. È una razionalità del noi che spesso ispira scelte civili, ci porta a rispettare l’ambiente o a contribuire ai beni pubblici anche quando sarebbe più “razionale” non farlo. Non è ovviamente un caso che i due fenomeni che ho nominato siano al tempo stesso tra i più tipici della vita civile, e tra quelli con i quali gli economisti incontrano i più seri problemi ermeneutici e analitici.
A un ulteriore elemento che dice del nuovo protagonismo in questa stagione delle città, soprattutto di quelle di media dimensione, conviene fare cenno. Alludo al fatto che la città è il luogo ideal-tipico per realizzare la partecipazione democratica dei cittadini ai processi decisionali. La democrazia deliberativa, nel senso di Jürgen Habermas e Bernard Manin, è uno speciale bene relazionale che accresce, coeteris paribus, il livello di felicità, perché un elevato grado di coinvolgimento dei cittadini nella tutela e nella gestione della cosa pubblica aumenta il senso di appartenenza alla comunità. Invero, la concezione deliberativa della democrazia mira alla costruzione di una “sfera pubblica” – nel senso di John Rawls – che sia il luogo dell’espressione della libertà degli individui, in conformità a norme e procedure partecipative rispettose della diversità. Essa si oppone, dunque, all’invadenza del “politico” (à la Hobbes) per ribadire il primato del “civile”, cioè dei corpi intermedi della società, in conformità al principio di sussidiarietà circolare.
Tre sono i caratteri essenziali del metodo deliberativo. Primo: la deliberazione riguarda le cose che sono in nostro potere. (Come insegnava Aristotele, non deliberiamo sulla luna o sul sole!). Dunque, non ogni discorso è una deliberazione, la quale è piuttosto un discorso volto alla decisione. Secondo: la deliberazione è un metodo per cercare la verità pratica e pertanto è incompatibile con lo scetticismo morale. In tale senso, la democrazia deliberativa non può essere una pura tecnica senza valori; non può ridursi a mera procedura per prendere decisioni. Terzo: il processo deliberativo postula la possibilità dell’autocorrezione e quindi che ciascuna parte in causa ammetta, ab imis, la possibilità di mutare le proprie preferenze e opinioni, alla luce delle ragioni addotte dall’altra parte. Ciò implica che non è compatibile col metodo deliberativo la posizione di chi, in nome dell'ideologia o di interessi di parte, si dichiara impermeabile alle altrui ragioni.
Certo, non pochi sono i nodi che devono essere ancora sciolti perché il modello di democrazia deliberativa possa costituire un’alternativa pienamente accettabile rispetto a quello esistente. Il più delicato di questi mi pare quello concernente il nesso tra deliberazione e principio di maggioranza. Dal momento che quella deliberativa è una democrazia che delibera non solo sui mezzi, ma anche sui fini, fino a che punto il principio di maggioranza, che notoriamente non ha valore epistemico, è conciliabile col contesto deliberativo? È applicabile a quest'ultimo il proceduralismo puro, nel senso di John Rawls, secondo cui basta applicare una procedura in modo corretto perché il risultato ottenuto sia giusto? Come si può comprendere, si tratta di problemi importanti e di non facile soluzione. Ma non v’è dubbio che la concezione deliberativa della democrazia, che ha in John Stuart Mill uno dei suoi primi mentori, è, oggi, la via che meglio di altre riesce ad affermare le ragioni del civile. Ciò, in quanto essa riesce a pensare alla politica come attività non più basata sul compromesso e l’inevitabile tasso di corruzione che sempre lo accompagna, ma sulla persuasione e quindi sul consenso, quest'ultimo inteso come accordo ottenuto secondo i canoni dell’argomentazione razionale attorno a interessi comuni che non sono legati alla particolarità degli interessi privati.
Al termine del suo lungo soggiorno veneziano, il grande Goethe ebbe a scrivere nel 1790: «Questa è l’Italia, quella che ho lasciato. Cerchi la correttezza tedesca in ogni angolo intorno. La vita e il suo brulichio sono qui, ma nessun ordine e temperanza. Ognuno pensa per sé, diffida del prossimo, è vanitoso. E i capi degli stati provvedono ancora una volta solo per se stessi». Sicuramente esagerava il celebre poeta tedesco, ma non si potrà negare che, all’epoca, avesse colto nel segno. Ebbene, chi si adopera per far avanzare il ruolo centrale della città non può non adoperarsi per abbattere un tale luogo comune, che tanto danno ha recato e va arrecando al nostro Paese. Recuperare oggi le ragioni della civitas, è il prerequisito per dare la necessaria spinta significativa al progetto del nuovo umanesimo. Come ci ha insegnato un secolo fa Max Weber e oggi Zygmunt Bauman e Luc Boltanski, anche l’economia di mercato moderna ha un bisogno essenziale di uno spirito per poter vivere e crescere. Lo spirito, come ci ricorda la cultura biblica, è il soffio vitale; è ciò che fa vivere e dice che si è ancora vivi. Quando una comunità perde il suo spirito, si arresta il suo sviluppo sia civile sia economico. La carestia di spirito è oggi la prima forma di miseria che sta tarpando le ali al nostro Paese, e all’Europa tutta.