“La bellezza sta negli occhi di chi guarda” è una frase attribuita a Oscar Wilde che però troviamo variamente declinata nella storia della letteratura e della filosofia a lui precedente e successiva, e, insieme anche alla celeberrima massima proustiana: “Ogni lettore, quando legge, legge se stesso”, ci legittima a farci una domanda che noi contemporanei, resi definitivamente avvezzi allo scandaglio dell’io da Freud in avanti, sentiamo come necessaria quando ci troviamo di fronte a opere di potenza senza tempo. Nel caso di specie ci chiediamo: cos’ha di profondamente vicino a noi il sommo Dante Alighieri nato nel 1265 e morto nel 1321? La sua opera è immortale, certo, ma ci parla così tanto perché – forse – Dante Alighieri è in qualche misura novecentesco?
Adrea Afribo, storico della lingua e della letteratura italiana, non ha dubbi: la sua risposta è sì.
“Dante è così novecentesco che, rovesciando la prospettiva – spiega – si può dire che non si può parlare di letteratura del Novecento italiano senza parlare di Dante. Un’affermazione che non è scontata, ma rappresenta una novità perché a dispetto delle tante moine su Dante padre della lingua, la letteratura italiana, e soprattutto la poesia, nei suoi secoli di storia ha fondamentalmente fatto a meno di Dante preferendogli Petrarca e costruendo su Petrarca il proprio classicismo”.
Parte dalla cultura pop Afribo per mostrarci come Dante ci sia indelebilmente tatuato sulla pelle: legge l’Inferno di Dante Don Draper della serie TV Mad man, nella prima puntata della sesta stagione, citano Dante e il suo “eterno dolore” i Baustelle in un pezzo del 2005, e per venire alla letteratura, ma di mondi lontani da qui, il protagonista del romanzo Gli anni della nostalgia del Premio Nobel giapponese Kenzaburo Oe “considera la lettura di Dante la più importante della sua vita”.
Andrea Afribo, nella chiacchierata che abbiamo fatto insieme, ci mostra perché il Novecento sia il tempo in cui le parole che Dante ha scritte sei secoli e mezzo prima abbiano l’agio di esprimersi con ancora più forza e di trovare un’eco nitida negli scrittori di questo secolo: “La ragione è che la letteratura del Novecento italiano è una letteratura che, eccezioni a parte – precisa lo studioso –, è più realistica, entra di più dentro il magma e l’inferno della realtà, ed è dunque anche una letteratura mediamente più anticlassica e più sperimentale”.
“ Dante, unico realista di tutta una secolare letteratura Pier Paolo Pasolini
Aggiunge infatti Afribo: “La realtà di Dante e la realtà del Novecento si incontrano nel grande tema della crisi dell’uomo, nei suoi inferni interiori, nelle grandi tragedie della storia novecentesca: guerre, lager, persecuzioni, gli esili coatti e le prigioni dei regimi totalitari”. E ancora, spiega: “I perseguitati si identificano con Dante. Antonio Gramsci, per esempio, subito dopo il suo arresto, l’8 novembre 1926, scrive urgentemente alla sua padrona di casa perché gli invii in carcere una Divina commedia anche di pochi soldi, e un altro grande esiliato del Novecento, il poeta russo Osip Mandelstam, tra i due o tre libri che poté portare con sé nel gulag siberiano, scelse la Commedia dantesca, oltre, invero, al Canzoniere di Petrarca”.
Gli inferni novecenteschi li conosciamo, così come i cantori – loro malgrado – di quelle torture. Impossibile non pensare a Primo Levi che in Se questo è un uomo, e poi ricordando l’episodio ne I sommersi e i salvati, recita faticosamente il “Canto di Ulisse” a un compagno di lager, e avrebbe dato “pane e zuppa cioè sangue” per averlo potuto avere a mente meglio, ma non è l’unico.
“ Questo è l’inferno Primo Levi
Ci sono anche coloro che l’inferno non l’hanno vissuto ma lo hanno trasferito sulla carta traslandolo dal reale, a partire dalla matrice arcaica dantesca: il neovanguardista Edoardo Sanguineti di Laborintus, Pasolini de La divina mimesis o de Le ceneri di Gramsci (scritto in terzine dantesche). "E poi – ci tiene ad aggiungere Adrea Afribo – ci sono altri due testi dell’estremo contemporaneo e fortemente ispirati alla Commedia dantesca. Uno è un pometto in terzine in dieci canti, con una chiave anche scandalosa, intitolato La tentazione la cui l’autrice è una poetessa molto affermata di oggi, Patrizia Valduga. Il secondo è sempre l’opera di un poeta, il napoletano Gabriele Frasca, ma è un romanzo: Dai cancelli d’acciaio del 2011, dove l’inferno ha il suo epicentro realistico-distopico in una discoteca che si sviluppa tutta nel sottosuolo, a gironi come l’inferno di Dante, tutta sotto il livello del male”.
Infine impossibile non citare Eugenio Montale, il poeta più dantesco del Novecento, perché “sono danteschi – spiega Afribo – coloro che non possono non partire dalla fisicità del reale per costruire i loro testi”. Così anche in Meriggiare pallido e assorto c’è un'eco del sommo poeta, in particolare in quel paesaggio desolato e arido che rimanda a uno dei i canti più riusati dagli scrittori italiani del Novecento: il tredicesimo dell’Inferno, quello dei suicidi. A questo guarda anche Elsa Morante in Menzogna e sortilegio e nel suo recente libro Historiae una poetessa di oggi, Antonella Anedda.