È trascorsa solo qualche settimana dall’ultima missione in Cile, nel deserto di Atacama. Nove persone in tutto, provenienti oltre che dall’università di Padova, dall’University College of London e da università cilene. Obiettivo: studiare le faglie che producevano terremoti circa 120-130 milioni di anni fa, con particolare attenzione verso la Bolfin. Dato che non si possiedono, infatti, mezzi o strumenti per vedere una grande faglia che produce terremoti, poiché si trova in profondità, sorge l’esigenza di studiare i “terremoti fossili” che permettono di osservare in superficie queste strutture profonde.
Nel deserto di Atacama esiste un sistema di faglie lungo fino a 1.000 chilometri che si possono vedere in tutto il loro splendore. Cosa che non è possibile, invece, in Italia dove le faglie espongono solo le parti più superficiali. Ci siamo spostati dall’accampamento ai vari affioramenti in jeep e percorrendo distanze di 60-70 chilometri. Una volta raggiunte le località di interesse geologico ci siamo mossi a piedi e abbiamo attraversato zone a volte anche molto impervie da percorrere. Abbiamo utilizzato i droni che ci hanno fornito immagini sulla struttura e la geometria della faglia e ci sono state utili anche come supporto cartografico.
Riprese di Giulio Di Toro (università di Padova) e Giulia Magnarini (University College of London) dal deserto di Atacama e di Elisa Speronello. Montaggio di Elisa Speronello
In pratica i geologi si muovono sul terreno come si faceva già nell’Ottocento, si raccolgono i dati utilizzando bussole o martelli per i campioni. Oggi però l’impiego dei droni, di hardware e software permette di quantificare la geometria e la complessità di oggetti naturali come le faglie, cosa che fino a qualche tempo fa non era possibile fare. E forse è proprio questa la nuova frontiera della geologia strutturale moderna.