SCIENZA E RICERCA

Il difficile adattamento delle piante alpine rare al cambiamento climatico

Sulle montagne il riscaldamento climatico procede a ritmi ancora più elevati rispetto alla media e a risentirne, oltre ai ghiacciai che si stanno progressivamente riducendo, sono anche le piante che si trovano costrette a migrare a quote sempre più alte. Non sempre però i tentativi di salire di altitudine per ritrovare le temperature adatte vanno a buon fine e a risentirne sono soprattutto le piante autoctone più vulnerabili, già inserite nelle liste rosse IUCN che racchiudono le specie (animali e vegetali) maggiormente a rischio di estinzione. 

Uno studio condotto dall'università di Padova e dalla Fondazione museo civico di Rovereto, recentemente pubblicato sulla rivista internazionale Pnas che gli ha anche dedicato la copertina dell'ultimo numero, ha mappato la flora delle Alpi nord orientali italiane per indagare come è cambiata, nell'arco temporale degli ultimi tre decenni, la distribuzione delle popolazioni che compongono ogni specie.

I ricercatori si sono soffermati anche sulla tipologia delle piante monitorate (autoctona comune, autoctona rara e aliena) e hanno scoperto che l'espansione verso l'alto risulta particolarmente complessa proprio per le piante rare, mentre quelle provenienti da altri continenti e che si sono trovate ad abitare su territori diversi rispetto all'areali di origine sono riuscite a spostarsi con la stessa velocità del riscaldamento climatico raggiungendo quote più alte, pur mantenendo la loro presenza anche a valle.

Il motivo è che il caldo non è l'unica minaccia alla sopravvivenza di alcune piante: ai cambiamenti climatici si aggiungono infatti anche le pressioni ambientali legate alle attività antropiche e in questo contesto il paesaggio alpino ha subito importanti trasformazioni negli ultimi anni. A valle è aumentata l'urbanizzazione e si sono espanse le aree agricole, mentre a quote intermedie la tendenza all'abbandono di aree precedentemente rurali, poco redditizie per l'agricoltura, implica il rischio di scomparsa delle zone aperte e delle praterie che fungevano da habitat ideale per alcune specie rare. 

La pubblicazione, frutto della collaborazione di Lorenzo Marini e Costanza Geppert del dipartimento Agronomia, animali, alimenti, risorse naturali e ambiente dell'niversità di Padova con Filippo Prosser e Alessio Bertolli, esperti botanici della Fondazione museo civico di Rovereto, dimostra che la flora alpina vive un profondo mutamento e che alcune specie rare sono in forte diminuzione, con conseguenti rischi in termini di perdita di biodiversità.

A dare particolare solidità allo studio è anche la numerosità del dataset: i risultati si riferiscono infatti alle osservazioni su oltre un milione di record, appartenenti a quasi 1.500 specie alpine tra autoctone comuni, autoctone rare e aliene. "Abbiamo avuto la fortuna di poterci avvalere del lavoro di Alessio Bertolli e Filippo Prosser che hanno svolto un progetto di monitoraggio della flora sviluppato nell’arco di 30 anni. Dovete immaginarli mentre camminano su e giù per le montagne del Trentino allo scopo di mappare una a una le popolazioni di tutte le specie", spiega Lorenzo Marini a Il Bo Live prima di approfondire la ricerca.

"Grazie alla mole impressionante di dati a disposizione e grazie al fatto che il Trentino ha un gradiente altitudinale molto ampio abbiamo potuto osservare la risposta al cambiamento climatico di questi tre gruppi di piante: le piante comuni, le piante native rare e le piante esotiche. Abbiamo scoperto che rispondono in maniera molto diversa al cambiamento climatico e anche ai cambiamenti più ampi legati alle modificazioni nell'uso del suolo e nelle pratiche agricole", aggiunge Costanza Geppert, prima autrice dello studio.

Lorenzo Marini e Costanza Geppert del dipartimento Dafnae dell'università di Padova illustrano lo studio pubblicato su Pnas. Servizio, riprese e montaggio di Barbara Paknazar

"Il nostro gruppo di ricerca al dipartimento Dafnae dell'università di Padova si occupa di biodiversità. In particolare ci interessa capire come gli impatti antropici vanno ad alterarla e come possiamo individuare degli strumenti gestionali per cercare di mitigare questi effetti negativi legati al cambiamento climatico o a modifiche nell’uso del suolo. Principalmente lavoriamo con le piante vascolari e gli insetti studiando quindi la risposta agli impatti antropici da parte di questi due gruppi, che sono una componente fondamentale della biodiversità", spiega il professor Lorenzo Marini.

Piante alpine in fuga dal caldo

Lo studio "Red-listed plants are contracting their elevational range faster than common plants in the European Alps" pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences aveva l'obiettivo di analizzare come la flora alpina sta modificando la sua distribuzione sulla base dei cambiamenti climatici e di uso del suolo.

"Ci siamo focalizzati su circa 1500 specie, un numero molto elevato e che rende interessante il lavoro. Ogni specie ha una sua distribuzione e cambiano quindi le quote a cui possiamo trovare le sue popolazioni: ad esempio la stella alpina ha una distribuzione molto spostata verso la cima delle montagne, mentre le specie di bassa quota legate ad ambienti urbani sono presenti dal livello del mare fino a 200-300 metri. Per ogni specie avremo quindi una diversa distribuzione altitudinale che ha delle quote di ottimo e delle quote che sono legate ai margini della sua distribuzione: quelli caldi sono il limite inferiore, mentre quelli freddi sono il limite alle quote più elevate", prosegue il coordinatore dello studio.

Il cambiamento climatico scalda le montagne e per restare a temperature costanti le piante sono obbligare a muoversi verso l’alto. "Se prendiamo la velocità del cambiamento climatico, che sulle montagne alpine è particolarmente elevato, le piante si devono muovere circa a 4 metri all’anno", osserva Lorenzo Marini precisando però subito che non tutte le specie sono in grado di muoversi alla velocità del cambiamento climatico.

Il lavoro di ricerca condotto dall'università di Padova e dalla Fondazione Museo Civico di Rovereto ha voluto comprendere quale fosse la velocità reale con cui le piante migrano più a nord, in un contesto di cambiamento climatico ma anche di cambiamento di uso del suolo. "Una specie che si muove su una montagna deve trovare anche degli habitat adatti. L’habitat può essere un fattore limitante: l’agricoltura che cambia, l’uso sempre più intensivo delle valli con l’urbanizzazione sono tutti processi che alterano gli habitat e vanno a modificare la capacità delle piante di muoversi in alto", approfondisce il professor Marini.

Le piante rare perdono rapidamente superficie

Uno degli aspetti più innovativi di questo studio, oltre alla numerosità dei rilievi floristici in campo, è stato la possibilità di esaminare dati con una buona risoluzione spaziale e temporale. I ricercatori hanno così potuto non solo osservare come stesse cambiano la distribuzione delle singole specie ma anche confrontare le dinamiche migratorie di gruppi di specie diverse.

"Abbiamo confrontato cosa fanno le specie aliene e le specie native, suddividendo a loro volta queste ultime in due gruppi: quelle comuni e quelle inserite nelle liste rosse perché caratterizzate da problemi di conservazione dovuti al declino delle popolazioni o a un range di distribuzione piuttosto ridotto. L'obiettivo era capire se le specie in lista rossa hanno la stessa capacità di di muoversi rispetto a quelle comuni e se le specie aliene hanno un vantaggio o una velocità diversa rispetto a quelle native", spiega Costanza Geppert, prima autrice della pubblicazione.

"Le piante rare, che sono quelle nella lista rossa e dunque già considerate in pericolo, hanno ridotto il loro range di distribuzione perché non sono riuscite a spostarsi seguendo il cambiamento climatico nel margine più freddo, mentre il margine più caldo è stato eroso. Un esempio riguarda le orchidee, come l’Orchis purpurea o l’Orchis morio il cui range si è ridotto perché sono specie che hanno delle necessità ecologiche molto precise". La ricercatrice del dipartimento Dafnae spiega infatti che queste piante hanno necessità di spazi aperti come le praterie semi-naturali e per questo motivo a quote superiori, anche se la temperatura sarebbe idonea, non riescono a trovare l’ambiente adatto. Ai margini più bassi il problema è che "questi ambienti si stanno sempre più riducendo "per via del fenomeno dell’abbandono di questi siti più remoti che non sono molto sfruttabili dal punto di vista dell’agricoltura, soprattutto se sono in pendii più scoscesi, sui quali sta iniziando a formarsi di nuovo il bosco", osserva Costanza Geppert.

Al bosco è legato un secondo esempio, di segno opposto, che riguarda una pianta comune come il pino cembro. "E’ tipico dei margini boschivi e abbiamo appurato che è stato in grado di aumentare la sua distribuzione spostandosi verso quote più elevate". Il problema, chiarisce la ricercatrice, si porrà eventualmente quando l'ulteriore aumento delle temperature spingerà il pino cembro verso una migrazione ancora più a nord, dove termina il limite del bosco.

Per quanto riguarda invece le piante aliene un esempio emblematico è la Buddleja davidii, noto come l’arbusto delle farfalle. "E’ una pianta molto diffusa soprattutto lungo il greto dei fiumi, ama molto le zone disturbate e abbiamo visto come la sua distribuzione sia in forte espansione come molte altre piante esotiche che amano gli ambienti più antropizzati. Sono contesti dove può esserci una forte fertilizzazione e queste piante riescono a sfruttare tutte le risorse, a crescere molto velocemente e occupare questi spazi favorevoli spostandosi mano a mano".

Le specie in lista rossa costituiscono circa un terzo della flora del Trentino, quindi già nelle condizioni attuali si trovano in una situazione di minaccia piuttosto forte. Lorenzo Marini

Possibili interventi a tutela delle specie rare

Le specie aliene riescono quindi a espandersi più velocemente verso nord e al tempo stesso si adattano meglio alle basse latitudini, caratterizzate da una maggiore antropizzazione. Ragionando sui possibili strumenti di protezione della flora alpina gli autori dello studio spiegano la maggioranza delle aree protette si trova a quote alte ed è quindi necessario implementare misure di conservazione da attuare ad altitudini più basse.

"Il Trentino ha un’ottima copertura di aree protette. Purtroppo però la loro distribuzione rivela che sono molto spostate verso le zone di alta quota, mentre la maggior parte di queste specie minacciate in realtà si trova a bassa quota, fino agli 800 metri. Parliamo delle zone in cui urbanizzazione, agricoltura e inquinamento impattano in misura maggiore. Quindi essenzialmente siamo osservando un’erosione delle popolazioni appartenenti a specie che vivono a bassa quota, in condizioni in cui non abbiamo strumenti gestionali per proteggerle. Sicuramente non è un compito facile perché abbiamo dei conflitti molto forti tra lo sviluppo economico di un territorio e la protezione della biodiversità", osserva il professor Lorenzo Marini.

Il docente del dipartimento Dafnae dell'università di Padova indica anche altri strumenti che possono affiancarsi alle aree protette. "Le misure agroambienali che si usavano in passato o gli eco-schemi che adesso verranno introdotti dall’Ue ci permettono di sostenere l’agricoltura tradizionale anche al di fuori delle aree protette per mantenere, ad esempio, quegli spazi aperti di cui abbiamo parlato prima. Praterie gestite in modo molto estensivo sono uno degli habitat chiave per la protezione di queste specie in lista rossa. Al contrario invece le specie associate alle aree umide sono ben protette in zone alpine anche a bassa quota e quindi le condizioni sono migliori.

Dobbiamo lavorare di più a bassa quota, cercare di trovare anche degli strumenti innovativi per far convergere gli obiettivi gestionali di un territorio, da una parte lo sviluppo economico e agricolo e dall’altra la conservazione della biodiversità", conclude Lorenzo Marini.

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