La diga in costruzione. Foto: Google Maps
La diga della discordia. Al primo ministro Abiy Ahmed Ali occorreranno tutte le capacità che gli hanno consentito di vincere, la settimana scorsa, il Premio Nobel per la Pace, per venire a capo dell’aspro conflitto diplomatico che oppone la sua Etiopia all’Egitto. Al centro del contendere è la Grand Ethiopian Renaissance Dam, la grande diga del rinascimento etiope. O meglio, i tempi di realizzazione della più grande diga dell’Africa, che è in corso di costruzione sul Nilo Blu.
Ma andiamo con ordine. L’Etiopia sta costruendo questa diga sul Nilo Blu (alla costruzione partecipa anche la ditta italiana Impregilo), uno dei due rami che sono all’origine del fiume più lungo del pianeta Terra. È una diga enorme, che a regime produrrà 6,45 Gigawatt di energia elettrica. Il paese ne ha bisogno, come rileva la rivista scientifica Nature, perché il 66% della sua popolazione non ha accesso a quella che è considerata la forma più nobile di energia. Un record negativo, superato da due soli altri paesi. Va da sé che dare l’energia elettrica ai due terzi degli etiopi che ne sono privi, significa dare un formidabile strumento di sviluppo a uno dei paesi più poveri del pianeta.
Per questo l’Etiopia vuole a tutti i costi la diga. D’altra parte non c’è alcun vincolo legale che glielo impedisce. È vero, esiste un accordo del 1959 che riconosce all’Egitto il diritto alla captazione di 55,5 miliardi di metri cubi/anno dal fiume e al Sudan quella di 18,5 miliardi di metri cubi/anno. L’accordo fu firmato in occasione della costruzione della diga di Assuan, in Egitto, che tanto clamore suscitò allora, anche perché furono spostati i famosi templi.
Ma quell’accordo coinvolse solo il Sudan e l’Egitto, non l’Etiopia, che in ogni casa ha diritto a costruire la sua diga, secondo le leggi internazionali. Diritto che l’Egitto non contesta. Il conflitto è sui tempi.
La diga è ormai completata al 60%. Per ultimare i lavori occorrerà un certo tempo, durante il quale il flusso di acqua verso valle diminuirà. L’Etiopia vuole ultimare i lavori entro 5 anni, assicurando un flusso di 35 miliardi di metri cubi l’anno. Anche perché Abiy Ahmed Ali vuole utilizzare acqua ed elettricità sia per prevenire (l’idroelettrico è energia rinnovabile e carbon free) sia per contrastare gli effetti dei cambiamenti del clima. Infatti ha intenzione di piantare 4 miliardi di alberi. 350 milioni li ha fatti piantare, qualche settimana fa, in un solo giorno. Un autentico record.
Tuttavia c’è il rovescio della medaglia. Prima di proporla, vale la pena ricordare che la riduzione del flusso per cinque anni riguarda solo il Nilo Blu, mentre il Nilo Bianco fornirà il solito quantitativo di acqua. Tuttavia la quantità di acqua assicurata dall’Etiopia non basta all’Egitto. Il Cairo vuole sia aumentare il flusso – 40 miliardi di metri cubo/anno – sia allungare i tempi di costruzione della diga, portandoli ad almeno 7 anni.
Il discorso è anche di valutazione scientifica. Secondo Kevin Wheeler, in forze all’università inglese di Oxford, con un regime medio di piogge, un flusso di 35 miliardi di metri cubi/anno per un periodo compreso tra 5 e 7 anni non determinerebbe alcuna scarsità di acqua per l’Egitto. Ma nessuno può assicurare che, in questi anni, non ci sia un periodo di piogge scarse. E, dunque, qualche problema potrebbe effettivamente sorgere. Inoltre l’Egitto chiede certezza nell’approvvigionamento, perché molto colture ne hanno assoluto bisogno.
Nature riporta una dichiarazione di Ismail Serageldin, già vicedirettore della banca Mondiale, famoso per aver predetto già nel 1995 che il XXI sarà il secolo delle guerre per l’acqua. Nella fattispecie, Serageldin – che ora è un consulente del governo egiziano – sostiene che per un conflitto c’è tempo. Che ci sono ampi margini per una trattativa. In fondo le posizioni non sono così distanti. È una dichiarazione che fa ben sperare.
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Ma è anche un fatto, però, che a inizio ottobre le trattative tra due delegazioni a livello di ministri non ha sortito risultato alcuno.
Intanto la costruzione della diga prosegue.
La vicenda genera da un intreccio di fili che definisce un ordito importante. Il primo è che l’accesso all’acqua potabile costituisce occasione di conflitti, come sosteneva Ismail Serageldin un quarto di secolo fa. Quello tra Etiopia ed Egitto (e Sudan) ne è un esempio. La speranza è che resti nella sua dimensione giuridica e politica. In questo caso la speranza è ben fondata. Ma in altri casi analoghi non lo è affatto.
Gli altri fili principali sono la crescita demografica (un fenomeno che interessa l’Africa intera, compresi Egitto ed Etiopia), la crescita economica (anche in questo caso è coinvolta, in maniera diversa da paese a paese, l’Africa intera), sia i cambiamenti climatici che fanno sentire il loro peso maggiore proprio nella fascia tropicale e, dunque, coinvolge l’Africa.
Ne deriva che il modo in cui il problema tra Etiopia ed Egitto verrà risolto influenzerà molto la “geopolitica dell’acqua” nel continente nero e non solo.
Occorre uno sforzo di fantasia diplomatica aggiuntiva che per ora fa fatica ad affermarsi. L’Egitto, per esempio, ha chiesto sia l’arbitrato della Corte di Giustizia dell’Aja sia l’intervento mediatore degli Stati Uniti. Proposte che l’Etiopia ha seccamente rifiutato.
Occorrerebbe risolvere il contenzioso nell’ambito delle Nazioni Unite. Ma in questo momento il Palazzo di Vetro lì a New York ha poco potere e nessuna possibilità di intervento, mentre la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja non sembra essere percepita come indipendente. Stiamo raccogliendo il frutto di anni di delegittimazione degli organismi sovranazionali e assistiamo, di conseguenza, al ritorno della prassi della lotta di tutti contro tutti.