SOCIETÀ

Diremo addio al secondo bisestile?

Un giorno un professore di filosofia entrò in classe e chiese ai suoi allievi quali fossero le loro certezze, se ne avevano. Sembrava una domanda semplice, e molti alzarono la mano per proporre le loro. Il professore chiese se se la sarebbero sentita di confermare quello che avevano detto se, in caso di errore, avessero preso un voto basso. Alcuni dissero subito di no, altri decisero di rischiare. Il professore alzò la posta: avrebbero confermato le loro certezza se, in caso di errore, avessero dovuto rinunciare a un braccio? La penna che uno studente aveva tirato fuori dall'astuccio era molto probabilmente blu come lui aveva dichiarato, ma c'era anche la possibilità che un collega, per fargli uno scherzo, avesse sostituito il refill mettendone uno rosso… E il distributore di merendine vicino all'aula S poteva certamente essere ancora lì, ma se nel frattempo avesse avuto un guasto e quelli della manutenzione lo avessero prelevato? Valeva la pena rischiare un braccio?

E quello studente che aveva asserito che una giornata durava 24 ore, avrebbe confermato la scelta? No, nella storia originale quello studente non esisteva, e per fortuna, perché se avesse confermato avrebbe dovuto dire addio per sempre al suo arto. Alle elementari in effetti ce lo insegnano: la Terra impiega 24 ore a fare un giro su se stessa e 365 giorni a fare un giro completo intorno al Sole. Questa certezza granitica ha un unico difetto: è sbagliata, e non di poco, perché in realtà a fare un giro su sé stessa la Terra impiega 23 ore, 56 minuti e 4 secondi. Ma allora perché i nostri orologi ci ricordano che la giornata finisce a mezzanotte, esattamente 24 ore dopo essere iniziata?

Il problema è il punto di riferimento che scegliamo. Il Sole, in questo caso, torna matematicamente molto utile, ma non dobbiamo dimenticare che mentre la Terra gira su se stessa gira anche intorno a questa stella, il che sballa un po' le cose. Spieghiamolo un po' meglio: se prendiamo come riferimento una stella fissa e contiamo quanto tempo impiega a tornare nello stesso punto rispetto alla Terra, arriviamo a quelle 23 ore, 56 minuti e 4 secondi (viene chiamato giorno siderale). Il nostro pianeta però avrà bisogno di 4 minuti in più se prendiamo come riferimento il Sole, perché mentre gira su se stessa il punto terreste che avevamo preso come riferimento iniziale per individuare la posizione del Sole si sarà allontanato dal suddetto, e ci vorrà un certo tempo perché torni "in posizione". Questo ritardo è di 4 minuti e 54 secondi: sembra perfetto per fare la cifra tonda e si chiama giorno solare medio.

Per approfondire visivamente

Ma facciamo un passo indietro, perché nella storia sono cambiati molto i modi e gli strumenti tramite i quali veniva misurata la durata del giorno. Fino a fine Settecento veniva utilizzato come sistema di misura il giorno solare vero, cioè il tempo impiegato dal sole per tornare al meridiano celeste da cui era partito (il meridiano celeste è un cerchio sulla sfera celeste che va dal Polo Nord al Polo Sud celesti, cioè quelli all'intersezione tra l'asse di rotazione della Terra e la sfera celeste. Visivamente, in un certo senso, contiene la Terra). La durata del giorno solare vero, però, non è costante, perché dipende dall'inclinazione dell'asse e dall'orbita terreste: la differenza tra un giorno solare e un altro può arrivare fino a 51 secondi. Per questo motivo nel 1884 è stato introdotto il tempo universale (UT1), basato sul giorno solare medio, quello di cui abbiamo parlato poco sopra.
E visto che noi non usiamo il giorno siderale  ma il giorno solare medio, il nostro braccio è tutto sommato al sicuro quando diciamo che un giorno dura 24 ore, no? E invece no, perché nemmeno il giorno solare medio dura 24 ore, anche se l'entità dell'arrotondamento è ben diversa rispetto al giorno siderale.

In effetti, la velocità della rotazione della Terra è arrotondata, di poco, ma abbastanza per creare problemi nei secoli, perché una giornata non dura 24 ore, ma qualche frazione di secondo in meno.
Questa frazione di secondo di ritardo ha anche un altro difetto: non è costante. Esatto: noi non sappiamo precisamente quanto dura un giorno, quantomeno non a priori, tanto che stiamo parlando di ritardo, ma dal 2020 la Terra sembra invece avere una certa fretta. Si parla sempre di qualche frazione di secondo, ma in meno, e la cosa, anche se non sembra, costituisce un problema.

Per ovviare al ritardo originario, nel 1967 è stato introdotto il tempo coordinato universale (UTC), misurato dagli orologi atomici al Cesio, e nel 1972 l’International'Earth Rotation and Reference Systems Service ha cominciato ad aggiungere, ogni anno, uno o due secondi bisestili (o intercalari) ogni volta che il tempo astronomico (UT1, quello basato sul giorno solare medio) si allontanava più di 0.9 secondi da UTC. E siccome il tempo di rotazione non è costante, non lo sono neppure i secondi bisestili (ne sono stati aggiunti 28, in media uno ogni anno e mezzo, e non ne è mai stato tolto nessuno, per ora).
Da una parte, insomma, abbiamo gli orologi atomici, che ci restituiscono un tempo matematicamente determinato, che restituisce una scala di tempo stabile, mentre dall'altra abbiamo UT1, che procede invece di pari passo con il movimento di rotazione della Terra, per sua natura instabile e imprevedibile. Anche se differiscono di pochissimo (per ora), decidere di utilizzarne uno piuttosto che un altro significa prendere una posizione forte: da una parte decidiamo per un tempo artificiale e predeterminato, dall'altra preferiamo essere più aderenti alla realtà mutevole del movimento terrestre.

Fino ad ora si è scelto l'UTC, ma anche questa piccola certezza, però, potrebbe sgretolarsi presto: alla Conferenza generale sui pesi e le misure (CGPM) si è deciso che dal 2035, o forse anche prima, il tempo astronomico UT1 potrà differire da UTC di più di un secondo senza che vengano aggiunti all'anno i secondi bisestili. Noi non ce ne accorgeremo nemmeno, forse tra qualche secolo si comincerà a notare una minima differenza, ma a quel punto potrebbero essere stati inventati strumenti di misura più precisi, in grado di coordinarsi senza aggiungere artificialmente il secondo bisestile. Oppure, arrivati a un livello di divergenza ingente tra UT1 e UTC si potrebbe aggiungere direttamente un'ora bisestile, rendendo meno frequenti le modifiche (più o meno ogni mille anni, in pratica).

Ma perché, tutto d'un tratto, è stata presa questa decisione? In parte per l'aumento della velocità di rotazione della Terra, che potrebbe rendere superfluo il secondo bisestile, anche se non lo sappiamo ancora. A parte questo, però, aggiungere un secondo era un'operazione meno banale di quanto si possa pensare. Se per un orologio da polso un secondo in più all'anno cambia ben poco, così non è per le infrastrutture tecnologiche (basti pensare alla crisi del "millennium bug": certo, è stata meno ingente di quanto si era paventato, ma il cambio non è stato indolore per tutte le macchine) e proprio per questo motivo tra le aziende che caldeggiavano la soppressione del secondo bisestile c'erano Meta e Google.

Curiosamente, però, il secondo bisestile aveva anche degli insospettabili estimatori: i russi, infatti, si sono detti fortemente contrari a questa modifica, e ora stanno facendo pressione per posticiparla almeno al 2040: il loro sistema di navigazione satellitare Glonass, infatti, include già i secondi bisestili e non è escluso che si mettano di traverso, se non altro temporeggiando. Lo stesso CGPM ha proposto di consultare altre organizzazioni internazionali per capire quanto UT1 e UTC possono divergere prima di prendere provvedimenti, quindi le modalità con cui verrà portata avanti questa modifica sono ancora in forse.

In altre parole per salvare il nostro braccio non possiamo usare la durata del giorno, né tantomeno dell'anno, come certezza. Si può sempre aprire un giro di scommesse clandestine sull'incapacità dei propri compagni di trovare qualcosa di abbastanza granitico da rischiare un arto, perché puntare sull'incertezza, di questi tempi, sembra essere la cosa più sicura da fare.

(Con la collaborazione scientifica del professor Leopoldo Benacchio che ringraziamo)

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