SCIENZA E RICERCA

Le donne, la medicina e il problema del 2%

L’ultima di una lista piuttosto breve è stata la cinese Tu Youyou nel 2015. Le donne che hanno ottenuto il premio Nobel in medicina sono state in tutto 12. I maschi 207. Le donne cui è stato assegnato il prestigioso premio sono, dunque, il 5,5% del totale. Questa fortissima asimmetria di genere rappresenta una realtà (tra gli scienziati eccellenti i maschi sono quasi la totalità?) oppure è l’indice di una certa aria di discriminazione che si respira anche (persino) a Stoccolma?

Difficile dirlo. Certo che questa negazione della presenza femminile in medicina è considerata da alcune un’usurpazione storica. Ecco cosa scrivono Barbara Ehrenreich e Deirdre English nell’incipit di un loro libro, Witches, Midwives, and Nurses: A History of Female Healers, pubblicato nel 1973 dalla casa editrice Feminist Press:

Le donne sono sempre state guaritrici. Esse sono state medici e anatomiste senza diploma nella storia occidentale. Eseguivano gli aborti, erano infermiere e consigliere. Erano farmaciste, coltivavano le erbe mediche e si scambiavano i segreti sul loro uso. Erano ostetriche e si spostavano di casa in casa, di villaggio in villaggio. Per secoli le donne sono state medici senza laurea, mai citate nelle bibliografie, che hanno appreso l’una dall’altra, e comunicando la loro esperienza da vicina a vicina e da madre in figlia. La gente le chiamava “donne sagge” mentre erano considerate streghe o ciarlatane dalle autorità. La medicina è parte della nostra eredità di donne, una nostra primogenitura.

Le donne sono sempre state guaritrici. Esse sono state medici e anatomiste senza diploma nella storia occidentale. Eseguivano gli aborti, erano infermiere e consigliere

Le autrici non sono storiche di professione ma due attiviste del movimento femminista che, proprio negli anni ’70 del secolo scorso, ha sottolineato il tema della sotto rappresentazione delle donne nella scienza in generale e nella medicina in particolare. Lo spirito era anche quello implicito nello slogan allora in auge “il corpo è mio e lo gestisco io” e, dunque, la rivalutazione delle donne medico nella storia era un modo di proporre una “medicina per le donne” realizzata da donne.

E, infatti, il libro di Barbara Ehrenreich e Deirdre English ha avuto e ha tuttora ampia risonanza. Numerose, infatti, sono state le nuove edizioni, l’ultima a quanto ci risulta, nel 2010.

La tesi di Barbara e Deirdre, sostiene una storica della scienza di professione, Monica Green, è che nell’Ottocento e nel primo Novecento, le donne sono state le vittime del controllo medico maschile e persino della misoginia imperante negli ospedali e nei laboratori. Questa lettura dei fatti – che, sosteniamo noi non è del tutto infondata - è diventata egemonica anche (persino, dice Green) nella ricostruzione della storia della medicina.

Nel corso degli anni ’60 e ’70 del XX secolo sull’onda delle rivendicazioni del movimento femminista sono uscite dall’oscurità figure di donne medico importanti tanto nell’antichità (Artemisia, Agnodice, Sorano, Metrodora) quanto nel Medio Evo (Trotula de Ruggiero, Ildegarda di Bingen).

Operazione meritoria, sostiene Monica Green. Ma che ha necessità di sfatare due miti presenti anche nel testo di Barbara Ehrenreich e Deirdre English. Si tratta di due miti in parte contraddittori, ma che ritroviamo entrambi nella narrazione femminista della storia della medicina che pure ha il grande merito di aver squarciato il velo di una ricostruzione storica che di fatto negava (e nega ancora) la presenza delle donne in medicina. Uno è il mito che i maschi hanno iniziato a occuparsi di medicina delle donne e segnatamente di ginecologia, usurpando il ruolo delle donne, solo in tempi relativamente recenti: dopo la professionalizzazione della medicina. Il secondo mito è che Artemisia, Agnodice, Sorano, Metrodora, Trotula de Ruggiero, Ildegarda di Bingen non sono fiori nel deserto, ma espressioni di una presenza massiva e secolare di donne in medicina la cui presenza è stata negata solo a partire dal XVIII secolo.

Questi due miti, sostiene Monica Green, vanno sfatati. Non perché dicano falsità in assoluto, ma perché dicono una verità parziale. Una verità parziale che, lungi dall’offuscare figure come quella di Artemisia o di Trotula o di Ildegarda, al contrario le esalta.

Monica Green scende nel dettaglio storico. Critica, per esempio, Ehrenreich ed English quando sostengono che il parto sarebbe stato un ambito di intervento esclusivo delle donne per almeno un millennio, periodo durante il quale valeva la teoria e soprattutto la pratica secondo cui “la salute delle donne è un affare di donne”. Non solo il parto, la nascita e la cura dei bambini, ma tutto il complesso della salute femminile. Ovviamente a queste funzioni assolvevano donne prive di una cultura medica formale: mamme, infermiere, levatrici, tutte portatrici piuttosto di una cultura medica popolare, frutto di una tradizione meramente empirica o anche magica. Unica eccezione, le mulieres salernitanae: le donne della Scuola medica di Salerno.

Questa presenza delle donne in medicina (almeno nella medicina per le donne) sarebbe venuta meno, secondo Barbara Ehrenreich e Deirdre English, con la professionalizzazione dell’attività medica, che nel mondo anglosassone è avvenuta nel Settecento. A questo punto i maschi, formalmente educati, hanno preso il posto delle donne non solo nella medicina generale, ma anche nella ginecologia e nell’ostetricia. La sessualità e la riproduzione, anche la sfera della sessualità e della la riproduzione delle donne, sono diventati un “affare solamente maschile”. La natura rivoluzionaria di questo cambiamento non può essere sovrastimata, sostengono Ehrenreich ed English, perché fino a quel momento tutta la medicina che attiene all’apparato genitale e al sistema riproduttivo delle donne in tutte le parti del mondo era esclusivo appannaggio delle donne. Per migliaia di anni solo le donne avevano avuto accesso al corpo di una donna incinta e partoriente. Era, per l’appunto, “un affare di donne”. Gli uomini erano ammessi solo a entrare in sala parto a parto avvenuto. Unica eccezione, qualche serissima emergenza.

Monica Green critica duramente questa versione della storia proposta in Witches, Midwives, and Nurses: A History of Female Healers, come spesso gli accademici fanno nei confronti di esti di autori che non sono specialisti della materia. Si comprende, sostiene la storica americana, come il pamphlet di Barbara Ehrenreich e Deirdre English abbia potuto avuto un successo che si è trasformato in egemonia culturale negli anni ’70 del XX secolo.  Non si comprende perché abbia continuato ad avere successo negli anni successivi e abbia influenzato anche gli storici professionisti. Perché la ricerca storica ha acquisito una solida documentazione che dimostra esattamente il contrario: un’autorità maschile pressoché indiscussa anche in fatto di ginecologia ed ostetricia è stata presente ben prima del Settecento o anche del Quattrocento e del Duecento. In realtà c’è sempre stata. I medici maschi, in maniera pressoché assoluta, si sono occupati da sempre di ginecologia, di ostetricia, di mestruazioni e di infertilità e di controllo delle nascite, sottraendo queste funzioni alle donne.

Prova ne sia, sostiene Monica Green, che di circa 250 testi stampati in Europa in una qualsivoglia lingua prima dell’anno 1700, solo 5 erano stati scritti da ginecologhe donne: il 2% appena.

Le donne sono state le vittime del controllo medico maschile e persino della misoginia imperante negli ospedali e nei laboratori

Una percentuale su cui ritorneremo. Che indica chiaramente che le donne medico anche prima del Settecento sono state poche. Questa constatazione è stata spesso interpretata, dai medici maschi, con una certa misoginia. Monica Green ricorda, per esempio, quanto ha scritto un professore di anatomia di Yale, Thomas Forbes: «La ginecologa, a quel tempo [prima della professionalizzazione della medicina] era generalmente una donna vecchia, ignorante e incompetente, riceveva pochi riconoscimenti economici, occupava il livello più basso della società e viveva una vita lunga e probabilmente infelice. L’arrivo dei medici maschi, con le loro conoscenze anatomiche e i loro strumenti ostetrici, rappresentò la salvezza delle donne che per secoli avevano sofferto sotto le mani di donne vecchie, ignoranti e incompetenti».

Con un simile approccio da parte della cultura medica maschile, è facile da comprendere come al tempo della “rivoluzione femminile” sia potuta nascere una contronarrazione “dalla parte delle donne”. Non solo i libri di Ehrenreich ed English, dunque. Ma diversi testi tesi a valorizzare il ruolo delle donne nel corso della storia della medicina in generale e della ginecologia in particolare. Tendendo a proporne una visione sovradimensionata della reale presenza delle donne in medicina.

In questa contronarrazione ritorna in particolare la “riscoperta” di figure del Medioevo europeo, come quelle di Trotula De Ruggiero o di Ildegarda di Bingen. Una “riscoperta” certo giustificata. Le due sono state pietre miliari della medicina del loro tempo. La salernitana in particolare, ricorda Monica Green, è l’eccezione che conferma la regola: infatti «a eccezione di Trota, ogni autore noto di testi medievali sulla medicina delle donne (e vi sono almeno 150 di questi lavori) erano maschi».

Monica Green sottolinea come l’unicità di Trotula resti tale per molti secoli. Mentre la produzione scientifica e divulgativa dei medici maschi, anche in fatto di medicina per le donne, continua e si incrementa.

Di qui la falsificazione, secondo Green, delle due tesi di Ehrenreich ed English: 1) non è vero che, prima della professionalizzazione della medicina, la “medicina delle donne era un affare di donne”. A dominare la scienza medica (e la scienza tout court) sono stati pressoché esclusivamente i maschi. 2) È vero che ci sono figure femminili che, come per l’appunto Trotula, infrangono questo scenario totalizzante. Ma sono – e resteranno per secoli – eccezioni. Magari straordinarie, ma pur sempre rarissime eccezioni. Come sono presenti in tutti i campi dell’agire umano. Che forse non conosciamo figure femminili nelle arti – come non ricordare la pittrice Artemisia Gentileschi – e persino in campo militare: per esempio Giovanna d’Arco, la pulzella d’Orleans? Ma si tratta pur sempre di rarissime eccezioni: rientrano nel famoso 2%.

Circa 250 testi stampati in Europa in una qualsivoglia lingua prima dell’anno 1700, solo 5 erano stati scritti da ginecologhe donne: il 2% appena

Torniamo ora al presente. La storia degli ultimi 120 anni ci dice che in medicina l’imperio del 2% resta. Magari è un po’ migliorata: le donne Nobel sono il 5,5%. Ma pur sempre una piccolissima minoranza. Dunque il dibattito sulla presenza delle donne in medicina non è una mera pedanteria. Al contrario, costituisce è uno strumento per interpretare la storia della medicina e la presenza delle donne in medicina, Le due tesi falsificate da Monica Green ci sembrano – ma il dibattito è aperto – una riaffermazione dell’importanza del rigore storico anche per chi, oggi, pensa che bisogna definitivamente spalancare la medicina all’altra metà del cielo. O, detta in maniera più banale, per meglio perseguire il bene della medicina, delle donne e dell’intera umanità. Non si può fondare però questa più che legittima aspirazione su narrazioni deboli. La narrazione della storia deve essere solida, perché solo così potremo capire dove ha origine la discriminazione ed evitarla nel presente e in futuro.

Resta un problema, sollevato da più parti, sulla divulgazione della storia delle donne in medicina (o, più in generale, nelle scienze e in ogni altra attività umana): fa bene o no al rigore storico soffermarsi solo sul 2% delle donne che ce l’hanno fatta e dimenticarsi dei processi che hanno portato e portano alla discriminazione di genere?

Vale la pena parlare di Agnodice o di Ildegarda ed esaltare il loro genio e la loro capacità di forare il tetto di cristallo, dimenticandoci delle condizioni che hanno impedito a tante altre Agnodice e Ildegarda di seguire le proprie attitudini?

La domanda non è accademica. Nella comunità degli storici (delle storiche) molti (molte) sostengono che limitarsi al 2% significa in fondo non aggredire le cause della discriminazione. Dunque può essere un boomerang per chi, appunto, intende spalancare la medicina (e delle scienze, e di ogni altra attività umana) all’altra metà del cielo.

E tuttavia non è scritto che occuparsi di quel 2% significa dimenticarsi del restante 48%. Le due attenzioni sono certo diverse, ma complementari. Ricordarsi di Artemisia, Agnodice, Sorano, Metrodora, Trotula de Ruggiero, Ildegarda di Bingen o di Rita Levi Montalcini non significa necessariamente dimenticarsi di tutte le altre donne che hanno realizzato cose importanti in medicina o che non hanno potuto realizzare cose importanti, pur avendone le capacità.

Tutto questo per dire che presto Il Bo Live pubblicherà un nuovo libro, dedicato alle donne che si sono distinte nella storia culturale di Padova. Parleremo del 2%, ma non dimenticheremo il 48%.

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