UNIVERSITÀ E SCUOLA
Donne e università: un confronto tra Italia e resto del mondo
Il tema della scarsa presenza di donne nel corpo docente universitario è un argomento molto caldo che porta spesso a profonde riflessioni sulle cause e sulle possibili azioni da intraprendere per un significativo miglioramento dello stato attuale.
Dato nazionale
Tuttavia, qualsiasi riflessione su tale argomento deve prendere spunto dai “numeri” sia nazionali che internazionali. L’analisi della situazione attuale (al 15 gennaio 2019, dati Miur) indica che in tutti i ruoli universitari di docenza (professore ordinario, PO, professore associato, PA, ricercatore a tempo indeterminato, RU, ricercatore a tempo determinato di tipo B, RTD-B, ricercatori a tempo determinato di tipo A, RTD-A), su 53.995 docenti, 20.470 sono donne con una percentuale che si aggira intorno al 38%. Se si effettua un’analisi numerica per ruoli si osserva che le donne rappresentano il 44% degli RTD-A, il 41% degli RTD-B, il 49% degli RU e si assiste ad un decremento al 38% nei PA e ad una forte decrescita nei PO toccando il 24%. Da questa prima analisi, è evidente che il problema principale, o forse l’unico vero problema dell’università italiana, stia nella numerosità estremamente limitata di PO donne e di conseguenza il numero di donne in posizioni di “potere” è certamente esiguo. Infatti, il 38% nelle posizioni di PA non può essere considerato un problema reale in quanto si tratta di un numero molto vicino alle posizioni di RTD-B (es.: 41%, quelle posizioni che danno accesso diretto dopo 3 anni alle posizioni di PA). Inoltre, non essendovi “quote rosa” o “quote azzurre” da rispettare per legge, si può ritenere che un rapporto di numerosità 60% uomini contro 40% donne o viceversa sia un compromesso in qualche modo accettabile.
Dato per università con oltre 1.500 docenti
L’analisi delle università italiane con un numero di docenti superiore ai 1.500 non evidenzia grandi differenze rispetto al dato nazionale, con variazioni nelle posizioni di PO che vanno dal 21 (Palermo) al 28% (Milano Statale e Torino); nelle posizioni PA si va dal 35 (Palermo) al 43% (Milano Statale, Torino e Bologna); nelle posizioni di ricercatore, facendo un’analisi sulle tre tipologie RU, RTD-B e RTD-A si raggiunge in media la parità di genere con una variazione tra il 45 (Napoli) ed il 51% (Milano Statale) di donne. Il dato nazionale sulle tre categorie si attesta intorno al 47% di donne.
Il dato sulla fascia dei ricercatori/ricercatrici da un lato lascia davvero ben sperare in quanto ci si potrebbe aspettare che le attuali giovani ricercatrici andranno a migliorare le percentuali nelle fasce superiori da PA e PO. Dall’altro lato sarà necessario monitorare da vicino i trend di crescita al fine di verificare se in realtà le fasce superiori manterranno una numerosità costante nel numero di donne. Ciò che in realtà può dare un’importante indicazione in tal senso è l’analisi delle numerosità riferita a circa 20 anni fa in Italia al fine di comprendere se vi siano stati progressi o meno.
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Il trend di crescita dal 2000 al 2019
I dati Miur riferiti all’anno 2000 mettono in evidenza un dato estremamente positivo per quanto riguarda la fascia di docenza più alta di PO. Il dato nazionale indicava una percentuale di donne PO al 13% contro l’attuale 24%. In termini di unità, nel 2000 l’Università italiana contava su 13.026 PO uomini e 2005 PO donne; al 15 gennaio 2019, può contare su 9.969 PO uomini e 3105 PO donne. Lo stesso trend si osserva nella seconda fascia di docenza PA in cui le donne nel 2000 rappresentavano il 28% contro l’attuale 38%. Infine, anche nella terza fascia RU (aggregando il dato sulle tre fasce attuali rispetto all’unica RU esistente nel 2000) si osserva un leggero aumento dal 2000 ad oggi con un aumento dal 42 al 47% di donne.
L’analisi nazionale rispetto all’anno 2000 mette senza alcun dubbio in evidenza che l’università italiana sta lentamente ma inesorabilmente migliorando il rapporto di genere in tutte le categorie con un sorprendente +11% proprio nella fascia di docenza più elevata dei professori di prima fascia. Si osservano le stesse variazioni positive nei grandi atenei italiani con variazioni che vanno da un +9% (Palermo) ad un +15% (Firenze). Effettuando un’ulteriore analisi sul numero di PO nel 2009 (a circa metà strada tra il 2000 ed il 2019), si osserva che l’aumento di donne nelle posizioni PO è perfettamente lineare. Con tale ritmo di crescita, per quanto apparentemente positivo, si potrebbe raggiungere il 40% di donne PO solo nel 2046 e la parità di genere a metà del 2063. È evidente che, per quanto “qualcosa” di importante si stia muovendo, tutto questo non sia ancora un ritmo soddisfacente e la nostra nazione debba intraprendere azioni che possano migliorare i trend descritti.
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Cosa succede all’estero?
Ma quali sono gli scenari a livello universitario all’estero? Se si pone la domanda ad un qualsiasi cittadino italiano (e non), la risposta non può che essere una: “l’Italia machista avrà certamente meno donne rispetto alle grandi università americane, inglesi, francesi e tedesche”. E invece ecco che l’analisi eseguita su molte università europee e americane ci mostra un lato molto positivo e decisamente poco prevedibile della nostra bistrattata Italia.
Un primo confronto lo si può fare con il Regno Unito dove in media il numero di professoresse nella più alta fascia di docenza si attesta intorno al 22%, leggermente al di sotto delle percentuali italiane (ma la percentuale è decisamente al di sotto di quelle italiane se nel conteggio venissero incluse anche le posizioni di PA). Per quanto riguarda ad esempio l’università di Oxford (prima università europea per il ranking internazionale QS nel 2019 e quinta al mondo), il numero di professoresse donne (considerando tutti i livelli di professore) si attesta al 25% (Equality Report, 2016/17, University of Oxford) ma si attesta al solo 17% nei ruoli più elevati di PO. L’Università di Cambridge (seconda università europea e sesta al mondo) raggiunge solo il 18% di donne considerando tutte le possibili posizioni di professore (2015-16 Equality & Diversity Information Report, University of Cambridge).
Ancora in Europa, un ulteriore confronto può essere fatto con una nostra vicina di casa, la Svizzera: sommando PO e PA, si raggiunge circa il 21% (Gender monitoring, www.swissuniversities.ch), fortemente al di sotto della percentuale italiana. I dati relativi alla principale università svizzera, l’ETH (università che si pone al terzo posto in Europa e settima al mondo nel 2019), sommando professori di prima e seconda fascia, mostrano una percentuale di donne estremamente basso vicino al 12% (dato del 2017 estratto dal Gender Monitoring 2017/2018 dell’ETH).
Per quanto riguarda la Danimarca, il dato disponibile per l’università di Copenhagen (riferito al termine del 2015, Action Plan for Career, Gender and Quality – equal opportunities in research and management – 2015 report; University of Copenhagen) indica una percentuale di donne PO pari al 22%; una percentuale anche inferiore è invece riportata per l’università di Aahrus con il 17% (Department of Political Sciences, University of Aahrus).
La Germaniamostra un dato nazionale medio intorno al 22% di donne in posizione da professore (3rd Gender Equality Atlas, ministero federale per la Famiglia, Anziani, Giovani e Donne, 2014), con le due principali università di Monaco di Baviera, la TUM e la LMU (prima e seconda nel QS ranking in Germania e al 61° e 62° a livello mondiale), che mostrano percentuali di donne nel ruolo di professore tra il 18 ed il 22%, rispettivamente (see facts and figures su www.uni-muenchen.de e Teaching Staff su www.professoren.tum.de).
La Francia mostra un 18% di donne nella categoria più alta di professori ma considerando solo le discipline scientifiche (unici dati disponibili del 2018 forniti dal ministero dell’Alta Formazione francese) e quindi è ipotizzabile una percentuale decisamente più elevata considerando anche le discipline umanistiche.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, un progetto della Harvard University (Sharma, Gilkerson, Zhang 2018) riporta i dati relativi alle principali università. Nel dettaglio, si osserva che ad esempio per la Brown University e Princeton, nella più alta categoria di professori, il 25% di questi sono donne. Quasi identiche percentuali sono riportate per la Columbia University e per la Stanford University. Stessi numeri per la Harward.
Il Consiglio Europeo delle Ricerche (ERC)
Cosa possiamo dire a livello di Consiglio europeo delle Ricerche? È ben noto che una delle principali fonti di finanziamento della ricerca scientifica in Europa è certamente l’ERC. Se si effettua un’analisi delle tre tipologie di finanziamenti individuali dal 2007 al 2016, si osserva che vince un ERC Starting Grant il 27% di donne (possono prendere parte a tale competizione i ricercatori che al momento della sottomissione del progetto hanno terminato il dottorato di ricerca da 2 a 7 anni); vince un Consolidator Grant il 28% di donne (in questo caso coloro che partecipano devono aver terminato il dottorato da 7 a 12 anni) e vince un Advanced Grant soltanto il 14% di donne (possono partecipare tutti i ricercatori senior senza limiti di età che abbiano ottenuti importanti successi nella ricerca negli ultimi 10 anni). Quindi anche in questo caso, e forse in modo anche più significativo, all’aumentare della “posta” in gioco il numero di donne vede un forte decremento.
Conclusioni
I dati a livello nazionale mostrano che le donne nelle università italiane hanno raggiunto percentuali quasi identiche a quelle degli uomini per le posizioni da ricercatore (RTDA+RTDB+RU = 47% donne). Si osserva una generale diminuzione nelle posizioni di PA (40% donne) e un forte calo nelle posizioni di maggior livello di PO (24% donne). Tuttavia, se confrontati con i dati riferiti al 2000, si osservano forti aumenti in tutte le posizioni con un significativo +11% proprio nelle più alte posizioni di PO. I dati a livello locale non vedono differenze così importanti tra i vari atenei, rispettando così le percentuali del dato nazionale. Per quanto la crescita sia significativa, questa rimane tuttavia ancora molto limitata: infatti, se si mantenessero linearmente tali tassi di crescita, si raggiungerebbe la parità di genere nelle posizioni da PO praticamente nel 2060.
Per quanto non sia mai semplice effettuare dei confronti a livello internazionale, da una prima analisi appare che il sistema universitario italiano soffra meno degli altri in termini di percentuali di donne nelle posizioni di professore più elevate. Le variazioni in nostro favore non sono effettivamente molto marcate ma i trend di crescita dal 2000 ad oggi lasciano davvero ben sperare per la nostra nazione.
Un altro fenomeno non discusso in questo articolo è la differenza di reddito tra donne e uomini nell’università. Almeno da questo punto di vista, l’Italia per legge prevede che i due generi abbiano lo stesso reddito, reddito che nel resto del mondo universitario è decisamente superiore a favore del genere maschile.