SOCIETÀ

La doppia svolta della Finlandia: la NATO e la vittoria della destra

L’ingresso formale della Finlandia nell’Alleanza Atlantica (ieri a Bruxelles s’è tenuta la cerimonia ufficiale) ha una forte rilevanza sia da un punto di vista simbolico sia concreto, per i futuri assetti geopolitici. Simbolica perché riporta vigore e compattezza d’intenti a quel sistema integrato di difesa militare, nato nel 1949 nel pieno della Guerra Fredda proprio per contrastare l’influenza del blocco sovietico in Europa: una “missione” che ha ripreso vigore e ragione dopo l’invasione russa in Ucraina. Pratica perché Finlandia e Russia condividono 1.340 chilometri di confine: e questo consentirà alla Nato di aumentare la sorveglianza “diretta” del fianco orientale. E di poter garantire una maggiore difesa ai paesi potenzialmente più esposti a un eventuale attacco russo, come quelli che si affacciano sul Mar Baltico, vale a dire Estonia, Lituania e Lettonia. Una Nato più forte e sempre più estesa (nel 2017 era entrato il Montenegro, nel 2020 la Macedonia del Nord) è senza dubbio un problema in più per il Cremlino. «È innegabile – scriveva alcuni mesi fa la rivista Foreign Affairs - che l’invasione dell’Ucraina da parte del presidente russo Vladimir Putin è stato un grave errore. Qualunque cosa Putin possa realizzare sul terreno nel Donbass, portare la Finlandia e la Svezia nelle braccia della NATO è un prezzo pesante da pagare. È probabile che la maggior parte dei russi concluda che li ha lasciati in una posizione geostrategica più debole nel complesso». La Russia ha già annunciato, per voce del viceministro degli Esteri, Alexander Grushko, che saranno prese “contromisure”: «Rafforzeremo il nostro potenziale militare nella direzione occidentale e nord-occidentale». Una forma di “distrazione militare”, dal momento che altre decine di migliaia di soldati russi dovranno essere dispiegati a difesa di quel confine, distogliendoli, si presume, dalle dinamiche più direttamente collegate al conflitto in Ucraina.

Per la Finlandia invece l’adesione all’Alleanza Atlantica è un passaggio davvero storico. Dopo oltre settant’anni di neutralità, sancita nel trattato del 1948 stipulato proprio con l’Unione Sovietica di Stalin (da cui la definizione di “finlandizzazione”), ora quel “cuscinetto” non esiste più. E l’innesco è da ricercare proprio nell’invasione russa in Ucraina, evidentemente percepita dalla popolazione come una minaccia diretta alla sicurezza nazionale. Basti pensare che appena un anno e mezzo fa, nell’ottobre del 2021, appena il 24% dei finlandesi si era dichiarato favorevole all’ingresso nella Nato. A maggio del 2022 quella percentuale è balzata al 76%. Più lungimirante s’è dimostrata la politica finlandese, che già da anni lanciava messaggi di avvicinamento al blocco occidentale: «Il rafforzamento della cooperazione multilaterale è un obiettivo chiave di lunga data della nostra politica estera»,scriveva due anni fa il ministero degli esteri finlandese. «La cooperazione multilaterale è parte integrante della sicurezza e del benessere della Finlandia e del suo popolo. Come sarebbe la nostra società se non avessimo un sistema giudiziario funzionante o nessun diritto umano? Che dire di un mondo senza gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite, senza l'Organizzazione Mondiale della Sanità o senza il diritto internazionale?» La nota era firmata dal ministro degli esteri Pekka Haavisto, lo stesso che ieri ha partecipato a Bruxelles alla cerimonia ufficiale di ingresso della Finlandia nella Nato.

Vincono la destra e l’estrema destra

È stato, probabilmente, il suo ultimo atto in quella veste: Pekka Haavisto con ogni probabilità non sarà riconfermato nella squadra del prossimo governo. Perché le elezioni che si sono appena svolte in Finlandia hanno ribaltato lo scenario politico, assecondando un “vento di destra” che sempre più si sta affermando in Europa (dalla Svezia alla Polonia, dai Paesi Bassi all’Italia, e attenzione a quel che potrebbe accadere nel medio termine in Francia e in Spagna). A conquistare la maggioranza, con il 20,8% (e 48 dei 200 seggi all’Eduskunta, il Parlamento finlandese) sono stati i conservatori del National Coalition Party, con il loro leader Petteri Orpo, 53 anni, ex ministro delle Finanze e prima ancora degli Interni e dell’Agricoltura, che ora aspira, legittimamente, a ricoprire il ruolo di primo ministro. Ma i numeri del Kokoomus (coalizione in finlandese) non basteranno a garantire una solida maggioranza: dovranno stringere alleanze. Quella più probabile, per vicinanza ideologica e numerica, potrebbe essere con i Perussuomalaiset (i veri finlandesi), populisti di estrema destra, filotrumpiani, sovranisti, euroscettici, con diversi esponenti condannati per razzismo, che con un clamoroso successo hanno conquistato 46 seggi. La loro leader è Riikka Purra, 45 anni, fieramente anti-russa e filo-ucraina, una sorta di “Meloni artica” che sulla battaglia ai sussidi per gli immigrati ha costruito il suo consenso, ha ottenuto il maggior numero di preferenze individuali, consensi aumentati di sei volte rispetto al 2019). Bisognerà vedere se Petteri Orpo (assieme ad alcune delle formazioni “minori”, come il partito di Centro, la Lega Verde o l’Alleanza di Sinistra, tutte uscite ridimensionate dal passaggio alle urne) vorrà legare il suo nome a quello dell’estrema destra finlandese, correndo un concreto rischio d’immagine, oltre che di sostanza (su immigrazione, cambiamento climatico e posizionamento all’interno dell’UE non sarebbe semplicissimo trovare un’intesa con una formazione in rapidissima ascesa e perciò poco incline ai compromessi). L’alternativa al governo “blu-nero” potrebbe essere una coalizione “blu-rossa”, qualora il Kokoomus decidesse di chiamare al tavolo proprio i socialdemocratici della premier uscente Sanna Marin (terza, con il 19,9% dei voti), che esce sconfitta dalla tornata elettorale pur avendo, l’SPD, aumentato i suoi seggi in Parlamento (43, da 40 che erano). «Lo scenario più probabile è che il Partito socialdemocratico e il Partito conservatore non saranno in grado di allineare le loro politiche economiche nella stessa direzione e i socialdemocratici rimarranno all’opposizione», scrive in un’analisi il tabloid finlandese Italehti. Perché proprio sui temi economici si è incentrata la campagna elettorale, con i socialdemocratici a criticare i (promessi) tagli alla spesa pubblica e al welfare proposti dalla destra, mentre l’NCP puntava tutto sulla “disciplina fiscale” e sulla riduzione del debito pubblico (che sotto la gestione del governo guidato da Sanna Marin è cresciuto dal 66 al 73%). Oppo, dopo la vittoria, ha promesso che “curerà la Finlandia”: la “medicina” sarà un risparmio di 6 miliardi di euro in spese sociali (a partire dai sussidi di disoccupazione), oltre a un drastico taglio delle tasse per stimolare la crescita economica.

Felicità, droga, alcol: le contraddizioni della Finlandia

È quindi un doppio cambio di passo che la Finlandia si trova oggi ad affrontare, sia sul piano interno sia su quello internazionale, con quest’ultimo a prevalere in queste ore, soprattutto per la concomitanza della cerimonia di adesione all’Alleanza Atlantica. Con il presidente finlandese Sauli Niinistö che da Bruxelles ha dichiarato: «La Finlandia è diventata oggi il 31° membro dell’alleanza di difesa Nato. L’era del “non allineamento militare” nella nostra storia è giunta al termine. Inizia una nuova era». Alla cerimonia di adesione hanno partecipato il Segretario di Stato americano Antony Blinken e il Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Il presidente finlandese ha voluto anche precisare il senso dell’adesione del suo paese alla Nato, ottenuta in tempi rapidi grazie anche al voto favorevole della Turchia, che invece ancora sta bloccando l’ingresso della Svezia: «La nostra adesione all’Alleanza è una strada a doppio senso», ha precisato Niinistö «poiché la Nato fornirà sicurezza alla Finlandia, ma anche viceversa. E non è mirata contro nessuno, né modifica le basi o gli obiettivi della politica estera e di sicurezza. La Finlandia è un paese stabile e prevedibile che cerca una risoluzione pacifica delle controversie. I principi e i valori che sono importanti per la Finlandia continueranno a guidare la nostra politica estera anche in futuro», ha ribadito il presidente, augurandosi infine una rapida soluzione dell’impasse per la Svezia.

Quella stessa Finlandia che per il sesto anno consecutivo è risultato come il “paese più felice del mondo”, secondo le classifiche per il 2023 stilate dal World Happiness Report, analizzando diversi parametri: “aspettativa di vita sana, reddito (Pil pro capite), sostegno sociale, bassa corruzione, tasso di generosità (in una comunità in cui le persone si prendono cura l’una dell’altra) e libertà di prendere decisioni chiave per la vita”. Anche gli altri paesi nordici, Danimarca, Islanda, Svezia e Norvegia, hanno ottenuto ottimi punteggi. La classifica non tiene conto tuttavia di alcuni parametri importanti, come la disoccupazione o la disuguaglianza, perché – come precisa lo stesso World Happiness Report – “non sono ancora disponibili dati internazionali comparabili per l’intero campione di paesi”. Come non tiene conto di un altro dato che stride assai con il generico concetto di “felicità”. Un dato fornito dall’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, che lo scorso anno ha stabilito che la Finlandia è il paese europeo con il maggior numero di decessi correlati all'uso di stupefacenti tra le persone sotto i 25 anni in proporzione alla sua popolazione (una media di 5 decessi a settimana). «I consumatori di droga in Finlandia – si legge nel rapporto dell’organismo di monitoraggio - muoiono in media dieci anni prima rispetto a quelli degli altri paesi dell’Unione Europea». Mentre il 14,8% dei finlandesi di sesso maschile sopra i 15 anni di età soffre di “disturbi da uso di alcol”, secondo l’ultimo studio pubblicato dal World Population Review. In cima a questa classifica ci sono Ungheria, Russia e Bielorussia, con percentuali ben superiori al 30%.

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