Foto: Reuters/Nacho Doce. L'attivista e politica Sonia Guajajara, portavoce delle popolazioni indigene
Secondo l’INPE, l’Istituto nazionale brasiliano di ricerche spaziali, nei primi sette mesi del 2019 la deforestazione dell'Amazzonia sarebbe aumentata del 62% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Non solo: anche gli incendi sono aumentati. Prendendo come riferimento il periodo tra gennaio e agosto 2019, in Brasile si sono registrati 73.000 incendi, con un aumento dell'83% rispetto al 2018.
La tutela dell'Amazzonia, la risorsa mondiale più importante per combattere il riscaldamento globale, non rientra nell'agenda di Bolsonaro, impegnato a cedere la foresta pluviale alle multinazionali, interessate alle attività minerarie, agricole e alla costruzione di dighe. I dati allarmanti, che sono stati forniti dall'agenzia nazionale di ricerca spaziale, non sono riusciti a frenare le azioni del presidente: dopo aver pubblicato il report relativo alla deforestazione, il diretto dell'INPE Ricardo Galvao è stato spinto a dimettersi. La causa principale è stata l'accusa da parte di Bolsonaro di aver presentato dei dati non veritieri, incolpando i funzionari dell'istituto di aver manipolato le informazioni e di essere al "servizio delle ONG".
Un tentativo di proteggere l'Amazzonia dal suo declino e dall'odierno governo brasiliano è arrivato anche da oltreoceano, in particolare dalla Norvegia e dalla Germania che hanno bloccato i finanziamenti al fondo per la sopravvivenza della foresta. Bolsonaro non ha ritardato la sua risposta, additando Oslo per la caccia alle balene e suggerendo a Berlino di investire questi soldi sul rimboschimento dello stato tedesco.
Le conseguenze di questa catastrofe ricadrebbero non solo sull’ambiente ma anche sulle popolazioni locali indigene, già vittime degli interessi economici del governo brasiliano e delle multinazionali. Il 9 agosto si festeggia ogni anno la giornata internazionale delle popolazioni indigene, in concomitanza con il Forum nazionale delle donne indigene. Nel 2019 questo evento ha assunto un altro significato in Brasile: numerose donne provenienti dalle tribù indios brasiliane e non solo si sono date appuntamento a Brasilia per protestare contro il governo di Bolsonaro, in difesa del proprio territorio e dei diritti che il presidente sta minacciando dall’inizio del suo governo.
Territory: our body, our spirit: questo è lo slogan che è risuonato durante le varie proteste. Nella giornata del 12 agosto circa 300 donne indigene hanno occupato l’edificio del Ministero della Salute, in particolare gli uffici del Segretario speciale per la salute indigena: Luiz Henrique Mandetta, ministro della sanità, ha annunciato lo scorso aprile il trasferimento della fornitura di servizi medici agli indigeni alle autorità locali, in precedenza compito del governo. Le comunità indios temono che non ci siano le infrastrutture e i professionisti adatti a offrire un’assistenza sanitaria adeguata, vista la specificità medica richiesta. Dopo dieci ore, la manifestazione si è conclusa con la promessa del ministro di discutere la questione con i leader delle comunità.
Le proteste sono continuate anche il giorno seguente: è stata organizzata la First Indigenous Women’s March, la prima marcia delle donne indigene, insieme alla sesta edizione della Marcia delle margherite, la più importante mobilitazione nella zona latino americana per i diritti delle donne nei campi. Secondo i media locali, circa 3.000 donne, provenienti da 110 gruppi etnici, sono scese in piazza, chiedendo assistenza sanitaria di base, attività di istruzione e ricerca e azioni contro ogni forma di monetizzazione della cultura indios.
Bolsonaro contro le popolazioni indigene
Secondo l’organizzazione Survival, sostenitrice di tutti gli indigeni del mondo, in Brasile vivono 305 tribù, circa 900 mila persone, e la maggior parte dei territori protetti abitati da popolazioni indigene si trova proprio in Amazzonia, il 98,5% del totale. Tra gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, numerosi indigeni subiscono violenze, dall’omicidio al furto delle terre, a causa di attività economiche come il commercio della gomma, la costruzione di dighe idroelettriche e l’allevamento intensivo: diverse tribù purtroppo scomparvero per sempre.
Nel 1973 il governo brasiliano decide di promulgare lo Estatuto Do Indios, una legge dedicata all’integrazione di queste popolazioni con il resto della società. Le manifestazioni contro la distruzione delle culture indigene che seguirono il decreto portarono a una nuova definizione del rapporto tra Stato e tribù indigene: nel 1988 con la nuova costituzione viene riconosciuto il diritto degli indigeni a occupare i territori ancestrali, garantendo anche il rispetto della loro cultura sotto vari aspetti.
Pur essendo riconosciuti costituzionalmente e avendo il sostegno di numerose organizzazione, le tribù indigene sono ora più che mai sotto attacco dal governo Bolsonaro. Un territorio desiderato dal punto di vista economico, per la presenza di riserve minerarie (una “febbre dell’oro” sta minacciando l’esistenza del popolo yanomami nel nord del Brasile) e per un forte interesse agricolo. Il presidente brasiliano, già in campagna elettorale, ha ostentato la sua ostilità verso il popolo indigeno: tra i suoi primi atti, infatti, ha tolto il diritto di gestire le terre al Dipartimento brasiliano agli affari indigeni, affidandolo al Ministero dell’agricoltura: l’espansione delle lobby dei proprietari agricoli in Amazzonia non ha più ostacoli.
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