CULTURA

Ejzenstejn e la sua capacità autoriflessiva

Dovrebbe essere una buona norma per chi fa il critico - cinematografico o letterario o di altre forme - di non affannarsi a andare a cercare conferme o punti di appoggio a una sua interpretazione di un’opera, singola o complessiva, in dichiarazioni del suo autore. Di solito non è un buon commentatore di quello che ha fatto. Sembra un paradosso ma non lo è. La ragione è semplice, quello che aveva da dire lo ha detto raccontando una storia, poi ogni lettore o spettatore è padrone di metterci del suo. È un altro lavoro. Gli autori che si sottraggono a questa situazione si contano sulle dita di una mano. Ejzenstejn è uno di questi, il regista della Corazzata Potemkin (sì, quella dell’ormai consunta battuta di Fantozzi), di Ottobre, di Aleksandr Nevskij  e di altri capolavori.

La conferma della sua capacità autoriflessiva viene anche dall’ultimo suo libro appena uscito, Il metodo, curato da Alessia Cervini; è l’ottavo volume dell’opera completa degli scritti del regista pubblicata da Marsilio, una vera impresa editoriale, un fiore all’occhiello. È una riflessione a tutto campo, sul proprio cinema, sulle possibilità del suo linguaggio, ma anche in generale su ogni progetto estetico. Quello che impressiona infatti alla prima lettura è la straordinaria conoscenza che Ejzenstejn aveva della storia dell’arte e dei suoi teorici, una specie di miniera senza fondo. Questo primo volume del Metodo (il secondo uscirà il prossimo anno) è un libro volutamente asistematico, ma con un tessuto di intuizioni geniali, che – con gli altri volumi - fanno del regista il maggior teorico della storia del cinema.

Quello che impressiona alla prima lettura è la straordinaria conoscenza che Ejzenstejn aveva della storia dell’arte e dei suoi teorici

Ma nonostante la disorganicità (o, paradossalmente magari proprio per questo) possiamo ricavar delle linee direttrici, delle indicazioni complessive? Se ne possono cogliere alcune emergenti. La prima è quella che oggi con un termine abusato si definisce interdisciplinarietà. Se c’è un regista che, nella teoria e nella pratica, ha saputo indicare le autonome possibilità del cinema e del suo asse portante, il montaggio, è proprio Ejzenstejn. Ne contempo però nei suoi scritti è sempre attento agli apporti che a una teoria dell’arte viene da altre discipline, letteratura o teatro o musica e pittura. Amava Griffith, uno dei maggiori regista del cinema muto americano, ma anche Joyce, al punto di scrivere “Joyce si dedica a quello che io sogno di fare con le mie ricerche di laboratorio nel campo del linguaggio cinematografico”.

Proprio per queste aperture ha sostenuto con forza l’idea che il rapporto tra immagini ha, a suo modo, le stesse capacità della parola; il cinema infatti per lo più racconta delle storie, ma può accedere alla metafora ( i cinefili hanno presente i leoni di pietra che si alzano nella Corazzata) e anche al saggio. Le sue lunghe teorizzazioni sul “cinema intellettuale” vanno in questa direzione.

Teoria, quindi, ma anche pratica, i due campi per Ejzentejn si intrecciano. Ci aiuta molto a capire come sono state costruite le sue opere. Ci aiuta perciò anche a interpretarle. Un’eccezione alla regola cui si faceva cenno all’inizio.

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