UNIVERSITÀ E SCUOLA
A Enrico Lavezzo il premio Feltrinelli per la virologia nella sezione Giovani
Nel febbraio dello scorso anno, quando l’Italia scoprì che il nuovo coronavirus era ormai presente anche sul territorio nazionale, poco si sapeva dei meccanismi di propagazione del patogeno che di lì a poco avrebbe provocato un elevato numero di vittime in tutto il mondo, mettendo a dura prova i sistemi sanitari dei diversi Paesi e costringendo i governi ad attuare periodi di lockdown e rigide limitazioni alle attività e agli spostamenti.
Un contributo scientifico precoce e fondamentale arrivò dallo studio che si è concentrato sul piccolo paese di Vo', località di più di 3.200 abitanti sul versante occidentale dei colli euganei dove si verificò il primo decesso in Italia causato da SARS-CoV-2. Si trattava di un uomo di 77 anni che non aveva avuto alcun contatto con la Cina, un fattore che fino a quel momento era ritenuto un elemento chiave per la diagnosi.
Pubblicato il 30 giugno del 2020 sulle pagine della prestigiosa rivista Nature, questo lavoro di ricerca è stato tra i primi ad intuire, e a dimostrare, la capacità di SARS-CoV-2 di diffondersi avvalendosi anche delle persone in cui l’infezione si sviluppa in forma asintomatica e a fornire informazioni sull’efficacia delle misure finalizzate a limitare la circolazione virale. Nelle fasi successive ha inoltre indagato la persistenza di anticorpi specifici tra le persone contagiate, offrendo indicazioni iniziali anche per quanto riguarda l’estensione temporale della protezione vaccinale. Un tema che in questi giorni è di particolare attualità visto che si sta ragionando sulla necessità di una terza dose in autunno per le persone che hanno completato il primo ciclo della campagna di vaccinazione contro Covid-19.
Nei giorni scorsi l’Accademia dei Lincei ha assegnato i prestigiosi premi Antonio Feltrinelli per l’anno accademico 2020/2021 e uno dei riconoscimenti della categoria giovani è stato destinato alla virologia. A riceverlo è stato Enrico Lavezzo, primo autore dello studio di Vo’ e professore del dipartimento di Medicina molecolare all’università di Padova, per - si legge nelle motivazioni del premio - “l’alta caratura scientifica” del lavoro e per l’ottenimento di dati che hanno consentito di “identificare gli effetti delle misure di contenimento e il sequenziamento dei genomi virali per meglio comprendere la dinamica e l’origine dell’infezione”.
Abbiamo ripercorso insieme al professor Lavezzo questo intenso anno e mezzo di studi incentrati sul nuovo coronavirus, ma abbiamo anche colto l'occasione per conoscere qualcosa in più sulle specializzazioni e sulle conoscenze consolidate durante il suo percorso scientifico e sugli altri ambiti di ricerca a cui si è dedicato.
Enrico Lavezzo è un microbiologo e durante il dottorato si è avvicinato alla programmazione, iniziando così ad occuparsi di bioinformatica. Recentemente ha vinto anche un bando Stars con un progetto che ha l'obiettivo di identificare nuovi target molecolari per lo sviluppo di farmaci contro la tubercolosi. "Faccio analisi di dati al computer, in silico. In particolare lavoro sulla struttura del genoma dei patogeni, alla ricerca di strutture secondarie del DNA. La bioinformatica è una disciplina trasversale e, applicata alla microbiologia, mi consente di spaziare dai virus ai batteri e di collaborare con molte persone sia all’interno dell’ateneo sia al di fuori di Padova".
L'intervista completa al professor Enrico Lavezzo del dipartimento di Medicina molecolare dell'università di Padova. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar
"E’ stato sicuramente un anno e mezzo intenso. Dalla notifica dei primi casi in Cina all’identificazione dei primi casi in Italia e in provincia di Padova è accaduto tutto repentinamente. Purtroppo non ne siamo ancora fuori, anche se adesso le previsioni sono sicuramente più positive rispetto a quanto potevano essere un anno fa", introduce il professor Lavezzo prima di ripercorrere tutta l'esperienza realizzata a Vo', resa possibile anche grazie a un'elevatissima adesione da parte dei cittadini.
Le tappe dello studio di Vo'
"Per noi - spiega - è stata un’opportunità molto importante per fare ricerca perché, in un momento precoce della pandemia, ci siamo trovati ad avere la possibilità di studiare un’ampia popolazione che è stata chiusa in un territorio limitato e abbiamo potuto osservare la dinamica di trasmissione di questo virus su una casistica che a livello mondiale non si è quasi mai ripetuta. Ci sono stati degli altri contesti simili ma questo è stato sicuramente il primo del genere. E’ stato un lavoro immane e ha coinvolto tantissime persone: io sono fortunato ad aver ricevuto questo premio ma rappresento un gran numero di persone che hanno dato il loro contributo a questo studio, sia a livello di laboratorio sia nelle operazioni sul campo che abbiamo condotto a Vo, con molte equipe e tanti giovani che hanno partecipato, anche volontariamente".
Uno dei meriti dello studio di Vo' è stato quello di aver dimostrato che in un elevato numero di persone, oltre il 40%, il contagio da SARS-CoV-2 rimane in forma asintomatica. Un dato che, unito alla notevole carica virale riscontrata anche nei soggetti in cui l'infezione non evolve e non dà luogo ai sintomi della malattia, ha portato a ritenere fondata la possibilità che anche queste persone siano veicoli di contagio dell'infezione.
"Questo lavoro ci ha permesso di avere delle informazioni fondamentali, soprattutto in quella fase iniziale della diffusione del virus in cui le conoscenze sulla possibilità di trasmissione da parte delle persone asintomatiche non erano ancora state consolidate. Noi abbiamo dimostrato che i portatori sani c’erano, erano tanti, avevano anche una quantità di virus comparabile a quella dei pazienti sintomatici e quindi erano quasi sicuramente coinvolti anche loro nella trasmissione", afferma Lavezzo.
Nella primissima fase lo strumento chiave sono stati gli screening eseguiti con i tamponi che consentivano di monitorare eventuali nuovi casi di contagio anche in seguito all'isolamento totale a cui era stato sottoposto il paese di Vo'. Il passo successivo è stato poi quello di effettuare anche dei test sierologici per andare a verificare la presenza di anticorpi specifici: all'inizio l'obiettivo era quello di comprendere meglio il dato di prevalenza dell'infezione - come in seguito ha tentato di fare anche l'indagine Istat a livello nazionale, scontrandosi però con una bassa adesione - mentre in una seconda fase la priorità è stata quella di indagare quanto potessero durare nel tempo gli anticorpi sviluppati dalle persone che erano state esposte al contagio.
I test sierologici: dalle informazioni sulla prevalenza dell'infezione a quelle sulla durata degli anticorpi
"Dai primi studi di febbraio e marzo 2020, che sono quelli successivamente pubblicati su Nature, siamo poi andati avanti e abbiamo continuato a monitorare la popolazione: a maggio del 2020 abbiamo fatto un terzo screening di massa in cui, oltre ad effettuare i tamponi naso-faringei, siamo andati a valutare la sierologia di tutti i cittadini. In quel caso il risultato più importante è stata la valutazione della prevalenza dell’infezione, quindi la comprensione del numero reale di persone che erano state esposte al virus, perché i tamponi che avevamo fatto riguardavano un momento temporale ben preciso ma c’erano persone che potevano essersi infettate prima oppure in seguito. L’esecuzione degli esami sierologici ci ha consentito anche di validare i modelli matematici con cui avevamo predetto quale poteva essere l’effettiva fetta di popolazione di Vo’ che era stata esposta al virus", spiega il docente del dipartimento di Medicina molecolare dell'università di Padova.
"A novembre dell’anno scorso, quindi dopo circa 8 mesi dal focolaio iniziale, abbiamo rivalutato un sottoinsieme della popolazione, richiamando in particolare tutti coloro che erano risultati positivi ad un tampone o all’esame sierologico. Abbiamo analizzato nuovamente la sierologia e abbiamo visto che gli anticorpi persistono, quantomeno per questo periodo di tempo che siamo stati in grado di osservare. I dati di questa fase successiva dello studio sono appena stati accettati per la pubblicazione e usciranno tra pochi giorni"
Gli approfondimenti sulla persistenza degli anticorpi dei cittadini di Vo' entrati a contatto con il virus non sono terminati e il trascorrere del tempo permette di valutare la durata della protezione offerta dagli anticorpi in una finestra più ampia. Tuttavia è sempre importante ricordare che i meccanismi immunitari si avvalgono anche del ruolo fondamentale delle cellule della memoria, in grado di riattivarsi nel caso di una nuova esposizione allo stesso patogeno.
Un nuovo campionamento
"Stiamo proseguendo questi studi perché l’interesse sulla durata di questi anticorpi rimane alto e per questo motivo abbiamo fatto un nuovo campionamento circa un mese fa, anche questa volta soltanto sui soggetti che erano risultati positivi al tampone o all’esame sierologico. Stiamo analizzando i dati in questi giorni e ci aspettiamo di avere entro breve tempo qualche novità che ci consentirà di capire l’evoluzione degli anticorpi a oltre un anno dall’infezione. Questo potrà dare delle indicazioni anche in relazione alla campagna di vaccinanazione e all’ipotesi di fare una terza dose, anche perché nel momento del nostro campionamento avevamo sia cittadini che avevano già fatto il vaccino sia persone che non lo avevano ancora fatto. Potremo quindi anche valutare se l’organismo dei soggetti che avevano già incontrato il virus in precedenza risponde in modo differente alla vaccinazione rispetto a quello delle persone che non sono mai state esposte al patogeno", approfondisce Lavezzo.
La genetica del virus e le risposte sull'efficacia del contact tracing
Gli sforzi dei ricercatori si sono diretti anche sulla genetica, sia dell'agente patogeno che dell'ospite. Sotto il primo punto di vista "ci stiamo dedicando - spiega il docente - allo studio dei campioni che abbiamo ottenuto dalla popolazione di Vo’ per cercare di ricostruire le catene di trasmissione tra le varie persone e capire quanto sia stato efficace il contact tracing nell’individuare effettivamente le persone che potrebbero essere venute a contatto con un positivo e interrompere così le catene di trasmissione. Questo la genetica ce lo può spiegare perché ovviamente due persone che si sono infettate tra loro hanno un genoma virale che è più simile rispetto a persone che invece sono state infettate in contesti differenti".
Verso l'identificazione dei tratti genetici che possono aumentare il rischio davanti al virus
Altrettanto importante è poi lo studio dei fattori genetici che possono avere un ruolo nel differenziare il decorso dell'infezione. Sappiamo infatti che una delle caratteristiche principali di SARS-CoV-2 è proprio l'estrema varietà della risposta individuale al patogeno, tanto aggressiva verso alcuni pazienti, a volte anche giovani e senza comorbidità di particolare rilievo, quanto estremamente blanda in altre persone che, solo dopo l'effettuazione di un tampone o di un test sierologico, scoprono di essere state esposte al virus.
Qualche mese fa due articoli pubblicati su Science avevano svelato che alla base di quasi il 15% dei casi gravi di Covid-19 ci sono predisposizioni genetiche e immunologiche. E nei giorni scorsi un grande studio genetico su scala mondiale, uscito su Nature, ha individuato 13 varianti genetiche caratterizzate da una forte associazione statistica con le possibilità di una persona di sviluppare Covid-19 e ammalarsi in forma grave.
"Esistono sicuramente delle regioni del genoma umano che se presentano determinate caratteristiche, come specifiche varianti o mutazioni, modificano la suscettibilità dell’ospite al contagio o hanno un impatto sulla probabilità dell’avanzamento della malattia da Covid-19 verso quadri clinici più severi". Avere i tratti genetici che sono stati identificati dallo studio appena pubblicato su Nature "dà una maggiore predisposizione verso questo tipo di problematiche. Sono dei fattori di rischio, ma non implicano che chi ha quella genetica svilupperà necessariamente una forma grave di infezione", precisa Lavezzo.
"Anche noi stiamo facendo qualcosa di simile sulla popolazione di Vo' perché abbiamo sequenziato il genoma di circa 300 cittadini: la maggior parte di tutti coloro che erano risultati positivi a SARS-CoV-2 e i loro contatti stretti che non erano invece risultati positivi. Il nostro obiettivo è valutare se ci siano delle differenze genetiche tra questi due gruppi di persone. Abbiamo iniziato l’analisi dei dati da qualche mese ma è un processo laborioso che richiede del tempo. In questo momento stiamo iniziando a studiare la correlazione tra l’HLA (human leukocyte antigen) e lo stato di malattia di queste persone. L’HLA è un particolare tratto del nostro genoma che codifica per delle proteine importanti della risposta immunitaria, in particolare quella adattativa. Quello che stiamo osservando è che alcuni alleli HLA, alcuni tratti genetici specifici di questa regione del nostro genoma, sono più frequenti negli individui che hanno avuto il Covid rispetto a coloro che non hanno contratto l’infezione".
In termini generali, spiega il docente, se questi alleli dovessero risultare più frequenti nella popolazione non infetta questo suggerirebbe un loro possibile ruolo protettivo. Se sono invece maggiormente presenti nella fetta di popolazione che è risultata positiva al virus o che ha avuto sintomatologia potrebbe voler dire che aumentano la suscettibilità al patogeno. "Anche in questo caso ci vorrà un po’ di tempo, ma ci stiamo lavorando e avremo sicuramente dei risultati".
Lo studio iniziato nel febbraio del 2020 a Vo' non ha quindi finito di offrire importanti contributi scientifici finalizzati alla comprensione di tutti i complessi meccanismi di interazione tra SARS-CoV-2 e i suoi ospiti umani e ulteriori novità sono attese nei prossimi mesi.
L'indagine dei fattori genetici che possono condizionare il decorso dell'infezione ha intanto portato anche a scoprire che alcuni fattori di rischio per Covid-19, nello specifico si tratta di varianti genetiche presenti sul cromosoma 3, sono il risultato dell'eredità dei nostri cugini Neanderthal. Agli studi sulle migrazioni preistoriche e alle ricadute sul genoma dei popoli contemporanei sta dedicando il proprio lavoro Luca Pagani, un altro giovane docente dell'università di Padova che ha ottenuto il premio Antonio Feltrinelli dell'Accademia dei Lincei nell'ambito della biologia. Un doppio riconoscimento che potrebbe rappresentare anche uno stimolo allo sviluppo di una collaborazione tra i due scienziati.
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"Gli faccio tantissime congratulazioni. Non ci conosciamo personalmente però potrebbe essere l’occasione buona per farlo visto che il background è simile. Lavoriamo su ambiti che sono diversi ma che hanno molti punti di contatto, quindi potrebbe essere un'opportunità per confrontarci ed eventualmente trovare delle tematiche di collaborazione", conclude Lavezzo.