SCIENZA E RICERCA

Estinzione di massa di fine Triassico: nuove scoperte da uno studio Unipd

In tutte le principali estinzioni di massa avvenute negli ultimi 500 milioni di anni della storia geologica del nostro pianeta è stata individuata una contemporaneità con eventi magmatici di portata eccezionale.

E se nell'estinzione di massa del Cretaceo che 66 milioni di anni fa cancellò i dinosauri dalla Terra e portò alla scomparsa del 75% delle specie viventi, la validità dell'ipotesi dell'asteroide è oggi ampiamente riconosciuta (sebbene sia probabile che i dinosauri fossero già in declino proprio a causa dei cambiamenti climatici collegati alle grandi eruzioni vulcaniche dei Trappi del Deccan, nell'attuale India occidentale), negli altri grandi eventi di estinzione il punto chiave sembrano essere gli sconvolgimenti provocati da periodi di intenso vulcanismo.

Da tempo l'università di Padova è impegnata in un lavoro di ricerca che sta indagando cosa accadde sul pianeta al termine del Triassico, circa 201 milioni di anni fa quando scomparve oltre la metà delle forme di vita terrestri e marine. Nel 2017 lo studio End-Triassic mass extinction started by intrusive CAMP activity, pubblicato su Nature Communications e a cui ha collaborato anche il professor Andrea Marzoli dell'università di Padova, riuscì a stabilire con grande precisione, grazie alla tecnica di datazione Uranio-Piombo sul minerale zircone, che l'inizio dell'evento di estinzione di massa è coinciso con una delle più intense attività magmatiche della storia recente della Terra. Per comprendere l'impatto di queste eruzioni bisogna ricordare che la CAMP è la grande provincia magmatica dell'Atlantico centrale, la più vasta come superficie, con un'estensione di 10 milioni di km quadrati tra Europa, Africa, Nord e Sud America (che all'epoca erano ancora unite nella Pangea). 

I magmi basaltici eruttati e intrusi nella crosta terrestre liberarono grandi quantità di carbonio dalle rocce portando a un raddoppio della CO2 in atmosfera e a un conseguente effetto serra, con un riscaldamento globale di 4-6 gradi. 

Uno studio successivo, pubblicato nel 2020 e coordinato da Manfredo Capriolo del dipartimento di Geoscienze dell’università di Padova, si era poi soffermato in modo specifico su come grandi quantità di CO2 di origine vulcanica potessero aver modificato il clima sulla Terra alla fine del Triassico. Il lavoro, dal titolo Deep CO2 in the end-Triassic Central Atlantic Magmatic Province, aveva ottenuto la prima evidenza diretta di abbondanza di carbonio nei basalti della CAMP, individuando CO2 vulcanica imprigionata in minuscole bolle gassose all’interno di rocce. Dalla ricerca era inoltre emerso come la quantità di CO2 emessa dalle eruzioni vulcaniche studiate sia paragonabile allo scenario delle emissioni antropogeniche previste per il 21° secolo dall’Intergovernmental Panel on Climate Change dell'Onu. 

Pochi giorni fa questa linea di ricerca si è arricchita di un nuovo risultato con la pubblicazione, sempre sulle pagine di Nature Communications, di uno studio che ha rivelato ulteriori dettagli sulle emissioni di gas serra scatenate dall'evento magmatico di 201 milioni di anni fa. Il lavoro, intitolato Massive methane fluxing from magma–sediment interaction in the end-Triassic Central Atlantic Magmatic Province, ha permesso di individuare la presenza di metano in minuscole goccioline fluide preservate nei cristalli delle rocce magmatiche dell'Amazzonia e, come ha spiegato il primo autore Manfredo Capriolo, si tratta della prima evidenza diretta del rilascio di ingenti quantità di metano, prodotto dal riscaldamento di rocce ricche in materia organica, alla fine del Triassico. E' quindi un importante passo avanti verso la comprensione degli effetti climatici provocate dalle emissioni magmatiche di gas serra che innescarono questa enorme crisi biotica. 

Abbiamo chiesto a Manfredo Capriolo, attualmente ricercatore al Centre for Earth Evolution and Dynamics all'università di Olso, e ad Andrea Marzoli, docente del dipartimento Territorio e sistemi agro-forestali dell'università di Padova di illustrarci più nel dettaglio i risultati dell'ultimo studio, sia a livello metodologico sia per quanto riguarda le considerazioni che possono essere tratte e che ci aiutano a fare maggiore chiarezza su una delle big five, come vengono definite le principali estinzioni della storia.

L'intervista completa a Manfredo Capriolo e Andrea Marzoli sullo studio pubblicato su Nature Communications in cui è stata rilevata la presenza di metano nelle rocce magmatiche dell'Amazzonia. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

Lo studio e la prima evidenza diretta di metano nelle rocce della Central Atlantic Magmatic Province

"Molti studi di modelling paleoclimatico - introduce Manfredo Capriolo - avevano individuato nel metano una delle cause principali di questa estinzione di massa. L'’evidenza diretta della presenza di metano non era però mai stata riscontrata prima d’ora".

Il primo autore dello studio approfondisce poi la tipologia e la provenienza dei campioni analizzati e le tecniche che hanno consentito di arrivare a questa scoperta. "Le rocce - spiega Capriolo - provengono dal bacino di Amazonas che insieme a quello di Solimões costituiscono circa un milione di metri cubici di basalti magmatici che sono stati intrusi alla fine del Triassico nei bacini sedimentari dell’Amazzonia. Questi campioni hanno la caratteristica di contenere del quarzo interstiziale, un minerale che si è formato alla fine del processo di cristallizzazione magmatica e al cui interno abbiamo visto la presenza di abbondanti inclusioni fluide".

"Si tratta - continua il ricercatore del CEED dell'università di Oslo - di piccole imperfezioni nei cristalli di quarzo che preservano parte dei fluidi che si sono formati durante la cristallizzazione magmatica. In questi fluidi il metano è molto abbondante e la nostra scoperta consiste nell'aver trovato evidenze della sua presenza nei cristalli magmatici. Attraverso differenti tecniche analitiche abbiamo individuato la temperatura di formazione dei cristalli che hanno intrappolato il metano, abbiamo caratterizzato il metano e con il modelling termodinamico abbiamo calcolato la quantità di acqua che doveva essere presente all’interno del sistema e la quantità di metano nei bacini amazzonici alla fine del Triassico. Questo è un dato molto importante perché permette di correlare non soltanto la quantità di metano che ha attraversato queste rocce 201 milioni di anni fa, ma anche quella che può essere stata degassata in atmosfera implicando delle rilevanti conseguenze paleoclimatiche e ambientali".

Il ruolo del metano nel riscaldamento globale di fine Triassico

"Sappiamo che il metano è un gas serra molto potente - osserva il professor Andrea Marzoli - e ha l’effetto di riscaldare il clima globale terrestre. Non a caso è uno degli aspetti che viene valutato oggi dai decisori politici è come mitigare gli effetti del metano antropogenico. Riferendoci al passato geologico gli eventi magmatici sono risultati contemporanei ad eventi di estinzione di massa e anche ad eventi di cambiamento climatico globale, con un aumento di alcuni gradi della temperatura terrestre. A fine Triassico si calcola che il riscaldamento sia stato intorno tra i 2 e i 6 gradi, a seconda delle stime, e che sia avvenuto in tempi geologici, ma anche assoluti, abbastanza brevi. Si tratta infatti di un periodo compreso nell’arco di qualche decina di migliaia di anni. Questo cambiamento di temperatura ha avuto un impatto sulla biosfera e ha comportato un’estinzione di massa e successivamente un nuovo sviluppo di forme di vita".

Il riscaldamento provocato dal magmatismo ha portato all'immissione in atmosfera di ingenti quantità di anidride carbonica e di metano, causando così cambiamenti climatici e ambientali di enorme portata. Dobbiamo infatti ricordare che quello avvenuto 201 milioni di anni fa nella provincia magmatica dell'Atlantico centrale fu uno dei vasti eventi vulcanici della storia della Terra con eruzioni avvenute nello stesso periodo temporale, dalla Francia alla Bolivia, su un’area complessiva grande come tutta l’Europa. Inoltre la composizione chimica e isotopica caratteristica di questi magmi li rende riconoscibili e distinguibili dagli altri.

"Da un punto di vista geologico - approfondisce il professor Marzoli - sappiamo che ci sono state immissioni di CO2 e di metano perché possiamo leggere nelle rocce sedimentarie che contengono carbonio e in particolare contengono due isotopi del carbonio, principalmente il carbonio 12 e il carbonio 13, che modificano il loro rapporto a seconda del tipo di sorgente di carbonio che viene immessa nell’atmosfera e negli oceani. Abbiamo quindi osservato che alla fine del Triassico, in contemporanea con l’evento magmatico e in contemporanea con l’evento di estinzione, ci sono stati degli shift, delle modificazioni rapide del rapporto isotopico del carbonio nei sedimenti, quindi nelle acque oceaniche e nell’atmosfera".

"Questo - prosegue Marzoli - significa che sono state immesse grandi quantità di CO2 o di metano che hanno modificato il rapporto isotopico su scala globale. Il metano è particolarmente indicato come responsabile di questo cambiamento perché normalmente è di origine biologica e le rocce formatesi da materia organica hanno una composizione isotopica che è compatibile con questi shift. Nel lavoro precedente uscito l’anno scorso sempre su Nature Communications avevamo visto che l’attività vulcanica emette CO2 a livello molto massiccio e può portare a un riscaldamento globale. La CO2 vulcanica ha una composizione isotopica che non è però compatibile con modificazioni di questa portata. Per spiegare un cambiamento così forte era necessario che fosse avvenuta l’emissione del metano che abbiamo trovato in queste rocce dell’Amazzonia. Per essere più precisi occorre sottolineare che quello che noi abbiamo trovato è un flusso di metano attraverso le rocce magmatiche che erano sotto la superficie terrestre, quindi il riscaldamento dei sedimenti intrusi da queste rocce magmatiche ha portato al rilascio del metano. Ovviamente noi non sappiamo se questo metano sia effettivamente arrivato in atmosfera e negli ocenai. Sappiamo però che è partito dalla crosta ed è andato verso l’alto e anche se non possiamo dimostrarlo con i nostri dati è molto probabile che abbia raggiunto l’atmosfera e le acque oceaniche".

In laboratorio per osservare le inclusioni ricche in metano

Tra gli autori dello studio c'è il professor Omar Bartoli, docente del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova, che ci ha aperto le porte del laboratorio per mostrare direttamente dal microscopio le micro-goccioline di fluido intrappolate nel quarzo all'interno dei basalti magmatici e che si sono rivelate ricche di metano.

Omar Bartoli, professore del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova, mostra al microscopio le goccioline di fluido contenenti metano intrappolate nel quarzo dei basalti magmatici della CAMP. Riprese e montaggio di Barbara Paknazar

L'osservazione al microscopio si concentra su piccolissime goccioline di fluido, di dimensione tra 10 e 20 micrometri, intrappolate dentro un minerale che a sua volta si trova all’interno di una roccia. "Queste minuscole goccioline - spiega Omar Bartoli - sono delle istantanee che ci permettono di ricostruire una storia geologica antichissima. In particolare, nel nostro caso, queste inclusioni ricche in metano sono state intrappolate nel quarzo all’interno dei basalti che sono associati alla grande provincia magmatica dell’Atlantico centrale e che è contemporanea ad una grande estinzione di massa, quella data 201 milioni di anni fa alla fine del Triassico. Era sempre stato ipotizzato un forte legame tra l’estinzione di massa e l’attività magmatica, erano state già avanzate ipotesi sul possibile ruolo di CO2 e del metano CH4 ma mai nessuno aveva provato l’esistenza di grandi quantità di metano associate a questa attività magmatica".

"Grazie anche alla spettroscopia Raman - prosegue il docente del dipartimento di Geoscienze - siamo riusciti a individuare metano all’interno delle inclusioni fluide e poi Manfredo Capriolo è riuscito a quantificare con una serie di calcoli la quantità di metano prodotto dall’interazione di questa enorme quantità di magma con le rocce sedimentarie che contenevano materia organica e quindi carbonio. L’interazione tra questa grande quantità di magma estremamente caldo con le rocce del bacino sedimentario ha innescato la formazione di metano. Ma non solo: ha anche arricchito il magma di silice che poi a sua volta durante la cristallizzazione ha prodotto quarzo. Il quarzo cristallizzando dal magma ha intrappolato queste piccole goccioline di fluido, ricche di metano, che ci hanno permesso di ricostruire questa grande storia".

"Siamo quasi certi - conclude Omar Bartoli - che applicando questo approccio ad altri bacini sedimentari che sono stati caratterizzati dall’interazione di elevate quantità di magma potremo individuare gli stessi meccanismi e potremo legare le grandi estinzioni all’attività magmatica di queste estese province magmatiche". 

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