SOCIETÀ

In Europa il rischio di povertà era in aumento già prima della pandemia

Il 2020 è stato un anno nefasto non solo dal punto di vista sanitario, ma, com’è facile immaginare, anche da quello economico. Le stime dell’Istat parlano di un milione di nuovi poveri solamente in Italia, con un tasso di povertà assoluta che è tornato a crescere, toccando il valore più elevato dal 2005. Spesso abbiamo messo in luce come calcolare il benessere di un Paese e della sua popolazione solamente prendendo in considerazioni indicatori meramente economici, come ad esempio il solo Prodotto Interno Lordo, possa essere fuorviante. L’Italia ha provato a calcolare il BES dei suoi cittadini, cioè il Benessere Equo e Sostenibile, basato su 152 indicatori diversi per 12 macro domini di analisi. Il PIL infatti, è sicuramente una misura chiara ed utile per capire quali sono le differenze tra Paesi vicini, ma non fornisce informazioni sulla distribuzione dei redditi all’interno di un paese, né sui fattori non monetari che possono contribuire in larga misura a determinare il benessere della popolazione. È proprio da questa “mancanza” che vogliamo partire per analizzare il tasso di povertà dei Paesi UE.


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Sappiamo che la pandemia ha influito in modo impattante anche sull’economia mondiale. Tutte le analisi dei cambiamenti sociali quindi, non possono non considerare il 2020 come anno fondamentale. Questa premessa è necessaria, perché la pandemia purtroppo non è ancora conclusa e questo fa si che molti dei dati su cui ci si basa non sono ancora consolidati. Per capire il tasso di povertà dei Paesi Ue ci affidiamo quindi ad un documento della Commissione Europea basato su dati Eurostat estratti nel maggio 2020.

Il tasso di rischio di povertà

Il tasso di rischio di povertà dei Paesi UE-27, che viene calcolato facendo la media ponderata dei vari risultati nazionali, negli ultimi dieci anni è stato oscillante, con un aumento tra il 2010 e il 2011 (dal 16,5 % al 16,9 %), una stabilità per due anni e poi un ulteriore aumento al 17,3% nel 2014. Dopo l’impennata si è riscontrata una sostanziale stabilità nei due anni successivi (0,1% di aumento nel 2015 e nel 2016) ed un primo considerevole calo nel 2017, anno in cui il tasso di rischio di povertà era passato al 16,9%. Anche nel 2018, ultimo anno di cui si hanno i dati consolidati, il tasso era tornato sostanzialmente al livello di inizio decade (16,8%).

Questa però, come abbiamo detto, è la media ponderata dei vari Paesi, al cui interno si riscontrano diverse differenze. Come si nota dal grafico sottostante, si passa dai due poli opposti che riguardano la Romania e la Repubblica Ceca, che hanno rispettivamente un tasso di rischio di povertà del 23,5% e del 9,6%.

Il dato diventa ancora più chiaro se si considera che nel 2018 erano sette gli Stati membri in cui un quinto o più della popolazione era considerato a rischio povertà. Tra questi, con il 20,3%, anche l’Italia, dietro a Spagna (21,5%), Estonia (21,9%), Bulgaria, Lituania, Lettonia e la già citata Romania (23,5%).

In sette Stati membri dell’Unione Europea un quinto della popolazione è considerato a rischio povertà

Gli Stati con il minor tasso di rischio di povertà invece sono la Repubblica Ceca (9,6%), la Finlandia (12%) e la Slovacchia (12,2%). Allargando un po’ lo sguardo ai Paesi extra Ue ma comunque territorialmente vicini, vediamo che il tasso minore di rischio di povertà si trovi in Islanda, con l’8,8% della popolazione (in questo caso gli ultimi dati disponibili si riferiscono al 2016).

Tra gli Stati membri la percentuale meno elevata di persone a rischio di povertà è stata registrata in Cechia (9,6 %), Finlandia (12,0 %) e Slovacchia (12,2 %), mentre l’Islanda (8,8 %; dati del 2016) presentava una percentuale ancora più bassa di persone a rischio di povertà

Da questo grafico quindi, abbiamo intuito quali sono gli Stati membri la cui popolazione è a rischio povertà. Come viene calcolata però “la povertà”? In questo caso bisogna fare una distinzione.

La soglia di rischio di povertà

La “soglia di rischio di povertà” per l’Eurostat, quindi l’ufficio statistico dell’Unione Europea, è pari al 60% del reddito disponibile equivalente mediano nazionale. Per effettuare confronti spesso viene espressa in standard di potere d’acquisto (SPA), in modo tale da tenere conto delle differenze del costo della vita nei vari paesi. I valori per tale soglia, com’è facilmente immaginabile, differiscono molto tra i vari Paesi. Prendendo in considerazione l’ultimo anno disponibile, cioè il 2018, il potere d’acquisto passa dai due estremi di 3.767 SPA della Romania e di 13.923 SPA in Austria.

La povertà assoluta

Altra cosa invece è la povertà assoluta. Prendendo in prestito ciò che scrive l’Istat “la soglia di povertà assoluta rappresenta il valore monetario, a prezzi correnti, del paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia, definita in base all’età dei componenti, alla ripartizione geografica e alla tipologia del comune di residenza”. Questo poi dev’essere tarato in base all’età dei componenti, alla ripartizione geografica e alla tipologia del comune di residenza. Per fare un esempio concreto, utilizzando in questo caso i dati del paniere 2019, una famiglia di quattro componenti, in cui i genitori hanno circa 40 anni ed i due figli tra i 4 ed i 10, e che abita in un’area metropolitana del Nord Italia, avrebbe una soglia di povertà di 1.678,30 € mensili. Se la stessa famiglia abitasse in un’area metropolitana del Centro o del Sud Italia la sua soglia sarebbe rispettivamente di 1.579,38 € e 1.310,18 €. 

Se la stessa famiglia identica vivesse in un comune con meno di 50mila abitanti, che sia Nord, Centro o Mezzogiorno avrebbe una soglia di povertà rispettivamente di 1.535,25, 1.431,37 e 1.222,75.

Un singolo individuo invece, prendendo a campione un uomo di 35-40 anni che vive in un’area metropolitana nel Nord Italia, avrebbe una soglia di povertà di 839,75 euro. Nel Centro e nel Mezzogiorno la soglia scenderebbe a 803,86 e 623,86 euro.

Il tasso di rischio di povertà in Europa: le differenze di genere

Sono diversi quindi i parametri da prendere in considerazione, ma ciò che a noi interessa in questa analisi è proprio il confronto tra vari Stati membri dell’Unione Europea. Il loro tasso di rischio di povertà l’abbiamo visto ma all’interno di ognuno dei vari Paesi emergono anche delle differenze di genere. Il dato generico dell’UE-27 presenta una differenza tra il tasso maschile e quello femminile, che sono rispettivamente del 15,5% e del 17,2%. Questa è la media ma anche all’interno di tutti gli Stati membri dell’UE, del Regno Unito, della Turchia e dei tre paesi EFTA presi in considerazione (Svizzera, Norvegia e Islanda), sono stati registrati tassi per le donne superiori a quelli per gli uomini tra la popolazione di età pari o superiore a 16 anni. Nel documento rilasciato dalla Commissione Europea si legge che “nel 2018 i divari maggiori in termini di genere sono stati osservati in Lituania (con tassi per le donne superiori di 6,3 punti percentuali a quelli per gli uomini), Lettonia (6,1 punti percentuali), Estonia (5,5 punti percentuali) e Repubblica Ceca (4,6 punti percentuali). Irlanda, Malta e Bulgaria hanno registrato tassi di rischio di povertà per le donne superiori a quelli degli uomini di almeno 3 punti percentuali. Il minor divario in termini di genere è stato registrato in Francia, dove il tasso di rischio di povertà per le donne era lievemente (0,2 punti percentuali) superiore a quello per gli uomini. Per contro, in Montenegro il tasso per gli uomini era superiore di 1,2 punti percentuali a quello per le donne (dati del 2017), mentre nella Macedonia del Nord il tasso per gli uomini era superiore, ma di soli 0,1 punti percentuali”. L’unico Paese in cui non si sono riscontrate differenze tra i due sessi è stata a Serbia.

I lavoratori poveri

Il rischio di povertà non c’è solo in chi è disoccupato, ma anche in chi un lavoro ce l’ha. Nel primo caso, quindi tra chi proprio un lavoro non ce l’ha, il tasso di rischio di povertà raggiunge il 48,6%, cioè mediamente quasi la meta dei disoccupati in Europa (considerando UE-27 e dati 2018) è a rischio povertà. Il Paese con il tasso più alto è la Germania con il 69,4%, mentre in altri 11 Stati membri dell’UE (Lituania, Malta, Lettonia, Svezia, Bulgaria, Ungheria, Repubblica Ceca, Estonia, Slovacchia, Spagna e Belgio) era a rischio di povertà almeno la metà dei disoccupati. 

Per chi un lavoro invece ce l’ha il rischio di povertà è minore ma non irrilevante. Nell’intera UE-27 nel 2018 è stato registrato un tasso medio del 9,3%. I Paesi con più di un occupato su dieci a rischio povertà invece sono: Grecia, Italia, Spagna e Romania.

Un’ulteriore analisi della Confederazione europea dei sindacati (ETUC) ha messo in luce come tra il 2010 e il 2019, la percentuale dei lavoratori poveri è aumentata in 16 diversi paesi. Una crescita media del 12% con dei picchi anche superiori al 50% in Ungheria (58%) e Regno Unito (51%), mentre in Estonia la crescita è stata del 43%.  Anche Italia, Lussemburgo e Germania hanno riscontrato percentuali elevate di crescita dei lavoratori a rischio povertà, rispettivamente del 28, 27 e 26%.

Come si nota dal grafico qui sopra, la percentuale di lavoratori a rischio di povertà lavorativa è più alta in Lussemburgo (13,5%), Spagna (12,7%), Italia (12,2%) e Portogallo (10,8%). La media europea invece si attesta al 9,4%. Gli aumenti di percentuale, secondo la Confederazione europea dei sindacati, si sono registrati in ogni categoria, compresa quella dei  lavoratori a tempo pieno e con contratto a tempo indeterminato.

Sono i giovani, i lavoratori migranti e quelli con contratto a tempo determinato i più colpiti. Uno scenario che l’ETUC non ha lesinato a chiamare “desolante”, considerando anche che, al 2020, solamente quattro Stati membri avevano salari minimi legali al di sopra della soglia salariale a rischio di povertà.

E poi ci sono coloro i quali il lavoro l’hanno avuto ed ora sono in pensione. Tra di loro il dato Eurostat mette in luce come mediamente nelle UE-27 circa un pensionato su sette (14,4 %) sia esposto al rischio di povertà. I dati più alti si sono riscontrati in Estonia (53,6 %), Lettonia (48,9 %) e Lituania (41,7 %).

Tutto quello che abbiamo visto fino ad ora però, come già preannunciato, è precedente alla pandemia. Un quadro non idilliaco che sappiamo già essere peggiorato nell’ultimo anno. L’ondata pandemica, salvo varianti, sembra avere una fine non troppo lontana. I cocci creati dalla situazione che stiamo vivendo però bisogna iniziare già a raccoglierli. NextGenerationEU si chiama lo strumento pensato per stimolare la ripresa, e mai nome poteva essere più azzeccato. Chiamarlo Next generation Eu invece di Recovery Plan (o fund) dona già un significato chiaro e dettagliato di quale dev’essere l’obiettivo per provare ad uscire tutti assieme da una situazione che ha visto l’intera Europa  (e non solo l’Europa) sprofondare, ma con le solite disparità che in momenti di difficoltà, se non puntualmente analizzate e ridotte con interventi mirati, non fanno altro che aumentare. È solo una questione di termini, ma anche le parole sono importanti.

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