Ilva di Taranto - foto Creative Commons. Autore: mafe de baggis
Il passo indietro di ArcelorMittal, la multinazionale che nel 2018 aveva vinto la controversa gara pubblica per l’acquisto dell’ex Ilva e che il 4 novembre 2019 ha annunciato la procedura di disimpegno dagli stabilimenti del maggiore polo siderurgico italiano, è l’ultimo tassello di una vicenda che negli ultimi anni ha portato a intersecarsi, in maniera molto delicata, due diritti fondamentali, sanciti anche dalla nostra Costituzione: il diritto al lavoro e il diritto alla salute.
Un quadro reso ancora più complesso dalle intricate vicende giudiziarie che hanno travolto il gruppo Riva, che aveva acquistato l’Ilva nel 1995 e a cui nel 2012 i giudici hanno attribuito la responsabilità di un “grave disastro ambientale”, definendo lo stabilimento di Taranto una “fabbrica di malattia e morte”. Da allora quello dell’ex Ilva, dal 2015 in amministrazione straordinaria prima dell'assegnazione ad ArcelorMittal, è stato un difficile ambito di confronto per tutti i governi che si sono susseguiti e ancora oggi una soluzione sembra molto lontana dall'essere trovata.
Comunicazione di recesso e risoluzione relativa al contratto di affitto dei rami d’azienda Ilva. pic.twitter.com/QyH5zx7qes
— ArcelorMittal Italia (@ArcelorMittalIT) 4 novembre 2019
La questione dell'ex Ilva che, con i suoi quasi 11 mila lavoratori sparsi in tutta Italia, senza contare l'indotto, e gli oltre 15 milioni di metri quadrati nel solo polo produttivo di Taranto, è l'acciaieria più grande d'Europa, è tornata drammaticamente alla ribalta dopo che ArcelorMittal ha annunciato di voler recedere dal contratto di affitto, e dal successivo acquisto dello stabilimento pugliese. Una decisione che si accompagna alla richiesta di avvio della cessione del ramo di azienda di tutti gli 8 siti produttivi presenti sul territorio nazionale e delle 4 società del gruppo. L'alternativa proposta dalla multinazionale franco-indiana è il licenziamento di 5 mila dipendenti, vale da dire quasi la metà della forza lavoro dell'azienda. La multinazionale rivendica la totale legittimità della rescissione del contratto, imputando la scelta al venir meno dello scudo penale che era stato introdotto nel 2015 per esonerare le forze imprenditoriali, eventualmente interessate a rilevare l'impianto e a investire nel suo risanamento, dalle responsabilità per reati ambientali durante la fase di attuazione del Piano ambientale. Una norma modificata, eliminata e reintrodotta più volte, fino all'emendamento al decreto imprese che lo scorso 22 ottobre ha cancellato nuovamente lo scudo. Ma nelle motivazioni con cui ArcelorMittal ha spiegato la sua decisione c'è anche un riferimento all'Altoforno 2, il reparto dove nel giugno del 2015 un operaio perse la vita investito da una colata di ghisa incandescente. Il termine del 13 dicembre 2019, entro cui il Tribunale di Taranto ne ha disposto la messa in sicurezza viene ritenuto impossibile da rispettare e il suo spegnimento, secondo la multinazionale, non permetterebbe l'attuazione del piano industriale.
E mentre in queste ore il Governo cerca di definire una strategia per il futuro del polo siderurgico e, in caso di mancata riapertura della trattativa con i vertici di Arcelor Mittal, si prepara alla battaglia legale, la giornata di sciopero, che si è svolta venerdì 8 novembre in tutti gli stabilimenti ex Ilva, a Taranto ha riacceso il confronto sull'inquinamento prodotto dall'acciaieria, sulle conseguenze ambientali e sui danni per la salute dei cittadini, soprattutto per i residenti del quartiere Tamburi che è il più vicino allo stabilimento. Davanti ai cancelli dell'azienda le associazioni ambientaliste e i comitati di cittadini hanno protestato chiedendo la chiusura dell'impianto siderurgico. E le preoccupazioni trovano riscontro in diversi studi.
Per avere un riepilogo delle principali evidenze scientifiche sulle anomalie sanitarie che negli anni si sono manifestate nella città pugliese e nei quartieri limitrofi allo stabilimento dell'ex Ilva abbiamo intervistato Fabrizio Bianchi, responsabile dell'Unità di epidemiologia ambientale dell'Istituto di fisiologia clinica del CNR di Pisa
"Le evidenze scientifiche, soprattutto sul piano epidemiologico cioè degli impatti sulla salute dovuti all'inquinamento ambientale, sono moltissime", ha spiegato il professor Bianchi che ha poi sottolineato come "in una fase iniziale, fino ai primi anni 2000, ci sia stato un approccio più descrittivo che aveva già sottolineato la presenza di criticità nelle aree di Taranto, Statte e Massafra, ma che lasciava un certo grado di insoddisfazione tra gli scienziati e tra i decisori perché non riuscivano a dimostrare con certezza le cause di questo stato di salute alterato". Negli ultimi dieci anni, invece, quando il legame con l'inquinamento ambientale è stato studiato in modo molto più mirato, questi dati sono stati irrobustiti e si è arrivati, a partire dalle rilevazioni Sentieri, a stabilire in modo specifico il legame tra l'eccesso di molti casi di morte e di malattia per determinate patologie e l'esposizione all'inquinamento ambientale.
"Gli studi Sentieri, ha specificato il professor Bianchi, dal 2011, con il primo rapporto pubblicato, fino al quinto rapporto scientifico uscito nel 2019, hanno sempre mostrato nell'area di Taranto una forte compromissione: una mortalità generale più alta di circa il 10%, una mortalità per cause tumorali più elevata dell'11% tra gli uomini e 8% per le donne e molte cause di morte e di malattie per patologie a carico del sistema circolatorio, dell'apparato respiratorio e dell'apparato digerente, oltre a dati particolarmente alti per i tumori del polmone, della pleura". Inoltre, negli ultimi tempi, ha aggiunto Bianchi, sono emersi ulteriori dati sulla compromissione in età pediatrica, con eccessi di mortalità per tumori del sistema linfoemopoietico, sarcomi, linfomi, tumori della tiroide e malformazioni congenite.
"Ma non si era ancora arrivati a risultati che comprovassero gli effetti delle emissioni dell'acciaieria", ha precisato Bianchi, specificando che nell'area di Taranto, "non c'è solo lo stabilimento dell'ex Ilva, ma sono presenti anche una raffineria, un cementificio, un'area portuale e diverse discariche: una situazione che già nel 1998 aveva portato il ministero dell'Ambiente a definire quella zona un sito di interesse nazionale per le bonifiche, vista la forte contaminazione di metalli pesanti, anche cancerogeni, sia nel sottosuolo che nelle acque di falda". Negli ultimi anni - ha proseguito Bianchi - si sono aggiunti "studi con un disegno epidemiologico più evoluto che ha cominciato a dare informazioni sullo stato di salute in relazione allo stato dell'ambiente e quindi dell'inquinamento".
Lo studio capostipite è del 2012, è stato realizzato da sei specialisti e ha analizzato il profilo di salute di 321 mila persone residenti a Taranto, Statte e Massafra, questa volta ripartiti tra quartieri. E' emerso che i tassi di ospedalizzazione e di mortalità sono risultati più elevati per specifiche patologie riconosciute come legate a quel tipo di inquinamento, proprio nei quartieri più impattati come Tamburi, Borgo, Paolo VI e nel Comune di Statte, e questo anche dopo aver corretto i dati sulla base dell'indice socio-economico che in quelle aree è molto differenziato.
Nel 2018 un importante lavoro pubblicato su Environmental International ha valutato i cambiamenti, lungo un arco temporale, dell'esposizione all'inquinamento e dello stato di salute della popolazione. Questo studio, relativo al periodo tra il 2008 e il 2014, ha dimostrato una relazione tra il numero di decessi in 11 sub-aree di Taranto e Statte e l'incremento dei valori di Pm10. "Dulcis in fundo - ha concluso Bianchi - bisogna citare lo studio, pubblicato proprio la scorsa settimana su Epidemiologia e Prevenzione, che valuta il danno sanitario sia nella situazione precedente all'Aia (Autorizzazione integrata ambientale), sia in quella successiva alle limitazioni del 2012. Il dato particolarmente allarmante è il persistere di un rischio cancerogeno non accettabile, per una popolazione di circa 22.500 residenti, anche nello scenario 2012-2015".
Questo studio, ha specificato Bianchi, mostra che "anche con una produzione più bassa di quella consentita dagli accordi, che potrebbe arrivare a 8 milioni di tonnellate all'anno di acciaio ma che attualmente è di 4,7 milioni di tonnellate, il rischio cancerogeno non è tornato a una soglia di accettabilità per una parte cospicua della popolazione residente".
"Non c'è area più studiata di quella di Taranto", ha concluso Bianchi, "i dati sono piuttosto allineati e hanno sempre confermato risultati allarmanti". L'epidemiologo del Cnr di Pisa sostiene quindi che "bisognerebbe pensare a una situazione in cui si avverano le bonifiche e solitamente le bonifiche le fanno gli stabilimenti quando sono attivi, e non quando si dismettono e questo è un altro elemento di grande preoccupazione. Riferendosi al dibattito che si legge sui giornali il professor Bianchi ha infine spiegato che "come epidemiologici siamo i primi ad essere preoccupati per i temi dell'occupazione, ma bisogna mettere in evidenza anche la salute come bene primario e come interesse individuale, collettivo e universale".
E sui riflessi occupazionali e sociali della vicenda dell'ex Ilva abbiamo chiesto un approfondimento al professor Devi Sacchetto del dipartimento di Filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata dell'università di Padova, che ha spiegato come, sebbene la contrapposizione tra lavoro e salute non sia certo nuova, e in Italia abbia avuto una forte stagione di contrasti durante il lungo conflitto operaio tra la fine degli anni '60 e la fine degli anni '70, oggi Taranto rappresenti l'emblema di una trasformazione, intesa come progressiva crescita di consapevolezza sia da parte degli operai, sia da parte dei cittadini, pur in una situazione difficilissima. "E' il tentativo di contrastare il produttivismo a tutti i costi", ha spiegato Sacchetto, "rifiutare che sia possibile lavorare in determinate situazioni che hanno ripercussioni molto gravi sia sulla salute degli operai che su quella dei cittadini".
"La questione va pensata sul lungo periodo", sostiene il professor Sacchetto, aggiungendo che "non ci sono vie di uscita facili e progetti facili da portare avanti, ma bisogna considerare che questa richiesta di riuscire a lavorare, produrre e ottenere degli stipendi, in una condizione di sicurezza per tutta la popolazione, è anche un tentativo di contrastare i processi migratori. La chiusura completa di uno stabilimento del genere porterebbe a nuova emigrazione, ma, allo stesso tempo, sia gli operai che i cittadini di Taranto ci stanno dicendo che a quelle condizioni non è possibile continuare a produrre". Secondo il professor Sacchetto, Taranto oggi rappresenta "l'emblema di una trasformazione che in altri Paesi in parte è avvenuta e in parte sta avvenendo e va presa come esempio da seguire". Rispetto all'opzione di riconsiderare i modelli produttivi dell'area di Taranto, magari sulla scia delle riconversioni che sono state fatte in altri siti produttivi che avevano problematiche ambientali simili, il professor Sacchetto ha citato l'esempio della riconversione di un'area della Ruhr, in Germania, dove una parte di territorio assolutamente degradata e inquinata è stata trasformata in grandi parchi naturali, con l'avvio di attività nel turismo. Restando invece in Italia, il professor Sacchetto ha ricordato i tentativi che sono stati fatti a Napoli, per il quartiere di Bagnoli nell'area ex Italsider, che però, per varie vicende, non sono andati a buon fine e il caso di Porto Marghera in cui l'area al momento non è ancora stata bonificata e "l'imprenditoria privata si sta spezzettando il territorio per sviluppare altre attività produttive" ma senza che vi sia "una politica industriale che dovrebbe essere fatta da un governo, da uno stato".