SOCIETÀ

Fase due: comunicazione politica e nuovi consumatori

La fase 2 è in uno stato avanzato, e ognuno di noi si sta, lentamente, riprendendo la propria vita dopo il lockdown. Sarebbe un errore, però, pensare che tutto potrà ricominciare come se nulla fosse: a dispetto degli scettici, è successo qualcosa di epocale, e per quanto la resilienza sia un'abilità citata in ogni angolo, se anche l'economia potesse riprendersi come per magia (o grazie agli aiuti), per le persone il discorso sarebbe molto diverso.

Il Covid-19 ci ha fatto cambiare come individui e come consumatori, e ha profondamente modificato il nostro rapporto con i media e con la tecnologia. Abbiamo cercato di fare il punto della situazione con Claudio Riva, sociologo dei media e presidente della triennale in scienze sociologiche a Padova per approfondire com'è cambiato l'approccio alla comunicazione in seguito alla pandemia e cosa ci potremo aspettare nell'immediato futuro.

Una prima differenza, la troviamo nel rapporto tra cittadini e politici, che durante la pandemia è rimasto a senso unico ma è diventato più diretto del solito: "La crisi di questi mesi - dichiara Riva - ha accentuato un tratto già caratteristico della relazione tra media e politica, quello della disintermediazione: durante l’emergenza, il Presidente del Consiglio e i presidenti di Regione hanno comunicato spesso solo con dirette sui social, senza un contradditorio e senza un confronto con i giornalisti. Che sia l’antipasto di come il digitale sarà ancora più importante nelle prossime campagne elettorali? Il distanziamento fisico (o “sociale”, come si ostinano a chiamarlo alcuni, erroneamente) imporrà la sospensione di alcune pratiche tradizionali, come i comizi e i raduni in piazza, che saranno impraticabili per ancora un po’ di tempo, i contatti personali tramite i banchetti e il porta a porta". E così rischia di svilupparsi o, a seconda dei casi, di consolidarsi, la percezione dei politici come dei vip (un po' come è successo con il fenomeno delle "bimbe di Conte") più che come delle figure istituzionali, ed è lecito chiedersi se sarà un bene per il paese.

Ma non basta, perché la pandemia ha portato sulla scena politica altri attori: immunologi e epidemiologi a volte criticati per la loro eccessiva presenza in tv, ma anche molto richiesti. Forse c'era bisogno di una crisi per fidarsi degli esperti: "Il discorso politico sarà differente - dice Riva - e i temi legati alla salute saranno centrali ancora per un po’, perché rimarrà centrale la presenza e la popolarità di specialisti e virologi nei dibattiti pubblici e per l’accresciuta richiesta di competenza in ambito sanitario, rivolta ai decisori politici. Come ammoniscono in un recente contributo Giovanni Diamanti e Martina Carone, sarà poi sempre più necessario affidarsi a professionisti di “crisiscommunication”, per non incorrere in quegli errori in cui la macchina comunicativa governativa è incappata in questa drammatica fase".

Perché purtroppo prima o poi la crisi tornerà: potrà scaturire da una nuova pandemia o dal cambiamento climatico, ma sia politica che giornalisti si devono preparare e perseguire una performance migliore di quella che sono riusciti a produrre questa volta: "Il cambiamento climatico - conferma Riva - si lega all’espansione del capitalismo industriale novecentesco che, per funzionare, necessita di grandi quantitativi di energia provenienti da fonti non rinnovabili; all’agricoltura intensiva, al riscaldamento domestico e alla circolazione di auto e aerei".
Ma non basta: molti hanno festeggiato il lockdown come una manna che poteva impattare molto positivamente sui consumi e, più in generale, sull'inquinamento e sul clima. Queste persone, purtroppo, non hanno fatto i conti con l'inquinamento che si crea, semplicemente, stando al computer. "Esiste - puntualizza Riva - anche un impatto ambientale della filiera produttiva dei media digitali. Le grandi multinazionali tecnologiche (Alphabet, Apple, Microsoft, Amazon, Facebook) consumano energia non rinnovabile sotto forma di server farm. In un report degli inizi del 2019 di The Shift Project, si scriveva che le tecnologie digitali stavano producendo il 4% delle emissioni di gas serra, stimando potessero arrivare almeno all’8% entro il 2025. Si stima che i data center, attraverso i quali passa la maggior parte del traffico internet mondiale, consumino ogni anno almeno l'1% dell'energia elettrica mondiale e, nel 2018, erano responsabili di circa lo 0,3% delle emissioni globali di CO2. Sono valori che sicuramente sono già aumentati in questi giorni di confinamento, in cui il consumo di contenuti in streaming è cresciuto esponenzialmente. C'è da chiedersi se le istituzioni e le aziende mediali si impegneranno ad abbassare l’impronta ecologica delle loro routine produttive per essere sostenibili, e se lo faranno meglio di come ha fatto finora il capitalismo industriale."

E, a proposito di straming, durante il lockdown è cambiato anche il nostro profilo di consumatori. Non potendo uscire, abbiamo cercato tutte le forme di distrazione possibili tra le mura domestiche: se all'inizio il lievito madre e i manicaretti che preparavamo potevano bastare, man mano che la pandemia continuava siamo andati alla ricerca di qualcosa di più elaborato: "Sono cresciuti tutti i settori legati all’e-commerce, alle piattaforme mediali, ai videogiochi e ai social network" prosegue Riva. "Si tratta probabilmente di un picco di domanda e di un interesse temporaneo da parte di molti utenti che si ridurrà al ritorno della normalità. Ma difficilmente torneremo completamente alla situazione precedente, perché le nostre abitudini sono già cambiate e potrebbero rafforzare o accelerare le attuali tendenze. Un esempio: la quarantena ha fatto decollare il mercato dei videogame. Secondo analisti della Nielsen, nel solo mese di marzo la spesa mondiale (software, hardware e accessori) è aumentata dell'11%; per il 2020, il Global Games Market prevede che l’industria dei videogiochi crescerà del 9,3% rispetto all’anno precedente, toccando la cifra record di 159,3 miliardi di dollari (quattro volte i ricavi del cinema e tre volte quelli dell’industria musicale) e si prevede che nel 2023 il mercato dei videogiochi, unito a quello degli eSport, varrà più di 200 miliardi di dollari".

Di questo cambiamento se ne sono accorti anche i nostri politici, e non è un caso che nel Decreto Rilancio compaiano anche i videogiochi: "Nel cosiddetto Pacchetto Startup - conclude Riva - è prevista la costituzione di un fondo da 4 milioni di euro per sostenere le spese di progettazione dei videogiochi. Per citare qualche dato legato alle imprese che sviluppano videogame, la francese Ubisoft ha 1,2 miliardi di fatturato e 1200 dipendenti; la tedesca Crytek ha 550 dipendenti e appartiene a un gruppo da 850 milioni di fatturato l'anno; l’americana Rockstar Games con il solo GTA5 ha superato i 6 miliardi di fatturato".

Forse l'economia ripartirà proprio da qui.

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