SOCIETÀ

Fausto Coppi: un mito imperfetto

“Un uomo solo al comando!”: i meno giovani ricorderanno sicuramente la frase coniata da Mario Ferretti, ma per i millennial completiamo con l’aggiunta: “…la sua maglia è biancoceleste, il suo nome Fausto Coppi!". Ovvero una leggenda, che il 15 settembre di quest’anno compirebbe 100 anni, il primo e uno dei pochi ad aver vinto il Giro d’Italia e il Tour de France nello stesso anno (un altro è stato Marco Pantani).
Per tutti è un campione, un mito, il simbolo di un'Italia che, contro ogni pronostico, resisteva. E resisteva anche grazie al ciclismo, che all’epoca era considerato lo sport nazionale molto più del calcio. Nonostante le difficoltà, Coppi si è costruito una carriera folgorante, e questo lo potrebbe inquadrare in un’epopea eroica leggermente mainstream, quella dei campioni duri e puri che da soli contro il mondo si costruiscono una strada che ricorda pericolosamente un business plan da Silicon Valley, e poi vincono tutto.

Potrebbe, dicevamo, ma non lo fa. Perché la leggenda di Fausto Coppi sfugge in realtà ad ogni inquadramento. Per quanto riguarda il mito dell’eroe, effettivamente ha imparato ad andare in bicicletta trasportando prosciutto, e all’inizio era dovuto andare a elemosinare una bici da Gino Palumbo, direttore de La Voce. Se poi parliamo delle vittorie, è pur vero che ha vinto tutto, ma non è l'eroe senza macchia e senza sbavature, e la sua storia non è una favola, anche se alcuni aspetti la potrebbero ricordare.
Come per la leggendaria rivalità con Bartali, che però non era un "cattivo": era già un campione e quasi il suo mentore, l’uomo con cui Coppi ha dovuto scontrarsi per crescere. I due infatti si sono scornati varie volte, fino all'episodio del ritiro di Valkenburg. E lì probabilmente ai suoi tifosi è venuto un colpo perché si può perdonare tutto, ma un ritiro del genere quello no. Eppure poi glielo si perdona lo stesso, perché non sono state solo le vittorie a rendere grande Fausto Coppi, ma anche il suo carattere e la sua umanità, ben rappresentata da quell'episodio.

Poteva diventare un eroe quando decise di gareggiare pochi giorni dopo la morte del fratello Serse, suo gregario, in seguito a un incidente sui binari del tram. Era il Tour de France del 1951: Coppi sembra intenzionato a sbaragliare tutti, a correre in nome del fratello che amava profondamente, e si piazza al secondo posto in una delle tappe. Ma poi ha un crollo, non riesce a reagire e finisce decimo. Certe débâcle dimostrano che non serve essere un eroe per diventare un mito.

I suoi tifosi gli hanno perdonato anche le presunte mancanze della vita privata: Coppi aveva lasciato sua moglie Bruna Ciampolini per Giulia Occhini, la Dama Bianca immortalata con il Montgomery candido insieme al campione, con cui era stata vista durante la tappa di Sankt Moritz del Giro d'Italia del 1954. Certo, al giorno d’oggi si vede ben di peggio (per fare un solo esempio: Icardi ha portato via la moglie Wanda Nara a Maxi Lopez quando giocavano insieme nella Sampdoria), ma quelli erano gli anni Cinquanta, tempi diversi, quando la Democrazia Cristiana faceva il bello e il cattivo tempo e il divorzio non era ancora ammesso. Erano i tempi in cui invece la sinistra preferiva lavarsene le mani, anche se Coppi, a torto o a ragione, era sempre stato considerato vicino a quello schieramento. Erano anni in cui anche il Papa (Pio XII) poteva bacchettare pubblicamente i due amanti, che avrebbero forse dovuto continuare a vedersi di nascosto e invece avevano scelto di vivere il loro amore anche in pubblico, cosa che costò loro cara: furono condannati al carcere per la denuncia di Locatelli, il marito della Occhini che in tempi non sospetti era un grandissimo fan di Coppi e per un curioso scherzo del destino li aveva fatti conoscere per ottenere il suo autografo. Poi la pena era stata sospesa, i due si erano sposati in Messico (matrimonio mai riconosciuto in Italia) e i tifosi, piano piano, avevano dimenticato. O forse in precedenza avevano solo finto di indignarsi, perché sentivano che era quello che veniva richiesto loro.

Pochi anni dopo, nel 1960, al suo funerale c’erano più di 50.000 persone.

"La struttura alare del calabrone in relazione al suo peso non è adatta al volo ma lui non lo sa e vola lo stesso"; così era Fausto: non aveva un fisico atletico, a partire da quando, da piccolo, gli amichetti lo prendevano in giro chiamandolo "petto di pollo". Però aveva il ritmo, lui, quello stesso ritmo che gli permetteva di lasciarsi indietro gli avversari. "La struttura fisica dell’Airone non è adatta al ciclismo. Ma lui non lo sa e vola lo stesso”, anche nei nostri ricordi.

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