Certo, i soldi non sono tutto. Ma anche nella scienza contano. E il computo degli investimenti in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (R&S) proposto nel suo annuale rapporto, Global R&D Funding Forecast, dalla rivista specializzata R&D Magazine dice che di soldi l’Europa nella scienza ne mette sempre meno degli altri.
In un secolo fa, come Il Bo Live ha avuto già modo di documentare, il nostro continente è passato dal primo al terzo posto fra le grandi aree del mondo. Nel 2018 gli investimenti europei in R&S (di tutta l’Europa esclusa la Russia), calcolati a parità di potere di acquisto delle monete, sono stati meno della metà di quelli della regione asiatica (di tutta l’Asia escluso il Medio oriente, ma con in più l’Oceania).
È ormai evidente: l’asse scientifico del mondo si è spostato dall’Oceano Atlantico al Pacifico.
Il fatto è che l’Europa è terza – sia in termini assoluti che in termini relativi (intensità di spesa) – anche se la mettiamo a confronto con i due singoli paesi che investono di più in R&S: la Cina e gli Stati Uniti. I dati sono relativi al 2018.
Le cose non vanno molto meglio per la sola Unione Europea, che nel 2018 ha investito – stando al R&D Magazine –, il 2,1% del suo Prodotto interno lordo in ricerca e sviluppo. La percentuale è praticamente simile a quella della Cina e nettamente inferiore a quella degli Stati Uniti.
Ma il dato più significativo è che mentre in Cina gli investimenti crescono a ritmo sostenutissimo e negli Stati Uniti a ritmo sostenuto, in Europa l’aumento della spesa è mediocre.
Come spiega il R&D Magazine, la mediocrità della crescita europea è il combinato di due tendenze diverse: da un lato le industrie che investono sempre di più e dall’altro gli stati, i cui investimenti sono stagnanti.
Questo dato è importante, visto che la presenza dell’industria in Europa è la maggiore al mondo. In Polonia lavora nell’industria il 20,2% della popolazione, in Germania il 19,0%; in Italia il 18,5%; in Turchia il 18,1%. Percentuali, rileva il R&D Magazine, superiori sia a quelle della Cina e del Giappone (in entrambe lavora nell’industria il 16,9% della popolazione), sia negli Stati Uniti, dove la percentuale non va oltre il 10,5%. È un bene che l’industria europea confidi negli investimenti in R&S e innovi.
È invece un male che gli stati europei abbiano in pratica smesso di aumentare gli investimenti. Tanto che il grande progetto varato a Lisbona nel 2000, diventare l’area leader al mondo nell’economia della conoscenza, e meglio definito a Barcellona nel 2002 (portare gli investimenti in R&S al 3,0%: 2,0% da parte dell’industria, 1,0% da parte degli stati) non solo non è stato raggiunto, ma segna da due decenni il passo.
E tuttavia né l’Europa né l’Unione Europea definiscono un quadro omogeneo. Ci sono profonde differenze nel nostro continente. La Germania, per esempio, non solo ha già raggiunto l’obiettivo di Lisbona del 3,0% ma ha annunciato di recente un piano aggiuntivo di investimenti pari a 17 miliardi di euro spalmati negli anni che ci separano dal 2030. D’altra parte con una spesa di oltre 123 miliardi di dollari; 1.000 istituzioni dedite alla ricerca; 400.000 ricercatori e 500 network e cluster la Germania è di gran lunga il paese europeo che “crede di più nella scienza”. Ma non è il solo: è tutto un blocco di paesi che ruota intorno alla Germania e che segue il modello tedesco. Da sud a nord: la Slovenia investe il 2,6% del PIL in R&S; l’Austria il 3,2%; la Svizzera il 3,0; l’Olanda il 2,1%; la Danimarca il 3,1; la Svezia il 3,3% e la Finlandia il 3,5%.
Questi paesi sono all’avanguardia nel mondo. E sono superati, in termini relativi, solo da Israele e Corea del Sud. È il resto dell’Europa che fatica. La Francia si ferma al 2,2%; il Regno Unito all’1,7% e l’Italia non va oltre l’1,3%.
L’Europa, dunque, è frammentata. Tutti i paesi mediterranei hanno investimenti bassi. E tutti i paesi dell’est investimenti bassissimi (salvo rare eccezioni).
Questa frammentazione spiega molto bene le differenze nella crescita economica tra i vari frammenti dell’Europa. Ed è una delle asimmetrie che va, al più presto, corretta. Occorre creare davvero quello che Antonio Ruberti chiamava lo “spazio comune europeo della ricerca”. Ma l’Europa accusa anche di un altro ritardo rispetto a USA, Cina, Giappone: in quei tra paesi la politica della ricerca ha una mente unica. L’Europa è come l’idra: ha decine di teste. La sola Unione europea ne ha 27+1 (il Regno Unito che vorrebbe staccarsi). Ciascuna di queste teste volge lo sguardo in direzioni diverse. E talvolta si azzannano l’un l’altra.
Eppure abbiamo buoni esempi di integrazione della ricerca: dal CERN all’EMBO all’ESA. Tutti centri che sono molto ben posizionati nel contesto internazionale. Occorre continuare lungo la strada che hanno tracciato.