SCIENZA E RICERCA
Il genoma delle specie polari rivela il destino della biodiversità in Artide e Antartide
Si stima che la copertura di ghiaccio ai poli terrestri subirà una riduzione del 7%-14% nei prossimi decenni e questo modificherà radicalmente le dinamiche degli ecosistemi polari. Il cambiamento climatico sta già causando lo scongelamento del permafrost che ha come conseguenza non solo la liberazione di gas serra, ma sta anche riportando in vita microrganismi congelati da migliaia di anni. La possibilità oggi di sequenziare l’intero genoma delle specie polari e studiare la relazione tra condizioni ambientali e regolazione dell’espressione genica ci permette di comprendere le limitazioni e potenzialità di adattamento di questi organismi ai rapidi cambiamenti climatici.
L’articolo Multi-omics for studying and understanding polar life, pubblicato da poco sulla rivista Nature Communications, analizza i possibili effetti del riscaldamento globale sui poli e sulla loro biodiversità. La ricerca – frutto di una collaborazione internazionale delle più importanti istituzioni che si occupano di studiare gli ecosistemi e gli organismi polari – valuta le potenziali minacce alle specie artiche e antartiche dovute ai cambiamenti climatici. Ne abbiamo parlato con Tomaso Patarnello, docente del dipartimento di Biomedicina comparata e alimentazione dell’Università di Padova, tra gli autori della ricerca.
Come nasce questo lavoro?
Io e il mio gruppo lavoriamo su progetti riguardanti l’Antartide da circa 30 anni, ci siamo sempre occupati di organismi marini e di dati genetici e molecolari. Facciamo parte di un network internazionale con i principali gruppi di ricerca stranieri che si occupano degli stessi temi e qualche tempo fa, durante un meeting in Germania, abbiamo condiviso le nostre ricerche. Questo lavoro parte proprio da lì e ha dato vita a un quadro generale che evidenzia la fondamentale importanza dell’analisi della biodiversità – in particolare marina – degli organismi antartici.
Perché proprio gli organismi antartici?
Perché in questo momento sono a rischio più di tanti altri: l’ambiente antartico è, tra tutti quelli del nostro pianeta, quello più esposto ai cambiamenti climatici. A causa della conformazione della Terra, infatti, la temperatura tende ad aumentare di più ai poli rispetto al resto del pianeta.
Per analizzare la biodiversità di questi organismi endemici ci siamo serviti di strumenti genetici molecolari, detti -omici, che ci hanno aiutato a capire quali adattamenti a livello genetico hanno dovuto mettere in campo in milioni di anni: questo percorso evolutivo, scritto nel loro DNA, ci fornisce una visione di quello che può succedere nel momento in cui le condizioni ambientali cambiano molto più rapidamente del tempo che gli organismi ci hanno impiegato ad adattarsi in passato – ossia milioni di anni. Le discipline -omiche utilizzano tecniche di analisi molecolare per la descrizione e l’interpretazione del sistema biologico studiato e, nel nostro caso, possono essere impiegate per valutare la biodiversità in tutto l’Albero della Vita polare: dai microbi nell’oceano, nella terra, nel ghiaccio e nel permafrost fino alla grande megafauna, come gli orsi polari, le balene e le foche.
Dal DNA di questi organismi antartici è possibile ricostruire anche il passato?
Assolutamente sì. Studiando l’evoluzione di questi organismi a livello del genoma si può capire quali sono state le peculiarità evolutive che hanno permesso l’adattamento a determinate condizioni ambientali e, in un certo senso, quali sono le loro potenzialità di adattamento a un cambiamento climatico futuro molto rapido. Usando un approccio comparativo, confrontando cioè i genomi degli organismi del presente, si possono ricostruire i processi evolutivi del passato e immaginare quali siano la traiettoria e le potenzialità di adattamento ai cambiamenti climatici presenti e futuri.
Ad oggi, sono pochissimi i genomi di specie artiche o antartiche completamente sequenziati e quelli di cui la sequenza è disponibile hanno spesso rivelato molte sorprese. Alcune specie, infatti, hanno delle caratteristiche particolari del tutto uniche: possiedono dei geni che sono spariti e altri che si sono amplificati. Il famoso pesce ghiacciolo (icefish), per esempio, è l’unico vertebrato a sopravvivere senza emoglobina: questo è possibile solo in un ambiente molto freddo come quello antartico con alte concentrazioni di ossigeno disciolto; il krill antartico, invece, pur essendo un gamberetto molto piccolo possiede un genoma tra i più grandi finora conosciuti e sequenziati.
È improbabile che, con aumenti molto rapidi della temperatura – diciamo 2°C o più nei prossimi 50-100 anni –, gli organismi possano avere il tempo di modificare il loro genoma per adattarsi alle nuove condizioni climatiche. Condizioni che, va ricordato, sono rimaste stabili negli ultimi 10-15 milioni di anni. A quel punto, probabilmente, molte specie non avranno margini per cambiare e sopravvivere.
Il punto è proprio questo: studiare i genomi della gran parte delle specie chiave antartiche ci dà l’idea di quali sono gli organismi che hanno margini di cambiamento e quali invece difficilmente riusciranno a riadattarsi a condizioni diverse e quindi rischieranno di scomparire.
Come avete svolto la ricerca? C’è una parte del team che si è recata fisicamente in Antartide?
Molti dei ricercatori che hanno partecipato a questo lavoro sono persone che hanno stabilmente delle attività in Antartide. Qualcuno di noi si reca regolarmente nella stazione italiana Mario Zucchelli, a Baia Terranova, nel Mare di Ross, per fare esperimenti ai fini di aggiornare il nostro database comune e ottenere nuovi campioni biologici.
L’obiettivo del nostro lavoro è sequenziare il genoma del numero più alto possibile di specie chiave, ossia ecologicamente importanti, per ottenere un quadro generale di quali sono le potenzialità di adattamento dell’ecosistema antartico ai cambiamenti climatici e ricavare una proiezione di quello che potrebbe succedere nei prossimi 50-100 anni con le temperature che aumentano.
Mi fa un esempio di specie chiave?
Sicuramente il krill, che è stato sequenziato da poco, così come i pesci antartici, alcuni molluschi, ma anche il plancton che è alla base della catena trofica.
La catena trofica antartica, come quella degli altri oceani, ha più livelli: si parte dal fitoplancton (livello di produzione primaria), composto da organismi fotosintetizzanti uni- o pluricellulari. Lo zooplancton – per esempio il krill – mangia il fitoplancton, e a sua volta il krill (e lo zooplancton in generale) rappresenta la principale fonte di alimento per pesci, pinguini o balene, cioè per i livelli più alti della catena trofica.
A ciascun livello esistono delle specie chiave: alcune di queste abitano esclusivamente l’Antartide (pinguini, pesci antartici, krill), altre invece sono migratorie – come le balene –. Avere un quadro del genoma di tutte queste specie ci dà un’idea di quale potrà essere il futuro della biodiversità in Antartide. Dal momento che ci sono ancora tantissime specie chiave da studiare e analizzare a livello genomico, la prospettiva futura della nostra ricerca è proprio cercare di estendere queste informazioni alle specie che ancora non abbiamo studiato investendo tutte le risorse possibili.
Nel genoma c’è scritto il processo di adattamento di queste specie e ci rivela ciò che è stato e, potenzialmente, ciò che sarà. Parlando di ciò che sarà, lo scongelamento del permafrost sta anche riportando in vita microrganismi congelati da migliaia di anni. Quali rischi potrebbe comportare?
Facciamo un passo indietro con una piccola premessa: nella nostra ricerca consideriamo in generale i poli, anche se gli organismi di cui le ho parlato fino ad ora riguardano l’Antartide. Questo aspetto specifico del permafrost, invece, riguarda l’Artide. La differenza tra il Polo Nord e il Polo Sud, in termini di biodiversità, è rappresentata dal fatto che al Polo Sud l’ecosistema è unico. La gran parte delle specie vivono solo lì e si sono adattate a quelle condizioni ambientali – e solo a quelle – che sono rimaste stabili negli ultimi 10-15 milioni di anni. Al Polo Nord, invece, non ci sono tante specie endemiche perché si trovano anche altrove.
A livello del permafrost, che è soltanto nel Polo Nord, il fatto che ci siano dei microrganismi che con lo scioglimento tornano in vita crea un potenziale rischio di scongelare organismi, anche patogeni, che noi – Homo sapiens del 2024 –, non abbiamo mai incontrato e per i quali non abbiamo meccanismi di difesa. Se il nostro sistema immunitario non ha mai visto un batterio o un virus, questo rappresenta un potenziale pericolo; ciò non significa che ci sarà per forza un’altra pandemia com’è stato con il Covid-19, ovviamente, ma è sicuramente un’incognita da monitorare.
Monitorando questi cambiamenti si possono prevenire o mitigare in qualche modo le conseguenze più disastrose?
Se le temperature aumentano e gli organismi antartici non sono più in grado di adattarsi, noi non abbiamo gli strumenti per prevenire la perdita di biodiversità perché non possiamo cambiare il loro genoma. Quello che possiamo fare è evitare che la temperatura aumenti rapidamente. Anche per quanto riguarda l’esposizione ai microrganismi che si scongelano dal permafrost, quello che possiamo fare è studiare per tempo quali sono quelli che stanno ritornando in vita dopo migliaia di anni e capire che pericoli possono rappresentare.
L’unica vera mitigazione che possiamo mettere in campo è evitare che la temperatura cambi così rapidamente e, contemporaneamente, studiare i processi che sono sotto i nostri occhi, ma che non possiamo controllare.
Per riassumere questo concetto in una sola frase: noi non possiamo controllare l’evoluzione degli organismi o intervenire sulle loro capacità di adattamento, possiamo però controllare il cambiamento dell’ambiente in cui questi organismi vivono.