George Orwell. Foto: Contrasto
Dal 1° gennaio è scaduto il copyright sulle opere di George Orwell e le riedizioni dei suoi due romanzi più famosi, La fattoria degli animali e 1984 si moltiplicano. Ci sono delle buone ragioni.
Scrivendo nel 1948, tra gli orrori che George Orwell prevedeva per il futuro c’erano non solo le carestie (di cui abbiamo visto molteplici esempi in Africa) ma anche la diffusione della catena di montaggio “con l’intera popolazione ridotta a docili schiavi del salario” e una vita “completamente nelle mani dei banchieri”. Lo scriveva nel 1933 all’amica Brenda Salkeld e la lettera è inclusa nel massiccio volume George Orwell: A Life in Letters, uscito nel 2013 (Liveright, pp. 560, $35). Sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche americane all’epoca di Orwell si può leggere l’ottimo saggio di Steven Colatrella “The American Worker di Paul Romano” su Acoma.it.
Le lettere di Orwell sono un importante contributo a una migliore conoscenza dello scrittore come uomo di sinistra, che non rinnegò mai il suo impegno per un socialismo libertario. Una reputazione oscurata dall’uso strumentale della Fattoria degli animali e di 1984 come pamphlet anti russi durante la guerra fredda e, di nuovo, dopo il 1989. Anche in questi giorni molti hanno scritto che Orwell è stato il padre fondatore dell’antitotalitarismo e perfino dell’antintellettualismo. Le lettere ci restituiscono una immagine assai diversa.
Nel 1937, per esempio, in una lunga lettera a Rayner Heppenstall, descriveva la sua esperienza in Spagna (dove era stato ferito alla gola combattendo contro i fascisti) dicendo che “io non condivido l’atteggiamento pacifista, come penso facciate voi. Penso sempre che si deve combattere per il socialismo e contro il fascismo, intendo dire combattere fisicamente, con le armi”.
Nel 1945, in una lettera non pubblicata al settimanale Tribune, con cui collaborava, Orwell protestava vivacemente contro i processi dei resistenti polacchi a Mosca e affermava: “E’ solo perché negli ultimi cento anni dei piccoli gruppi e degli individui solitari hanno saputo far fronte all’impopolarità che il movimento socialista oggi esiste”.
Nel 1947, scriveva a Richard Usborn del suo “orrore per il totalitarismo” ma anche: “Dopo aver dato una buona occhiata all’industrializzazione inglese nelle sue manifestazioni peggiori, per esempio nelle zone minerarie, sono arrivato alla conclusione che è un dovere lavorare per il socialismo anche se non se ne è attratti emotivamente, perché il mantenimento delle condizioni attuali è semplicemente intollerabile”.
La raccolta di lettere fornisce anche molte interessanti informazioni sulla nascita e il significato del libro più celebre di Orwell, 1984. Percepito da molti, allora e oggi, solo come un potente atto d’accusa contro lo stalinismo, il libro ha avuto in realtà una lunga gestazione e racchiude in sé molti temi complessi. L’annichilimento della personalità a cui vanno incontro il protagonista Winston Smith e Julia è un argomento a cui Orwell era stato sensibile fin dagli anni giovanili, riflettendo sulle violenze (morali e fisiche) patite a St. Cyprian, la scuola privata frequentata fra gli 8 e i 14 anni. La descrizione che ne fece nel saggio Such, Such Were the Joys (Giorni felici) era così cruda che il testo non venne mai pubblicato prima della sua morte.
Si sa che Orwell aveva letto il romanzo di fantascienza We, di Evgenij Ivanovič Zamjatin, che aveva recensito sul Tribune nel gennaio 1946, ma le lettere ci danno una nuova conferma dell’importanza che ebbe nella preparazione di 1984. Nel febbraio 1944, infatti, il polemista inglese scrisse a Gleb Struve di “essere interessato in quel tipo di libro” e di stare “prendendo appunti per un libro [simile] che prima o poi potrei scrivere”.
In effetti, 1984 ebbe una lunga maturazione nella mente di Orwell, che iniziò a pensarci dopo la conferenza di Teheran del 28 novembre 1943 fra Churchill, Roosevelt e Stalin nella quale furono decisi gli assetti dell’Europa nel dopoguerra. Per Orwell quella fu la scintilla dell’idea di una storia in cui tre grandi blocchi vivono in uno stato di “guerra fredda” permanente, controllando le masse attraverso una costante manipolazione delle menti. Con una capacità profetica che lascia ancora oggi sbalorditi, scrisse nell’ottobre 1945: “Abbiamo di fronte a noi la prospettiva di due o tre mostruosi super-Stati, ciascuno dotato di un’arma con la quale milioni di persone possono essere spazzate via in pochi secondi, che si dividono il mondo fra loro” (You and the Atom Bomb). Due mesi dopo, lo scrittore annunciava a un’amica, Anne Popham, (a cui faceva anche delle goffe avances): “Sto per iniziare un romanzo”.
In una lettera a David Astor del 9 ottobre 1948, Orwell descriveva l’ambientazione del suo romanzo, all’epoca molto avanzato (sarebbe stato completato alcune settimane dopo): “Suppongo che la guerra atomica sia ormai una certezza entro non troppi anni. Il libro che sto scrivendo riguarda la possibile situazione se la guerra atomica non fosse decisiva”. E, in effetti, la Londra squallida e sporca di 1984, dove per distrarsi si può trovare soltanto del gin a buon mercato, assomiglia molto a un mondo post-atomico.
La storia di Winston e di Julia, della loro futile ribellione in nome della dignità umana, prese una forma particolarmente cupa e angosciante a causa della tubercolosi che lo confinava a letto, estremamente indebolito. Dopo pochi mesi dalla pubblicazione del romanzo, a soli 47 anni, Orwell moriva, lasciando un’eredità politica e letteraria che fa discutere ancora oggi.