CULTURA

Il grande romanzo di Silvia Avallone

Silvia Avallone torna al romanzo per la quarta volta. L’autrice di Acciaio (con cui nel 2010 vinse il Campiello Opera prima, il Flaiano, e arrivò seconda allo Strega a quattro voti dal vincitore) dopo Marina bellezza, Da dove la vita è perfetta dà alle stampe, ancora una volta per il suo editore storico, Rizzoli, un’opera dal titolo tanto semplice quanto ambizioso: Un’amicizia.

Ma sarebbe riduttivo pensare che Avallone scriva 450 pagine “solo” sull’amicizia. Il romanzo, cui si dice particolarmente legata, attraversa infatti un cambio di paradigma –non è un’esagerazione ricorrere a questo termine – ed è una sfida: vinta.

Nel luglio del 2017 veniva coniata una definizione per i nati tra la fine degli anni settanta e la prima metà degli anni ottanta: erano gli “Xennial”, a metà tra la generazione X e i millennials, coloro che avevano vissuto l’infanzia in un mondo analogico e si sono visti riplasmare l’orizzonte a mano a mano che crescevano, fino ad arrivare all’ “iperconnessione” dei nostri giorni. Un’esperienza da mal di mare. Ecco: questo è il mondo in cui si svolgono le vicende di Un’amicizia, i cui protagonisti sono nati proprio allora (come l'autrice, d'altro canto).

Silvia Avallone però non scrive per quella generazione, o solo per quella: nel raccontare la storia di Elisa e Beatrice a lungo indugia su una fase assoluta della vita dove tutto si cova, l’adolescenza (che ha innervato tutti i suoi romanzi), e nel raccontare quelle esperienze, che sono sempre uguali e sempre diverse in tutte le epoche, attraversa qui il cambio di millennio. Elisa – genitori separati, un fratello spacciatore – trova rifugio nella letteratura. A lei le cose passivamente succedono: non sceglie ma viene scelta, la vita le capita addosso. Compresa quell’amica sfolgorante che è Beatrice – viceversa fortunata, viziata, con i tratti da leader –, che dal padre di Elisa s’è fatta insegnare come andare in internet col modem sfrigolante, nei primi anni duemila, e poi, qualche anno dopo, da una capace docente universitaria ha imparato i primi trucchi della comunicazione diventando (come sognava per lei la madre) un’icona social. Parole contro immagini, pudore contro sfrontatezza.

Avallone racconta il bipolarismo cui andiamo soggetti nel creare proiezioni di noi che rendiamo pubbliche e che hanno un grado di verità difficilmente valutabile nascondendo invece quello che realmente siamo, e non ha paura di fare i conti con la parola scritta sul web, seppure possa sembrare nemica di quella imperitura della carta, perché più abbagliante, più maliziosa.

Questa è la differenza di calibro tra Elisa e Beatrice, ma non di merito. Sono due ragazze prima – e poi due donne – che vivono i travagli di tutte le esistenze: quel che c’è di meraviglioso nella scrittura delle loro vite che sceglie di fare Avallone è che, soffermandosi a raccontare soprattutto quell’età in cui tutto accade per la prima volta, le emozioni si presentano sulla sua penna (e in noi che leggiamo) con una forza primigenia travolgente.

I temi cardine del libro sono molti: dall’abbandono al tradimento, dalla maternità e ai suoi (falsi) miti alle relazioni tra madri e figlie, dal primo amore alla scoperta del sesso, dall’essere genitori alla paura di non realizzarsi mai, fino alla definizione di cosa sia la vocazione.

Ma, come tutti i grandi romanzieri, Silvia Avallone è prima di tutto un’autrice di storie.  “Chi siamo – scrive – è infinitamente più interessante, e commovente, di quel che vorremmo a tutti i costi sembrare”. E attraverso i suoi personaggi, e le loro storie, leggiamo di noi.

L'abbiamo intervistata.

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