Il premier indiano Modi durante il suo terzo giuramento. Foto: Reuters
Vittoria sì, ma con un retrogusto di delusione, senza grandi sorrisi, senza troppe fanfare. Narendra Modi, 73 anni, leader nazionalista e populista del partito indù Bharatiya Janata Party (BJP), cercava e voleva a tutti i costi un terzo mandato come primo ministro indiano: l’ha ottenuto, ma non è riuscito a replicare i successi a valanga del 2014 e del 2019. Il BJP ha conquistato appena 240 seggi, ben al di sotto dei 272 necessari per la maggioranza assoluta del Lok Sabha, la “Camera del popolo”, il più importante ramo del Parlamento indiano, composto da 543 membri. Maggioranza raggiunta soltanto grazie al sostegno della National Democratic Alliance, guidata dallo stesso BJP, che ha conquistato in totale 293 seggi (i sondaggi, finiti sotto accusa, avevano previsto un risultato assai superiore, compreso in una forbice tra i 360 e i 400) al termine delle più grandi elezioni democratiche del mondo, con 970 milioni di votanti e urne aperte per un mese e mezzo. Governo di coalizione dunque, una novità assoluta che Modi, uomo dal carattere forte e poco incline alla mediazione, dovrà imparare a gestire. Anche perché l’opposizione incalza, rinfrancata dalla figura di Rahul Gandhi, 54 anni tra pochi giorni, figlio dell’ex primo ministro Rajiv Gandhi, assassinato nel 1991, nipote di Indira Gandhi (anche lei uccisa nel 1984 da un estremista indù) e ultimo discendente maschio della dinastia. Rahul, leader del partito Indian National Congress, nazionalista e indipendentista, capace di costruire un’alleanza composta da 26 diversi partiti e chiamata INDIA (dall’accattivante acronimo di Indian National Developmental Inclusive Alliance), ha marciato per tutto il paese, riscoprendo l’antico strumento delle yatra (le marce rese celebri dal Mahatma Gandhi), parlando di ingiustizia e di disoccupazione, di corruzione e di rapporti opachi tra governo e imprenditori, di discriminazione religiosa. Una mossa che ha riacceso l’entusiasmo degli elettori. La coalizione di opposizione ha ottenuto almeno 17 milioni di voti in più e 234 seggi. Ora la distanza è minima: vuol dire che lo spazio di manovra, per Modi, si sta riducendo.
La macchia del fanatismo indù
Il premier indiano è così: o si ama o si odia, in un paese dove l’80% della popolazione (1,4 miliardi di persone) è come lui indù, contro il 14% di musulmani. E proprio l’aver reso opaca la linea di confine tra Stato e religione, con l’accusa di aver progressivamente allargato il divario tra i due popoli e di aver silenziato gli oppositori con metodi violenti, per arrivare alla costruzione di una “nazione induista”, è la grande ombra che incombe sul futuro di Narendra Modi, che in campagna elettorale aveva addirittura esasperato i toni della sua retorica anti-musulmana, definendoli “infiltrati” e accusando l’opposizione di “voler saccheggiare le ricchezze degli indù per redistribuirle ai musulmani”. Un fanatismo che, con tutta evidenza, non ha pagato alle urne, con l’alleanza guidata da Rahul Gandhi che ha ottenuto eccellenti risultati si è imposta anche nelle tradizionali roccaforti del BJP, come nell’Uttar Pradesh, il più grande e popoloso tra gli stati indiani. D’altro canto a Modi non si può non riconoscere il merito di aver trasformato l’economia indiana in un gioielloin forte espansione (è oggi la quinta più grande al mondo) e da molti invidiato. Il Fondo Monetario Internazionale ha recentemente alzato le previsioni di crescita dell’India per il biennio 2024-2025 al 6,8%, mentre la Reserve Bank of India, la banca centrale del Paese, stima che l’economia crescerà del 7% nell’anno finanziario in corso. Il governo ha inoltre approvato un ulteriore stanziamento di oltre 400 miliardi di dollari per misure di welfare, a partire da un programma di razioni gratuite di cibo per 800 milioni di persone, oltre a garantire fornitura di gas da cucina, servizi igienici, acqua potabile, elettricità. Tutto bene? Non proprio. In India le disuguaglianze, la disoccupazione e la sottoccupazione continuano a crescere in modo vertiginoso. Secondo uno studio del World Inequality Lab, il 90% della popolazione in età lavorativa guadagna meno del reddito medio annuo (circa 2770 dollari). L’1% più ricco della popolazione possiede il 40% delle ricchezze del paese, mentre il 50% più povero arriva a malapena al 6%. Un documento firmato dagli economisti Nitin Kumar Bharti, Lucas Chancel, Thomas Piketty e Anmol Somanchi, sostiene che «il “Raj miliardario” guidato dalla moderna borghesia indiana è oggi più diseguale del “Raj britannico” guidato dalle forze colonialiste», che in India sono rimaste fino al 1947, fino alla concessione dell’indipendenza.
Dunque ora per Narendra Modi si apre una stagione di mediazioni con gli altri partiti regionali che compongono la maggioranza, su tutti i nazionalisti del Telugu Desam Party e i socialisti laici Janata Dal (United). E quest’ultimo si è spesso scontrato con il primo ministro proprio sul tema delle sopraffazioni a danno dei musulmani, come ad esempio l’aver fatto costruire un tempio indù sulle rovine di una moschea storica nella città settentrionale di Ayodhya. Una palese mossa elettorale, aspramente contestata dalle opposizioni, che accusano il primo ministro di alimentare le intolleranze religiose. Nel 2019 il suo governo aveva fatto approvare una legge assai controversa, saltando quasi completamente la discussione in Parlamento, per togliere lo status speciale (e una relativa autonomia: costituzione, bandiera, possibilità di emanare leggi locali) al Kashmir, una regione dell’Himalaya, peraltro contesa con il Pakistan, uno stato dell’India a maggioranza musulmana. Modi è un accentratore, l’uomo solo che pretende di stare al comando, l’unico che si ritiene in grado di controllare, di decidere. «Ma queste elezioni lo hanno sminuito, dopo aver trascorso un decennio a costruire un personaggio di assoluta invincibilità», ha commentato Milan Vaishnav, direttore del Programma per l’Asia meridionale presso il Carnegie Endowment for International Peace. «La performance poco brillante del BJP è senza dubbio uno schiaffo in faccia, anche se il partito di Modi è ancora alla guida del paese».
E se finora ha avuto mani libere nel perseguire il suo obiettivo nazionalista, erodendo diritti e libertà civili (il tutto nel sostanziale disinteresse dell’Occidente, assai più interessato agli commerciali e al ruolo dell’India in chiave anti-Cina), d’ora in avanti dovrà vedersela concretamente con i suoi oppositori, sia nella sua stessa coalizione sia nell’alleanza guidata da Rahul Gandhi. E non sarà semplice. «Negoziare, lavorare assieme ai partner della coalizione, affrontare i compromessi che derivano dalla politica di coalizione: niente di tutto questo si adatta bene al marchio di Modi, fautore di una politica assertiva e autonoma», ha dichiarato all’Associated Press Michael Kugelman, direttore del South Asia Institute del Wilson Center. «Questi risultati dimostrano che l’onda di Modi si è ritirata, rivelando un livello di vulnerabilità elettorale che molti non avrebbero potuto prevedere».
L’opposizione promette battaglia
Poi c’è la variabile Gandhi, e non è un dettaglio da poco. «Il popolo indiano ha parlato: l’amore ha sconfitto l’odio, l’umiltà ha sconfitto l’arroganza», ha commentato il leader dell’opposizione, che promette una serrata battaglia in Parlamento, sempre dalla parte dei più poveri. «Il nostro lavoro comincia ora: abbiamo finalmente un’opposizione molto forte e vibrante. Faremo in modo che la voce dell’opposizione faccia pressione sul governo affinché agisca in base alla nostra visione». Martedì scorso è tornato ad attaccare Narendra Modi e il ministro dell’Interno, Amit Shah, accusandoli in sostanza di aver “occupato” le istituzioni: «Abbiamo combattuto queste elezioni non soltanto contro il Bharatiya Janata Party, ma anche contro la struttura di governo del paese, contro le agenzie di intelligence CBI (Central Bureau of Investigation) e EDI (l’Istituto per lo sviluppo imprenditoriale dell’India), perfino contro la magistratura, perché tutte queste istituzioni sono state occupate da Amit Shah e da Narendra Modi». Il giorno dopo un altro attacco frontale al premier, questa volta in seguito al suo “silenzio” dopo i tre attacchi terroristici nel territorio di Jammu e Kashmir: «Il primo ministro è ancora impegnato a celebrare la vittoria elettorale mentre le famiglie delle vittime uccise piangono», ha dichiarato Gandhi, che nel marzo dello scorso anno era stato condannato da un tribunale ed espulso dal Parlamento proprio per aver diffamato il premier.
Narendra Modi ha ottenuto quel che voleva, il terzo mandato (eguagliando il record di Jawaharlal Nehru, il primo presidente dell’India dopo l’indipendenza dall’Impero britannico, che governò fino alla sua morte, nel 1964). La sua sfida sarà conciliare il suo incrollabile fanatismo nazionalista (secondo un rapporto dell’istituto di ricerca India Hate Lab gli episodi di incitamento all’odio sono stati 668 nel 2023, quasi due al giorno, il 75% dei quali in stati governati dal BJP) con le richieste dei suoi indispensabili alleati di governo. Senza lasciare spazio agli avversari politici («L’opposizione sta tentando di dipingere i risultati elettorali come una sconfitta per noi. Ma non abbiamo perso, non abbiamo mai perso, non perderemo mai»). Mentre Rahul Gandhi sfrutterà ogni minima occasione per attaccare il nuovo governo: «Il nostro mandato - continua a ripetere – è in difesa della Costituzione indiana. Un mandato per salvare la democrazia».