CULTURA

Insegnare la creatività. Come nasceva l'educazione al jazz

La grande storia del jazz raccoglie e comprende molte vicende che meritano di essere raccontate. Da genere musicale popolare, nato per alleggerire il lavoro degli schiavi negli Stati Uniti all'inizio del secolo scorso, il jazz si è diffuso in tutto mondo, diventando per l'UNESCO “patrimonio immateriale dell'umanità” e forma d'arte in grado di unire persone diverse provenienti da tutto il mondo, promuovere un messaggio di pace e uguaglianza e incoraggiare lo spirito comunitario.

La diffusione del jazz in tutto il mondo e l'attenzione di cui gode da più di un secolo a livello internazionale è legata anche a come e a quando questo tipo di musica sia diventato anche una materia di studio, facendo il suo ingresso nelle accademie e diventando una forma d'arte che poteva essere propriamente insegnata con materiali di studio appositi e una metodologia didattica riconosciuta.

Se la storia che cerchiamo di scoprire, allora, è quella della pedagogia jazz e di come questo genere musicale abbia conquistato il suo posto nelle accademie di musica, possiamo seguire la ricostruzione proposta dalla pianista jazz Monika Herzig, che nel suo saggio The ABCs of Jazz Education. Rethinking Jazz Pedagogy, ripercorre le tappe e le modalità tramite le quali l'insegnamento del jazz sia stato “istituzionalizzato”.

Per i primi anni, a partire dalle sue origini nel primo decennio del Novecento, l'apprendimento del jazz avveniva sostanzialmente tramite l'ascolto degli altri musicisti; non esisteva certo la possibilità di cercare insegnamenti in materiali didattici.
Inoltre, era un'idea diffusa quella secondo la quale il jazz, come l'improvvisazione, dovesse nascere direttamente dall'anima del musicista, genio creativo che, senza seguire regole e restrizioni, si affidava semplicemente alla sua sensibilità. L'educazione al jazz, infatti, è stata per lungo tempo oggetto di critica da parte di chi riteneva che questa forma d'arte, così legata alla spontaneità e alla creatività, rischiasse di essere inaridita da un approccio didattico.

Non la pensavano così quei musicisti che Herzig definisce “gli ABC del jazz” di nome e di fatto: stiamo parlando di Jamey Aebersold, David Baker e Jerry Coker, ai quali va il merito di aver impiegato il loro talento e la loro dedizione per la promozione del jazz come un campo di studio accademico.

Cronologicamente parlando, non sono stati gli ABC a maturare l'idea che il jazz potesse essere insegnato. I primi tentativi di formalizzazione del linguaggio jazz e del metodo didattico erano apparsi in alcune riviste degli anni Trenta, mentre uno dei primi nomi legati all'educazione al jazz è quello di Len Bowden, che negli anni Quaranta condusse anche un programma di insegnamento jazz rivolto ai musicisti afroamericani assunti per suonare alla base navale dei Grandi Laghi.
Il jazz era inoltre già presente in alcuni campi universitari, dove si erano formate le prime jazz band di studenti. In seguito, nacquero summer school di musica jazz, come quella della Lenox school of jazz in Massachussets, e poi corsi universitari, accompagnati da opportunità come seminari e borse di studio, concentrate per lo più nello stato dell'Indiana, un luogo che ha avuto un ruolo centrale nella storia della pedagogia jazz.

È lì che si svolse la carriera di professore lunga cinquant'anni di David Baker, trombonista, compositore e poi violoncellista di Indianapolis, scomparso nel 2016. Baker, oltre a esibirsi con le più grandi orchestre jazz degli anni Quaranta e Cinquanta, si dedicò alla anche codificazione del linguaggio jazz, che in quegli anni era in continuo divenire. Fu lui a istituire il programma di studi jazz all'università dell'Indiana negli anni Sessanta. Uno dei suoi scritti più famosi è il David Baker's Jazz Pedagogy: A Comprehensive Method of Jazz Education for Teacher and Student, la prima pubblicazione che illustrava un metodo didattico rivolto agli insegnanti di jazz.

Alunno di Baker fu la “A” degli ABC: Jamey Aebersold, allora studente di educazione musicale all'università dell'Indiana. Aebersold lasciò la sua traccia nella storia della pedagogia jazz scrivendo una lunga serie di volumi dal titolo Play-a-long , accompagnati da CD contenenti basi musicali con le quali gli studenti potevano esercitarsi e imparare ad improvvisare. Il metodo di Aebersold si basava proprio sulla volontà di trasmettere ai suoi studenti gli strumenti per esprimersi creativamente e sviluppare la loro personale identità musicale.

I seminari estivi di Jamey Aebersold diventarono un modello che venne preso di ispirazione a livello globale. Presto il jazz entrò a far parte dei programmi di studi anche delle università in Europa, a partire dall'università delle belle arti di Graz, in Austria.
A seguire i seminari di Aebersold c'erano anche David Baker e Jerry Coker, sassofonista e studente dell'università dell'Indiana che diede il suo contributo alla pedagogia del jazz a cominciare dal suo volume Improvising Jazz, con lo scopo di trasmettere ai neofiti le conoscenze di tecnica e teoria musicale di base per poter coltivare la propria interiorità con metodo, allenando la capacità di improvvisare.

Come scrive Monika Herzig, però, la grande difficoltà nel mondo del jazz non fu solo quella di far accettare questo genere di musica dalle accademie, ma anche far accettare le accademie da parte del jazz. Pedagogista e alunna di Baker, la pianista sa rispondere a tono alle accuse di chi ritiene che la pedagogia rischi di soffocare l'individualismo e la creatività, o crede che un approccio accademico privi questa forma d'arte della possibilità di mutare e rinnovarsi.

Allo stesso modo, anche Jamey Aebersold non ha mai smesso di difendere il ruolo fondamentale dell'educazione jazz, battendosi perché questo genere musicale godesse del rispetto che merita, ottenendo dalle istituzioni fondi sufficienti e un'attenzione adeguata, entrambi necessari per fare in modo che ai musicisti, specialmente a coloro che stanno ancora studiando, vengano dati gli strumenti migliori per diventare artisti completi e consapevoli.

L'opinione espressa da Herzig, inoltre, è che il mondo accademico, lungi dal privare gli studenti di spunti creativi, li aiuti a formare una vera e propria comunità, dando loro l'opportunità di sperimentare con la loro musica e imparare l'uno dall'altro. In tutto questo, ancora una volta, si può rintracciare quella volontà di promuovere una dimensione comunitaria e di condivisione che la giornata internazionale del jazz ha il compito di conservare, aiutando a creare uno spazio di dialogo e di confronto per la crescita non solo dei musicisti, ma anche di chi il jazz lo ascolta con passione.

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