Foto: Reuters
Oltre due mesi di proteste, un’onda d’indignazione popolare che continua a crescere in ogni angolo (geografico e sociale) dell’Iran e che sta facendo tremare fin dalle fondamenta la Repubblica islamica, con il regime degli ayatollah mai così in difficoltà dalla presa del potere, con la rivoluzione del 1979. L’obiettivo dei governanti era e resta uno soltanto: arginare, reprimere, silenziare in qualsiasi modo la ribellione, l’intollerabile disobbedienza alle leggi dettate dallo Stato islamico. La “cura” per chi si ribella è sempre la stessa: pestaggi, come quello che il 14 settembre scorso ha portato alla morte di Mahsa Amini, una donna di 22 anni colpevole di aver indossato male l’hijab, lasciando scorgere alcune ciocche di capelli, e perciò arrestata e portata via dagli agenti della “polizia morale”. E proiettili, come quelli che la stessa polizia utilizza da due mesi a questa parte per colpire, ad altezza d’uomo, tutti coloro che osano sfidare pubblicamente le sacre regole imposte dalla teocrazia sciita. Secondo l’agenzia di stampa Hrana (Human Rights Activists News Agency) sono 336 finora i manifestanti uccisi nei disordini, 52 dei quali minorenni: tra questi c’è Parmis Hamnava, una ragazzina di 14 anni, bastonata a morte dagli agenti di polizia davanti ai suoi compagni di classe a Iranshahr, nel sud del Paese, perché accusata di aver strappato dal muro una foto di Khomeini (la polizia ha perquisito gli zaini e ha ritrovato la foto, piegata, in un suo libro). Oltre 15mila sono invece i dimostranti arrestati e ora detenuti, chissà dove, chissà come, nelle carceri iraniane. Negli scontri hanno perso la vita anche 39 agenti di polizia.
“Nemici di Dio”: pena di morte per i dimostranti
Ma ora si muove anche la magistratura, segno che la protesta, e il pericolo che ne consegue, è cresciuta d’intensità, come se fosse diventata più matura, più consapevole. Un tribunale di Teheran ha formalmente chiesto la condanna a morte per un imputato (il nome non è noto) accusato di “aver appiccato il fuoco a un edificio del governo, disturbo dell’ordine pubblico, di assemblea e cospirazione per commettere un crimine contro la sicurezza nazionale”, e soprattutto accusandolo di “corruzione sulla terra” (il più grave per il Codice penale iraniano) e di essere “nemico di Dio”. La richiesta della pena capitale segue temporalmente di qualche ora una dichiarazione, datata 6 novembre e firmata da 227 membri dell’Assemblea Consultiva Islamica (il Parlamento iraniano, composto da 290 seggi), nella quale viene esplicitamente chiesto (ordinato) alla magistratura di affrontare “in modo deciso gli istigatori delle recenti rivolte” e “una severa punizione per coloro che hanno incitato i recenti disordini”, chiedendo “Qisas” (ritorsioni in natura, l’occhio per occhio) per i “mohareb”, termine che in arabo è traducibile come “guerriero”, ma che per la legge islamica vuol dire “nemico di Dio”: un reato che comporta, appunto, la pena di morte. I firmatari dell’appello hanno anche precisato, come riporta l’emittente statale Press TV: «Una tale punizione dimostrerà a tutti che la vita, la proprietà, la sicurezza e l’onore del nostro caro popolo è una linea rossa per questa istituzione islamica, e che non sarà mostrata clemenza alcuna, a nessuno». Lo stesso 6 novembre, come risposta immediata alla lettera dei parlamentari, la magistratura ha fatto sapere di aver arrestato, in tre province iraniane (Hormozgan, Markazi e Isfahan) 756 persone coinvolte nei disordini con accuse che vanno dall’istigazione all’omicidio alle lesioni a pubblico ufficiale, fino alla propaganda contro il regime. Un centinaio di giovani, hanno fatto sapere sempre organi della magistratura, sono stati rimessi in libertà dopo aver promesso che non avrebbero “mai più partecipato alle proteste”. L’agenzia Irna, organo di stampa ufficiale della Repubblica Islamica sotto il controllo del ministero della cultura e dell’orientamento islamico, riporta non soltanto la notizia, ma informa che al termine della lettura della dichiarazione i membri del Consiglio islamico hanno intonato gli slogan “Morte all'America”, “Morte all'ipocrita”, “Morte al sedizioso” e “Il sangue nelle nostre vene è un dono per il nostro leader”.
Proteste internazionali e sanzioni
L’annuncio della richiesta per la pena di morte ha riacceso il fuoco delle polemiche internazionali. Al punto che gli stessi legislatori iraniani hanno poi tentato una poco credibile marcia indietro, sostenendo di non aver mai inviato richieste alla magistratura. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz si è detto «sconvolto e disgustato da ciò che il regime dei mullah sta facendo ai manifestanti. È chiaro che il governo iraniano è l’unico responsabile di questa ondata di violenza». Il presidente francese Emmanuel Macron, che lo scorso 11 novembre ha ricevuto all’Eliseo una delegazione di attiviste iraniane contrarie al regime, elogiandole per il coraggio con cui stanno portando avanti le proteste, è stato ancor più esplicito: «Quanto sta accadendo in Iran è qualcosa senza precedenti, è una rivoluzione». I rapporti Francia-Iran sono peraltro tesi per quel che riguarda i colloqui sul nucleare, al momento bloccati: «Questa rivoluzione cambia molte cose», ha detto ancora Macron. «Non credo che in un momento del genere ci siano le condizioni per presentare nuove proposte». Lunedì scorso l’Unione Europea ha approvato un nuovo pacchetto di sanzioni contro l’Iran. «L'UE condanna fermamente l’inaccettabile repressione violenta dei manifestanti», ha detto Josep Borrell, alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. «Siamo dalla parte del popolo iraniano e sosteniamo il suo diritto di protestare pacificamente e di esprimere liberamente le proprie richieste e opinioni. Oggi stiamo imponendo ulteriori sanzioni ai responsabili della repressione dei manifestanti iraniani». Le nuove misure, che prevedono il congelamento dei beni all’estero e il divieto di viaggio, sono a carico di 29 persone (tra le quali il ministro dell’interno iraniano e capo della polizia iraniana, Ahmad Vahidi) e di tre “entità”, compresa l’emittente statale Press TV, che secondo il Consiglio dell’Unione Europea si è resa responsabile “della produzione e della trasmissione delle confessioni forzate dei detenuti”. Sanzioni simili sono state imposte anche dal Regno Unito. L’Iran ha respinto questo nuovo ciclo di sanzioni definendolo «privo di fondamento: un’azione infondata, illegale e interventista».
Una situazione di estrema fragilità per il regime iraniano. Ma questo non vuol dire che sia in bilico, o che sia in vista un cambiamento radicale, almeno non immediatamente. Proprio ieri due tra le più importanti figure riformiste, l’ex presidente Mohammad Khatami e l’ex vicepresidente Massoumeh Ebtekar, hanno espresso prudenza. Khatami, su Twitter, ha invocato «l’autocorrezione del sistema, poiché il rovesciamento del regime non è né possibile né auspicabile. Ma il perdurare della situazione attuale rende le basi del collasso sociale sempre più ampie ogni momento. E gran parte della società condivide il principio di insoddisfazione con i manifestanti».
Il coraggio di ribellarsi
Anche ieri, martedì, in Iran è stato giorno di protesta, l’ennesimo, in concomitanza con il terzo anniversario del “Bloody November”, quando le forze armate iraniane aprirono il fuoco contro i manifestanti, uccidendone almeno 1.500. Era il 15 novembre 2019: gli iraniani, soprattutto giovani, erano scesi in piazza per protestare contro un improvviso aumento del costo dei carburanti. Il leader supremo, l’ayatollah Ali Khamenei, tuttora in carica, infastidito dal “disordine” provocato dai dimostranti, convocò i responsabili della sicurezza ordinando loro di fare “tutto il necessario per fermarli”. Il che diede il via, nelle due settimane che seguirono, al massacro dei manifestanti (qui un reportage pubblicato all’epoca dalla Reuters). E nulla lascia pensare che, oggi, il suo livello di comprensione e di tolleranza possa essere mutato.
Ma mentre oggi, come allora, sono le piazze, le strade, i “teatri” della protesta, a cambiare sono le motivazioni che spingono tante persone, di diverse estrazioni sociali, a sfidare così apertamente il regime. Oggi non si protesta più soltanto per rivendicazioni economiche, ma politiche, con al centro il rispetto per i diritti umani, per le libertà basilari (come la scelta dell’abbigliamento da indossare o meno, ma anche la libertà di cantare, di ballare, di esprimere la propria affettività), con una presa di distanza sempre più netta e ferma da ciò che la legge islamica ritiene “fondamentale”, imponendo divieti e steccati. «Queste proteste – scrive l’agenzia Hrana - hanno riunito quasi tutte le classi della società iraniana in un gruppo unificato di persone a sostegno dei manifestanti. La classe media accanto alle classi inferiori o superiori, nelle aree urbane piccole e grandi, diversi gruppi etnici, minoranze religiose, minoranze sessuali e gruppi commerciali tra cui insegnanti, lavoratori, studenti, professori, artisti e atleti».
Ed è proprio contro gli artisti che si sta rivolgendo l’attenzione del regime: celebrità del cinema, del teatro e della musica, alcuni finiti in carcere (a Evin e in altre prigioni intorno a Teheran, a Tabriz, a Sanandaj), altri ai quali è stato vietato di lavorare. Secondo il quotidiano riformista Shargh il governo iraniano ha istituito una task force di 10 membri per tenere un elenco degli artisti che hanno preso parte a manifestazioni di strada o che si schierano anche online contro il regime. Mentre sono innumerevoli i casi degli atleti che si rendono protagonisti di gesti all’apparenza minori, ma con un dirompente impatto emotivo: dall’arciera Parmida Ghasemi che proprio a Teheran, durante una premiazione, si è tolta l’hijab (poi “scusandosi” dicendo che era stata colpa del vento), fino alle nazionali di beach soccer e di pallanuoto, che mentre si trovavano all’estero per competizioni (una a Dubai, l’altra a Bangkok), si sono rifiutate di cantare l’inno nazionale iraniano.
I manifestanti sono come un fiume in piena, la ribellione si propaga come un virus nella società iraniana, senza una leadership riconosciuta, fondamentalmente pacifiche (come lo schiaffo del turbante, con i più giovani che si filmano mentre con la mano fanno cadere il tipico copricapo dalla testa dei religiosi) ma comunque radicali e radicate, finalizzate a mettere in imbarazzo l’élite al potere nella repubblica islamica, quasi a sminuirne il prestigio, a dimostrare che non sono “intoccabili”. Ma se i manifestanti non arretrano, nonostante le centinaia di vittime e le migliaia di arresti, non lo fa nemmeno il governo, che, anzi, rilancia minacciando di far intervenire l’esercito. La scorsa settimana il comandante delle forze di terra dell’esercito iraniano, Kiumars Heydari, ha definito i dimostranti come «mosche che non avrebbero posto nella Repubblica islamica se Ali Khamenei avesse ordinato una repressione più dura delle proteste a livello nazionale». Poche ore prima il portavoce del governo, Ali Bahadori Jahromi, aveva dichiarato: «Per la polizia sarebbe un gioco da ragazzi usare proiettili veri sui manifestanti. Ma il governo non ricorrerà a tali azioni perché i giovani nelle strade non sono nemici ma “i nostri figli delinquenti”». La situazione resta sul filo: abbassare lo sguardo, anche da così lontano, sarebbe un crimine.