SOCIETÀ

Iran, il regime vara norme ancora più dure contro chi protesta e non indossa il velo

L’obiettivo delle autorità iraniane è ben chiaro da tempo: stroncare, a qualsiasi costo, le manifestazioni di dissenso. Un proposito che oggi, alla vigilia del primo anniversario della morte di Mahsa Amini, la ragazza curda che il 13 settembre dello scorso anno fu arrestata, selvaggiamente pestata e infine uccisa a Teheran dalla “polizia morale” perché indossava “in modo improprio” l’hijab, il velo islamico, è ancor più focalizzato: togliere il “respiro” a chi ha ancora voce per protestare. Così il regime teocratico, che sin da subito aveva reagito con una repressione brutale nei confronti dei manifestanti (530 i morti negli scontri di piazza, secondo una stima non più aggiornata da mesi, oltre a 7 condanne a morte, eseguite, e oltre ventimila arrestati), ha deciso di giocare d’anticipo: prendendo di mira gli attivisti e le famiglie delle vittime, nell’illusione di scongiurare per il prossimo 16 settembre (data ufficiale della morte di Masha) un riaccendersi delle proteste di piazza che tanto fastidio hanno dato al leader supremo iraniano, l’Ayatollah Ali Khamenei. Applicando lo schema ormai abituale del regime: vietare, intimidire, punire, torturare, calpestando regole e diritti, anche a costo di spingersi fino alle più estreme conseguenze. Com’è appena accaduto pochi giorni fa, il 31 agosto scorso, quando un manifestante iraniano imprigionato è morto in circostanze sospette in una prigione nel nord dell’Iran. Secondo Human Rights Watch, Javad Rouhi, 31 anni, è stato “orribilmente torturato” dopo il suo arresto durante le proteste scoppiate in Iran nel settembre 2022 e infine condannato “dopo un processo iniquo”. L’ospedale dove è stato ricoverato ha parlato di “commozione cerebrale” come causa della morte. L’avvocato del ragazzo ha detto che le forze di sicurezza governative hanno fatto pressione sulla famiglia per organizzare una sepoltura privata.

Arrestato e scomparso lo zio di Mahsa Amini

Ma le prove di una simile condotta sono ormai quotidiane. L’ultima notizia è trapelata pochi giorni fa, grazie a Hengaw, l’Organizzazione indipendente per i diritti umani in Kurdistan, con sede in Norvegia: Safa Aeli, 30 anni, zio di Mahsa Amini, è stato arrestato a Saqqez, nel Kurdistan iraniano. La cattura dell’uomo, che è stato portato in un luogo segreto e del quale più nulla si sa, in realtà risale al 5 agosto scorso, durante un blitz delle forze governative. La stessa sorte è toccata martedì scorso, 5 settembre, a due familiari di Mohammad Hassan Zadeh, un ragazzo che la sera del 16 novembre dello scorso anno, durante una manifestazione di protesta a Bukan, città nell’altopiano del Kurdistan, aveva commesso l’errore di intervenire per aiutare una ragazza che stava per essere portata via con la forza dalle Guardie della Rivoluzione Islamica. Intervento non gradito dagli agenti, che l’hanno più volte pugnalato e infine ucciso, con un proiettile sparato dritto al cuore. Il padre del ragazzo, Ahmad Hassan Zadeh, 56 anni, e la sorella, Solmaz Hassan Zadeh, 29 anni, sono stati convocati nella stazione di polizia e lì arrestati (non si sa per quali accuse) e infine portati chissà dove. Secondo Hengaw, negli ultimi mesi sono stati arrestati almeno 72 parenti di manifestanti rimasti uccisi durante le proteste.

Nel mirino degli ayatollah sono ormai finiti stabilmente anche attivisti, giornalisti e docenti universitari che nei mesi scorsi hanno sostenuto il movimento di protesta “Donna, Vita, Libertà”. Sono circa un centinaio i giornalisti fermati, interrogati o arrestati nell’ultimo anno. Pochi giorni fa due croniste sono state condannate a quaranta mesi di reclusione per “cospirazione e collusione”: per ora rimarranno in carcere “soltanto” un mese, il resto della condanna è “sospeso per 5 anni”, periodo nel quale le detenute non potranno lasciare il paese e dovranno seguire un corso di “etica professionale”. In un file audio che è riuscita a inviare dalla prigione di Evin, a Teheran, un’altra giornalista, Nazila Maroofian, 23 anni, ha denunciato di essere stata “aggredita sessualmente” durante il suo ultimo arresto, la settimana scorsa. E non va meglio per i docenti universitari, che con sempre maggiore frequenza finiscono per essere sospesi o direttamente licenziati senza preavviso (i campus universitari, da Teheran a Mashhad e Isfahan, hanno avuto un ruolo determinante nello sviluppo della protesta civile dell’ultimo anno). La notizia più recente l’ha riportata Iranwire: altri tre licenziamenti per un professore, un assistente professore e un docente che lavoravano in tre diverse Università di Teheran, quella di Belle Arti, l’Università Amir Kabir l’Università Azad. Mentre un’ingegnera, Zeinab Kazemi, è stata appena condannata a 74 frustate (pena sospesa per 5 anni, ma sarà eseguita se commetterà un altro reato) per aver protestato contro l’obbligo d’indossare il velo islamico in una riunione d’ingegneri a Teheran. «Non mi sono mai pentita di aver alzato la voce per la giustizia e contro l'oppressione», ha scritto la donna sul suo profilo Instagram, dopo la sentenza.

Pattuglie per il velo e intelligenza artificiale

Non finisce qui: perché la tensione resta altissima, soprattutto a Saqqez, città natale di Mahsa “Zina” Amini, che sabato 16 settembre, presumibilmente, sarà l’epicentro delle commemorazioni per la ragazza, con le autorità iraniane che hanno già fatto sapere che “non saranno tollerate manifestazioni di piazza”. Dalla seconda metà di luglio la famigerata polizia morale (che non è stata abolita, nonostante gli annunci, poi smentiti, dello scorso dicembre) ha ripreso a effettuare, in tutto il paese, le “pattuglie per il velo”,  a piedi e a bordo di veicoli, per far rispettare alle donne il rigido codice di abbigliamento islamico. Il portavoce della Disciplinary Force of the Islamic Republic of Iran (Faraja), Saeid Montazeralmahdi, ha spiegato alla Cnn la dinamica degli accertamenti: «Le donne che indossano un abbigliamento non conforme saranno prima avvertite dagli agenti, mentre quelle che non si conformano e insistono a infrangere le regole potrebbero affrontare azioni legali». Inoltre sarà ulteriormente potenziato il sistema di telecamere sia all’interno di esercizi commerciali, sia all’esterno, affidandosi a sistemi basati sull’intelligenza artificiale, che già da anni (il primo database di “identità nazionale” dell’Iran risale al 2015) vengono usati per riconoscere i volti e identificare chi sta infrangendo la legge sull’hijab.

Legge che, peraltro, sta per essere ulteriormente inasprita, con un complesso disegno di legge presentato alla fine di luglio, articolato in 70 articoli, che nonostante non sia stato ancora formalmente approvato, viene letto come un chiaro “avvertimento agli iraniani”, come la dimostrazione che il regime degli Ayatollah non arretrerà di fronte alle richieste dei manifestanti, che difenderà l’intransigenza della legge islamica, che non è disposto, né ora né mai, a concedere alcuna libertà. Che il dissenso sarà comunque represso. La nuova legge prevede anzitutto un drastico inasprimento delle condanne per le donne che si rifiutano d’indossare il velo. Se finora si rischiano da 10 giorni a 2 mesi di carcere, la nuova legge prevede una “forbice” tra i 5 e i 10 anni di reclusione, con un’ammenda di 360 milioni di rial iraniani (al cambio di oggi circa ottomila euro: un’enormità per l’Iran, dove lo stipendio medio corrisponde a circa 650 euro al mese). E attenzione: la legge, anche quella attuale, non riguarda soltanto l’obbligo per le donne di coprirsi la testa, ma anche il divieto d’indossare abiti aderenti o “rivelatori” (Mahsa Amini, al momento dell’arresto, indossava anche un paio di pantaloni attillati). Lo spiega meglio Iran International: «Gli indumenti che rivelano il collo, le braccia sopra il polso e le gambe sopra le caviglie saranno considerati “indumenti inappropriati”. Se ripetuta più di 4 volte, la multa per la mancata copertura della testa potrà arrivare a 1,5 miliardi di rial (oltre 33mila euro). Secondo i relatori, la violazione del codice di abbigliamento equivarrebbe a “promuovere la nudità e l’immodestia”. Inoltre, per scoraggiare artiste e “influencer”, le donne condannate con la nuova legge potrebbero vedersi bandite da qualsiasi attività su Internet per un massimo di due anni.

Apartheid di genere e militarizzazione della morale pubblica

Un gruppo di esperti, nominati dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, dopo aver esaminato il testo non ha nascosto le profonde preoccupazioni (anche perché la sua approvazione è scontata): «Il progetto di legge potrebbe essere descritto come una forma di apartheid di genere, poiché le autorità iraniane sembrano governare attraverso la discriminazione sistematica con l’intenzione di mettere donne e ragazze in una posizione di totale sottomissione. Sostenere la famiglia promuovendo la cultura della castità e dell’hijab è discriminatorio e può costituire una persecuzione di genere. Il disegno di legge viola anche i diritti fondamentali, tra cui il diritto di prendere parte alla vita culturale, il divieto di discriminazione di genere, la libertà di opinione e di espressione, il diritto di protestare pacificamente e il diritto di accedere ai servizi sociali, educativi e sanitari e la libertà di movimento. Usando termini come “nudità, mancanza di castità, mancanza di hijab, cattiva vestizione e atti contro la pubblica decenza che portano a disturbi della pace”, il progetto di legge punta ad autorizzare le istituzioni pubbliche a negare servizi e opportunità essenziali per le persone che non rispettano il velo obbligatorio. La militarizzazione della morale pubblica per negare alle donne e alle ragazze la loro libertà di espressione è profondamente depotenziante e consoliderà ed espanderà la discriminazione e l’emarginazione di genere, con conseguenze negative più ampie per i bambini e la società nel suo complesso».

«Le autorità iraniane stanno usando il loro abituale copione di intimidazioni per esercitare la massima pressione sui dissidenti pacifici in vista dell’anniversario della morte di Mahsa Amini», ha dichiarato Tara Sepehri Far, ricercatrice iraniana senior di Human Rights Watch. Al momento due evidenze stanno prendendo forma. La prima: il regime degli Ayatollah ha deciso di non arretrare di fronte al peso delle proteste e al clamore internazionale che hanno provocato, nel timore che anche una pur minima concessione ai dimostranti aprirebbe una crepa irreparabile. Dunque da qui in avanti la repressione sarà ancor più aspra, costi quel che costi. La seconda: i dimostranti non hanno alcuna intenzione di fare un passo indietro. Continueranno a muoversi, ma con cautela. Approfittando delle commemorazioni, ma senza prestare il fianco ad arresti di massa. L’Iran è un paese dove esistono leggi, ma non uno stato di diritto. Dove le inosservanze dei diritti umani sono sistematiche. Un paese che viola gli obblighi internazionali (l’Iran ha aderito alle Convenzioni di Ginevra del 1949 e ha firmato i protocolli aggiuntivi del 1977), che vieta l’attività delle organizzazioni per i diritti umani, che minaccia, intimidisce, arresta, fino a uccidere gli oppositori, i dissidenti, gli attivisti. Far crollare il muro della teocrazia, che governa il paese dal 1979, al termine della rivoluzione khomeinistache rovesciò lo scià Mohammad Reza Pahlavi, un monarca laico alleato dell’Occidente, favorendo la formazione di una Repubblica islamica, sarà tutt’altro che semplice e, verosimilmente, tutt’altro che rapido.

Un’occasione per lanciare messaggi importanti potrebbe venire dalle elezioni presidenziali, previste per marzo del prossimo anno. Il Washington Institute presentava così l’appuntamento, in un’analisi pubblicata il mese scorso: «Le prossime votazioni pongono un dilemma per la Guida Suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei: dovrebbe squalificare aggressivamente i candidati e alienare ulteriormente il popolo, o rischiare un Majlis (il Parlamento iraniano) dominato dai suoi rivali politici? In un discorso del 4 giugno scorso lo stesso Khamenei aveva sostenuto che le elezioni sono molto importanti per il regime, avvertendo che “i nemici dell'Iran stanno cercando di creare disperazione e rendere le persone pessimistiche verso il voto. Ma la Guida Suprema ha solo sé stesso da incolpare per l’avversione della popolazione su questo fronte. Nel 2016, il suo Consiglio dei Guardiani ha squalificato l’80% dei candidati che avevano fatto domanda per concorrere per le elezioni dell'Assemblea degli Esperti di quell’anno; perfino il candidato riformista Hasan Khomeini, nipote del fondatore della Repubblica islamica, è stato respinto». Nel 2020 è andata appena meglio: 50% di candidature respinte. Come dire: quel muro, ancora oggi, è invalicabile. Una “cessione di potere” per via elettorale non è, al momento, ipotizzabile. Intanto quest’anno è stato registrato il record assoluto delle candidature: quasi 50mila domande: il corpo clericale che analizza la liceità delle richieste (ma la parola finale spetta comunque all’Ayatollah Khamenei) avrà il suo bel daffare. Un ulteriore segnale potrà venire dall’affluenza, dal numero di votanti, che nella tornata del 2020 è stata del 42% a livello nazionale, con un picco di astensioni a Teheran del 76%. Lo scrittore iraniano in esilio, Omid Shams, docente all’Università di Portsmouth, in Inghilterra, ha pubblicato il mese scorso un editoriale sul sito web IranWire che fotografa senza filtri l’attuale situazione politica In Iran: «È passato quasi un anno dall’omicidio di Mahsa Amini sotto la custodia della polizia morale e dallo scoppio delle proteste “Donna, Vita, Libertà”, il più grande movimento antigovernativo in Iran dalla rivoluzione del 1979», scrive Shams. «Per sedare questa formidabile ondata di proteste, la Repubblica islamica ha fatto ricorso ad azioni che, a tutti gli effetti pratici, l'hanno trasformata da Stato-nazione a Stato criminale o mafioso. La Repubblica islamica si è trasformata nella versione più brutta di tutto ciò che è salito al potere diventando un governo profondamente anti-religione, anti-nazione e anti-umano».

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