CULTURA

Gli italiani del rugby che sfidarono l'apartheid

Saper raccontare è un'arte, un talento di pochi, a cui si aggiunge il fiuto, la rara capacità di saper scovare le storie quando sono ben nascoste, sconosciute, quasi invisibili, rintracciandole tra le pieghe di avventure più grandi e note. Quella ritrovata e scelta dal giornalista Massimo Calandri, inviato di Repubblica, è una storia vera, piccola ma irresistibile, degna di essere svelata, condivisa. Dal 13 giugno al 12 luglio 1973 una selezione di giovani rugbisti italiani parte per un tour internazionale in Rhodesia e Sudafrica, una terra bellissima segnata da una feroce e insensata ingiustizia sociale. In quegli anni il Sudafrica è un Paese profondamente razzista che cerca di ignorare la disapprovazione del resto del mondo e superare l'isolamento anche attraverso il rugby, sport in cui eccelle grazie ai suoi Springboks. Ma gli sforzi non bastano: anche dal mondo ovale viene biasimato e boicottato per la sua politica disumana, l'apartheid, che favorisce esclusivamente i bianchi di origine europea e discrimina i gruppi etnici neri, privandoli dei diritti civili. Una piaga, una vergogna. L’apartheid sarà superata solo negli anni Novanta, dopo la liberazione di Nelson Mandela, che diventerà poi Presidente. 

Nel quadro delle tensioni e dei boicottaggi degli anni Settanta, solo la Federazione italiana risponde all'invito per un tour estivo di incontri con le squadre sudafricane, considerandolo un'opportunità di crescita tecnica per i propri giocatori (anche la Romania accetta inizialmente ma il viaggio viene cancellato perché Mosca non dà il permesso).

Non ci restano che gli italiani

Si intitola Non puoi fidarti di gente così (Mondadori) e - si sarà capito - non è solo un libro di sport. La spedizione internazionale segna le esistenze dei giovani giocatori, quasi tutti inesperti, molti dei quali partiti grazie alla rinunce dei titolari. Spostandosi da una città all'altra, la squadra italiana affronta nove partite in meno di un mese - tutte perse tranne una, quella contro i Leopards, la nazionale bantu, ma più volte sfiorano l'impresa - e, sopportando il tifo di un pubblico che urla Spaghetti!, si scontra in campo con uomini maestosi ed esperti, incontra le comunità italiane tra una partita e l'altra, intonando Marina e Vola colomba, incrocia il suprematista bianco Ian Smith e poi, finalmente, un leader carismatico della lotta all'apartheid come Steve Biko, in tribuna per seguire il match contro i Leopards, trasformando le sfide sul campo in occasioni di crescita sportiva e umana, fino a raggiungere la piena consapevolezza dell'importanza dei diritti civili.

Quei ragazzi italiani con la passione per mete e calci piazzati, partiti pieni di entusiasmo e speranze, giunti in Sudafrica fanno i conti con la dura realtà sociale, diventando sempre più consapevoli, ognuno di loro intraprendendo un percorso personale e al tempo stesso di squadra. "Nel libro racconto la trasferta di una selezione un po' raffazzonata, trasformatasi in una vera e propria avventura dall'altra parte del mondo, in una terra violentissima, sul campo e fuori - spiega Calandri -. Partita dopo partita, questi ragazzi diventano più forti, sia dal punto di vista sportivo che umano. Al termine del viaggio si scoprono uomini e molti di loro riusciranno anche a superare situazioni personali difficili".

L'impresa nel 1973 viene raccontata dalla penna di Luciano Ravagnani, l'unico giornalista a seguire il viaggio, inviato del Gazzettino, che il 13 giugno, giorno della partenza, dedica un ampio servizio al tour con tre colonne riservate alla schedina con le previsioni di Nelson Babrow, stella sudafricana del Petrarca Padova, il quale immagina che gli azzurri possano vincere due o forse tre incontri. Ravagnani scrive: "La selezione è giovane, 23 anni e 3 mesi di media: tredici esordienti in azzurro; non c'è un calciatore vero, il che potrebbe costare un paio di incontri; non c'è una apertura di ruolo. Ma è una selezione che non ha nulla da perdere". Il capitano è Marco Bollesan, ad accompagnare la squadra ci sono il manager Giuseppe Alessandra, l'allenatore Gianni Villa e il vice Gigi Savoia e, soprattutto, il sudafricano Amos du Plooy, inviato in Italia dal famoso springbok Danie Craven come consulente tecnico, per aiutare e formare la squadra prima e durante il tour.

Un punto di forza del libro (per tornare all’arte della narrazione) sta nella descrizione dei personaggi, uomini in carne, muscoli e ossa rintracciati e intervistati dall'autore per poter ricomporre la vicenda ritrovando dettagli, aneddoti, stati d'animo, vive memorie a distanza di mezzo secolo. “Naturalmente ognuno di loro aveva una versione diversa per ciascun episodio: ho sempre scelto quella che mi piaceva di più”. A ogni giocatore viene dedicata cura, tempo e lo spazio di un intero capitolo, così non si può proprio fare a meno di affezionarsi a Isidoro ‘Doro’ Quaglio, che piace a tutti e "sorride sempre, anche nei momenti più difficili”, Angelo Visentin, Banana per gli amici, soprannome nato “per via di mio padre, vendeva frutta e verdura al mercato. E poi, io ho sempre portato il ciuffo”. E ancora, Lelio Lazzarini, che i giornali sudafricani chiamano 'scarpa d'oro' per la sua abilità nei calci piazzati, l’affascinante Rocco Caligiuri, Ettore Abbiati, detto Cubo, e il talentuoso Salvatore Bonetti, prima soprannominato Boni poi Nembo Kid, a cui affidiamo le riflessioni finali, la sintesi, il senso di una avventura che forse non è mai davvero finita: “Eravamo dei ragazzi ma poco alla volta, e tutto all’improvviso - dopo la partita coi neri - siamo diventati uomini. Laggiù abbiamo imparato dal campo di gioco e dalla strada. Quel viaggio ci ha cambiato la vita, ci ha fatto diventare persone migliori”.

Eravamo dei ragazzi ma poco alla volta, e tutto all’improvviso, siamo diventati uomini

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