SOCIETÀ

Kosovo, la miccia balcanica dei rapporti internazionali

Serbia e Kosovo: un confine, un rapporto delicato che in questi mesi sta tornando al centro delle attenzioni non solo europee ma anche mondiali. Una crisi alimentata anche dalle dimissioni del premier kosovaro Ramush Haradinaj, a causa del suo coinvolgimento nel processo per il crimini del UÇK, indetto dal tribunale speciale de L’Aja.

Tutto è iniziato a novembre dello scorso anno quando la richiesta del Kosovo di entrare a far parte dell’Interpol è stata respinta, mettendo in luce alcuni obblighi che il paese ex jugoslavo non ha ancora raggiunto. L’Interpol è l’organizzazione che facilita la collaborazione della polizia dei paesi membri a combattere il crimine internazionale; il Kosovo aveva già presentato la domanda nel 2010, 2015 e 2016.

Il 20 novembre 2018 l’Assemblea generale dell’Interpol, che si è tenuta a Dubai, ha espresso il proprio voto: 68 paesi hanno votato a favore, 51 opposti e 16 astenuti. Il paese non ha raggiunto quindi i due terzi necessari per il suo ingresso. Secondo la Bbc, il Kosovo avrebbe speso 1,2 milioni di euro per far pressioni per la sua adesione. “Bisogna prendere in considerazione ogni singolo paese - spiega il prof. Egidio Ivetic, docente di Storia del Mediterraneo e dell’Europa orientale all’università di Padova-. L’Italia appoggia entrambe le parti ma se può, privilegia quella albanese. Un caso particolare è quello degli Stati Uniti: la Serbia, orgogliosa della propria indipendenza, non è venuta a patti con gli USA tra il 1998 e il 1999 e una delle più importanti basi NATO si trova proprio in Kosovo, assicurando così agli americani una forte presenza nel territorio dei Balcani. È necessario in questi casi tener conto delle politiche e relazioni internazionali: a qualcuno fa comodo avere una zona perennemente sull’orlo di una crisi di nervi.

Tenendo in considerazione tutti questi fatti, una grande assente nel gioco è l’Unione Europea: in generale, le aree di confine di tutto il territorio europeo hanno raggiunto la pace, con grossi spostamenti di persone. Rimangono due ingenti problemi di portata europea, che tutti minimizzano: la Serbia è uno stato ma la nazione serba vive in quattro stati e la propria storia è racchiusa in Kosovo. I serbi si trovano anche in Croazia, non sono molti ma contano, e sono costituenti della Bosnia Erzegovina. Stanno creando preoccupazione anche in Montenegro dove è in atto una spaccatura tra l’identità montenegrina e quella serba: sono arrivati a creare la Chiesa Ortodossa Autocefala montenegrina. L’altro problema è la nazione albanese, distribuita anch’essa in quattro stati. Questi due gruppi si sovrappongono e si scontrano, come nel caso del Kosovo.”

L’ennesimo rifiuto può essere stato favorito anche dalle pressioni che la Serbia, con l’appoggio della Russia, sta mettendo in atto: il governo serbo non ha mai riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, avvenuta nel 2008. “Ovviamente la Serbia non può accettare il distacco del Kosovo - spiega il prof. Ivetic - perché fa parte del suo territorio. Belgrado non ha potuto reagire all’epoca ma ora è pronta a farlo nel caso in cui venissero meno le tutele per la componente serba che si trova nel nord del Kosovo. La Serbia non può rinunciare al Kosovo, perché è un luogo sacro della sua cultura: ha un patrimonio incredibile, poco conosciuto, di grande portata europea e che di fatto rappresenta la civiltà serba”. 

Il primo ministro della Serbia Nebojša Stefanović ha posto davanti ai paesi membri dell’Interpol due questioni importanti: la prima legata all’irregolarità della richiesta, mentre la seconda sui possibili eventi che potrebbero succedere dopo l’ingresso del Kosovo. La Serbia ha ritenuto la richiesta una violazione del diritto internazionale, per una presunta inclinazione politica, e della risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, relativa agli accordi di pace. La seconda questione, secondo il governo serbo, riguarda l’accesso ai database internazionale: il Kosovo, entrando nell’Interpol, avrebbe accesso ai dati sugli ufficiali serbi, ritenuti criminali di guerra all’interno del proprio territorio. “Qualche dubbio sulla moralità della richiesta da parte del Kosovo è naturale. La dirigenza che si è imposta dopo la morte di Ibrahim Rugova, un leader portatore di una resistenza pacifica, ha dei precedenti nella criminalità.”

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Oltre alle ripercussioni in ambito politico, lo scontro tra Belgrado e Pristina coinvolge anche l’economia dei due paesi. Il 6 novembre 2018 il Kosovo alzò del 10% sul valore le tariffe doganali per le importazioni provenienti dalla Serbia e dalla Bosnia, ree di aver portato avanti una campagna aggressiva contro l’ingresso dell’ex regione nei sistemi dell’Interpol. Dopo l’esito negativo della domanda, il Kosovo decise di aumentare dal 10% al 100% i dazi sulle merci, creando così un danno economico per entrambe le parti: secondo la Bbc, le perdite si aggirano intorno ai 400 milioni di euro all’anno. Le reazioni da parte dei governi europei sono state molto negative, con un richiamo al rispetto dell’accordo CEFTA, Central European Free Trade Agreement e il relativo regolamento per il commercio di prodotti agricoli e industriali. 

La protesta si è spostata poi dentro i confini del Kosovo: la minoranza serba presente nel territorio ha fatto sentire la propria voce, attraverso le dimissioni dei sindaci serbi presenti al nord e il barricamento nel parlamento di Pristina da parte dei rappresentanti serbi. Inoltre, il parlamento kosovaro ha approvato a dicembre 2018 la creazione di un esercito “regolare”: ha stabilizzato le attuali Forze di sicurezza, ha posto le basi per un Ministero della difesa e ha introdotto norme relative al servizio militare. Una decisione che non è di certo piaciuta alle istituzioni e governi mondiali, dalla minaccia della Nato di ridimensionare la propria presenza nel territorio all’appello dell’Onu a rispettare la Risoluzione 1244. Gli Stati Uniti sono l’unico paese che ha appoggiato la decisione di Pristina, augurandosi che vengano comunque coinvolte anche le minoranze presenti.

L’improbabilità di un accordo entro breve termine e a condizioni favorevoli per entrambe le parti sembra un sogno: minacce, propaganda ostile, notizie false e disordini nell’area nord (con diversi arresti da parte della polizia kosovara) sono alcuni degli eventi e dei gesti che hanno caratterizzato questi mesi. “È uno stato che si è autoproclamato indipendente, senza un’organizzazione normativa interna stabile - spiega Egidio Ivetic -. È impensabile concludere qualsiasi trattato internazionale senza aver sistemato questo problema interno. Si è parlata di una nuova Conferenza di Berlino, con riferimento a quella del 1878: all’epoca, Otto von Bismarck ha sistemato la questione dei Balcani, creando una situazione di stabilità fino alle guerre balcaniche. Se si prendesse in considerazione questa proposta, bisognerebbe spostare i confini. Questo però è successo quasi 150 anni fa.

È stata avanzata anche un’altra proposta. C’è un precedente: le isole Åland si trovano in Finlandia ma possiede uno statu speciale dato che la popolazione presente è di lingua e di origine culturale svedese. Lì c’è stato un accordo tra i due stati in cui formalmente le isole appartengono allo stato finlandese ma hanno una propria indipendenza a livello internazionale. Si potrebbe pensare a una soluzione di questo genere per la Serbia e il Kosovo, garantendo l’accesso ai luoghi sacri dei serbi senza il controllo. Credo che questa ed altre soluzioni siano possibili solamente con le giuste pressioni da parte degli Stati uniti e della Russia. A quanto pare però non c’è un interesse così forte per risolvere la questione: se si mantiene alto il “fuoco” in questa zona, la Cina faticherà ad ampliarsi, partendo dal proprio porto nel Pireo, verso Belgrado, Budapest e Trieste. Il Kosovo è un punto strategico per più paesi, dove confluiscono interessi di molte parti.”

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