SCIENZA E RICERCA

L'editoriale. La soglia di non ritorno e la politica

Nella classe qui riprodotta al museo dell’Educazione dell’università di Padova già all’epoca si parlava di scienza, della vita degli insetti, del funzionamento degli ecosistemi. E di questo vi parlo oggi: di ecosistemi e ambiente.

Lo faccio contravvenendo a una regola: nel campo della comunicazione del riscaldamento climatico ci diciamo che non dobbiamo dare solo informazioni catastrofiste e brutte notizie. Ma quando ci sono, non possiamo fare finta di nulla. Attorno alla metà di settembre, Science ha pubblicato un articolo che ha fatto molto scalpore nel settore (ne abbiamo parlato qui), passando quasi sotto silenzio nei media. Si fa un aggiornamento sui modelli climatici, ricordando come si sia arrivati a un 1,1 gradi di riscaldamento medio rispetto all’era pre-industriale. E arriva la conferma: se le politiche rimarranno le stesse di oggi, non solo supereremo la soglia di 1,5 gradi, ma andremo oltre ai 2 gradi. Gli studiosi spiegano che, raggiunti gli 1,5 gradi, andremo con grande probabilità incontro ai tipping points, cioè i punti di non ritorno. Sono dei momenti di particolare instabilità, di accelerazione del processo, dovuti a diversi effetti. Una sorta di “rotolamento” che si alimenta da solo. Gli studiosi analizzano questi punti in diversi campi: nei ghiacci polari, nelle correnti oceaniche, nel permafrost, nelle foreste boreali ecc.

Il messaggio tra le righe è questo: rispettare gli accordi di Parigi ormai è molto difficile, se non impossibile ma possiamo fare ancora molto per evitare di raggiungere i due gradi di riscaldamento globale. A fronte di queste notizie, trovo incredibile come la politica non ascolti quello che sta accadendo. In uno scenario così difficile, con una guerra, instabilità molto grave, anche nei prezzi. Non sarà facile che le grandi potenze nei prossimi anni si trovino a un tavolo per discutere di cambiamento climatico.

Rileggendo questo articolo, anche alla luce delle elezioni politiche in Italia – ma non solo – l’unico movimento politico che aveva messo nel proprio nome questo tema, ha preso poco più del 3%. Mi chiedo allora: questo che dovrebbe essere l’argomento principe di discussione nei prossimi anni ha avuto così poco riscontro, mentre i diretti interessati hanno addirittura festeggiato per il risultato raggiunto. Invece è un disastro: è disastroso che solo il 3% degli italiani abbia deciso di trasformare questa emergenza in una scelta politica.

Direi allora che è il caso di festeggiare di meno e farei una riflessione: l’ambientalismo del futuro non può essere una pattuglia di parlamentari, non può essere una conventicola. Ma deve essere qualcosa di più grande, nel tempo e nello spazio: un movimento trasversale, popolare e pragmatico che ci racconti come possiamo co-evolvere in modo positivo. Questo sarebbe un salto di qualità che potremmo fare almeno nel dibattito ambientalista.

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