Il presidente dell'Egitto al-Sisi. Foto: Reuters
Il finale è già scritto: non sono previsti colpi di scena nelle elezioni che tra pochi giorni decreteranno il rinnovo del mandato di Abdel Fattah al-Sisi come presidente dell’Egitto. Sarà il suo terzo incarico, lui che al potere era salito giusto dieci anni fa guidando il sanguinoso colpo di stato (3 luglio 2013) che spazzò via Mohamed Morsi e il suo governo sostenuto dai Fratelli Musulmani, che l’anno precedente, sull’onda delle “Primavere arabe”, era stato eletto attraverso elezioni democratiche, le uniche della storia egiziana. Al-Sisi (che non ha mai tollerato le “Primavere”) non ha particolari meriti da vantare per essere rieletto, se non quello di esser riuscito, attraverso metodi decisamente criminali, a sopire le proteste interne e a offrire all’esterno un’immagine di “stabilità”. In questi anni al potere ha usato le leggi antiterrorismo per arrestare chiunque tentasse di ostacolare il suo cammino (si stima che oltre 60mila oppositori siano finiti in carcere, anche senza accusa, o senza processo). E nell’elenco dei “terroristi” ha inserito anche difensori dei diritti umani e giornalisti, così, per togliere platealmente la voce a chi ancora tentava di protestare. Human Rights Watch riassume così la situazione: «Il governo del presidente al-Sisi non ha allentato la repressione nazionale che ha causato una delle peggiori crisi dei diritti umani in Egitto da molti decenni. I membri chiave della società civile subiscono intimidazioni, divieti di viaggio e congelamento dei beni. Le autorità molestano e detengono i parenti dei dissidenti all’estero e usano vaghe accuse di “moralità” per perseguire le persone LGBT, le influencer dei social media e le sopravvissute alla violenza sessuale. Crimini gravi, tra cui la tortura e le sparizioni forzate, vengono commessi impunemente». In sostanza: chi protesta finisce in carcere. Negli ultimi due mesi, parliamo di ottobre-novembre, secondo Amnesty International il governo egiziano ha arrestato almeno 196 persone con l’accusa di aver partecipato a proteste non autorizzate, di aver diffuso notizie false e con vaghe accuse di “terrorismo”. Molti dei manifestanti, pacifici, erano scesi in piazza al Cairo e ad Alessandria per esprimere solidarietà al popolo palestinese.
Un gigante sull’orlo del collasso economico
Abdel Fattah al-Sisi è un dittatore, e come tale continuerà a comportarsi. Sarà rieletto perché le elezioni che da domenica prossima, fino a martedì 12, si terranno in Egitto sono poco più di una messinscena, mentre la più grande nazione del Medio Oriente continua a scivolare in una crisi economica sempre più profonda. Sarà rieletto perché non ha competitor, se non innocui. Gli altri candidati sono Abdel Sanad Yamama, leader del Partito Egiziano della Delegazione (Wafd); Hazem Omar, capo del Partito Popolare Repubblicano, percepito lui stesso come sostenitore di al-Sisi visto che negli ultimi dieci anni mai si è mostrato in disaccordo con il presidente; e infine Farid Zahran, del Partito Socialdemocratico Egiziano, che peraltro aveva già collaborato con la giunta militare per formare il governo dopo il colpo di stato del 2013. Nessun vero pericolo per il dittatore, che invece teme una bassa affluenza alle urne, che potrebbe essere “letta” come una presa di distanza degli elettori verso la giunta militare. Come ha spiegato ad Al Jazeera Nancy Okail, attivista egiziana in esilio negli Stati Uniti, presidente del Center for International Policy: «È in atto il solito mix di intimidazioni e tattiche di corruzione: da un lato minacciare gli elettori comuni, dagli insegnanti delle scuole ai lavoratori pubblici, di fatto obbligandoli ad andare a votare altrimenti dovranno affrontare conseguenze. E dall’altro distribuire denaro alle persone e fornire loro il trasporto con gli autobus verso i seggi».
Il presidente egiziano ha un urgente bisogno di esibire un consenso, anche se di facciata. Vuole un’ampia legittimazione interna nonostante le enormi difficoltà economiche, con l’inflazione che viaggia stabilmente ben oltre il 35% (quella dei generi alimentari corre al doppio della velocità), una valuta che sta perdendo gran parte del suo valore (il tasso del mercato nero, da cui molti dipendono, è ancora più basso) e un debito estero che negli ultimi otto anni si è quadruplicato, facendo entrare l’Egitto nel gotha dei paesi più indebitati con il Fondo Monetario Internazionale. Colpa non soltanto delle congiunture economiche, di certo aggravate prima dalla pandemia e poi dalle guerre in corso, dall’Ucraina a Gaza, ma anche per i progetti faraonici che Abdel Fattah al-Sisi continua a perseguire e dove ha investito miliardi di dollari (su tutti la costruzione di New Alamein City, una città di “quarta generazione”, punto di partenza del piano di urbanizzazione della costa settentrionale) che non hanno però ancora portato i ritorni economici previsti. E il turismo, da sempre “motore” dell’economia egiziana, che vive una stagione d’incertezza (e di sempre più frequenti cancellazioni). Il debito estero dell’Egitto è salito quest’anno a 164,7 miliardi di dollari. Secondo la Banca Centrale egiziana (CBE), l’Egitto dovrebbe pagare 29,23 miliardi di dollari nel 2024. Ed è evidente che con l’aumento del debito la spesa pubblica sarà sempre più destinata a ripagare quel debito, togliendo risorse fondamentali alla sanità, all’istruzione e al welfare. Insomma gli egiziani, che già non se la passano bene (secondo la Banca Mondiale oltre il 30% dei circa 106 milioni di abitanti è al di sotto della soglia di povertà, mentre un altro 30%, quella che un tempo era la “classe media”, è in bilico) potrebbero presto trovarsi di fronte a una situazione ancor più drammatica. Anche perché il Fondo Monetario Internazionale ha più volte criticato la gestione dell’economia, compreso il ruolo dell’esercito, di fatto imponendo una serie di riforme che prima o poi dovranno essere applicate. Secondo l’economista Rabah Arezki, ex capo della Banca mondiale per il Medio Oriente, «…l’Egitto è sull’orlo di un baratro finanziario ed economico. Ma piuttosto che tagliare i sussidi per cibo e carburante, il governo dovrebbe usare questa crisi per sradicare il clientelismo e ridurre il ruolo smisurato dei militari nell’economia».
Gli analisti sostengono che anche per questi motivi al-Sisi (alla disperata ricerca di liquidità) ha deciso di anticipare le elezioni, inizialmente previste per aprile 2024. Per ottenere una pubblica legittimazione prima di mettere mano ai tagli e alle riforme che il Fondo Monetario Internazionale pretende e che non sono più rinviabili, a partire dalla massiccia privatizzazione delle aziende statali, comprese quelle sotto il controllo dei militari. Il nuovo anno sarà all’insegna dell’austerity, e questo non piacerà di certo agli egiziani, soprattutto a quella metà abbondante della popolazione più vulnerabile alla crisi economica. Ma al-Sisi deve placare a tutti i costi, e in fretta, la crescente diffidenza nei suoi confronti degli stati del Golfo (da sempre strenui sostenitori dell’economia egiziana, ma a tutto c’è un limite) e del Fondo Monetario, dal quale l’Egitto è sempre più dipendente. Perciò elezioni subito: perché una nuova vittoria elettorale gli darà ancora una volta mano libera per soffocare (a quale prezzo si vedrà) il più che prevedibile dissenso popolare.
La “linea rossa” del valico di Rafah
Dietro la profonda crisi economica egiziana s’intrecciano, inevitabilmente, anche le questioni di politica internazionale. A partire dai riflessi di quel che sta avvenendo appena al di là dei confini egiziani, con l’assedio israeliano su Gaza, e la disperata fuga di milioni di palestinesi verso sud, verso il valico di Rafah, unica “via di fuga” non controllata da Israele verso il mondo esterno per chi vive nell’insediamento palestinese. Un valico che il governo egiziano, d’accordo anche con il re di Giordania, non ha alcuna intenzione di aprire, se non per consentire il passaggio (a singhiozzo) di aiuti umanitari. «È una linea rossa, e non sarà oltrepassata», ha ribadito lunedì scorso il comandante in capo e ministro della Difesa egiziano Mohamed Zaki, intervenendo all’Egypt Defense Expo, al Cairo. «L’attuale escalation nella Striscia di Gaza mira a imporre la liquidazione della causa palestinese. Ma la pace, alla fine, dovrà comunque avere un’autorità in grado di proteggerla». Fermamente contrario allo “sfollamento forzato” degli abitanti di Gaza nel Sinai egiziano anche il presidente al-Sisi: «L’Egitto non permetterà che la questione venga risolta a spese dei paesi vicini», ha spiegato. Questioni di principio e politiche, ma anche pratiche: l’accoglienza di un così grande numero di profughi porrebbe enormi problemi di “gestione”, sia sotto il profilo economico (e come abbiamo visto la situazione egiziana è già grave) sia sotto quello sociale. L’Egitto ha spesso, in passato, svolto un ruolo fondamentale di mediazione tra Hamas e Israele: anche per interesse personale, per mantenere sicuri i propri confini. Ma questa volta il governo del Cairo non sembra disposto a concedere aperture, nonostante le pressioni della comunità internazionale. Prevale la cautela, l’attesa. «Siamo pronti a sacrificare milioni di vite pur di garantire che nessuno invada il nostro territorio», aveva dichiarato il mese scorso il primo ministro egiziano, Mostafa Madbouly, scatenando feroci critiche, soprattutto dalle associazioni umanitarie. Sia Human Rights Watch, sia il gruppo israeliano per i diritti umani B’tselem ritengono che la decisione di chiudere il valico di Rafah equivalga a un crimine contro l’umanità. La presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa, Mirjana Spoljaric Egger, ha appena dichiarato che «nella striscia di Gaza la sofferenza umana è intollerabile: è inaccettabile che i civili non abbiano un posto sicuro dove andare, e con un assedio militare in atto non c’è nemmeno un’adeguata risposta umanitaria».
Stabilità in bilico
L’Egitto resta un crocevia fondamentale per il Medio Oriente (basti pensare all’importanza del canale di Suez per il commercio marittimo globale). La sua “salvaguardia”, per così dire, non è soltanto un problema interno: ne va della stabilità dell’intera regione. E i suoi confini, in questa particolare fase, sono tutt’altro che sicuri: a ovest c’è la Libia, dilaniata da quasi dieci anni in una drammatica guerra civile; così come nel Sudan, confine sud, dove i massacri proseguono in un conflitto senza fine tra l’esercito sudanese e le forze paramilitari che nessuno riesce a placare e che, secondo il Washington Post, sta provocando “una crisi umanitaria inimmaginabile”. A est c’è Israele, e la polveriera di Gaza. Situazione estremamente delicata e complessa. Nella quale, paradossalmente, la figura di al-Sisi (e dell’esercito che guida) assume quasi un ruolo di “garanzia di stabilità”. Come spiega il Berkeley Political Review, il magazine dell’Università di Berkeley, California, che proprio all’Egitto ha dedicato pochi giorni fa un’analisi: «In un Medio Oriente sempre più instabile le autorità egiziane devono necessariamente essere sulla stessa lunghezza d’onda e agire sulla stessa agenda per prevenire eventuali pericoli esterni o divisioni interne. Purtroppo, a causa di decenni di condizionamento, l’esercito è attualmente l’unica potenza nella sfera politica egiziana che può assumere quel ruolo. Senza l’esercito, le deboli istituzioni dello Stato e i politici impreparati andrebbero incontro al collasso o, peggio, alla disintegrazione dei confini».
Un’altra delle incognite che il colosso mediorientale dovrà affrontare riguarda la lotta contro gli effetti del cambiamento climatico (l’Egitto ha ospitato l’edizione dello scorso anno della Cop), sfida assai complessa ma non ancora del tutto persa (qui un approfondimento della Carnegie Endowment). Ed è un’immagine che si addice perfettamente all’Egitto di oggi, ancora una volta in bilico tra crisi e opportunità, in cerca di una “stabile sopravvivenza” che, almeno da un punto di vista economico, difficilmente potrà arrivare senza la complicità interessata degli Stati del Golfo. Mentre restano intatti i profondi timori per il sistematico disprezzo dei diritti umani. Human Rights Watch ha appena inviato una durissima lettera all’Unione Europea nella quale si esprime “grande preoccupazione” per la possibile/probabile apertura di un partenariato strategico dell'UE con l’Egitto, mirato anche a intensificare la cooperazione in materia di sicurezza e migrazione. «La tempistica di questi annunci - scrive HRW - è tanto più preoccupante, in quanto si prevede che saranno formulati poco dopo le prossime elezioni presidenziali in Egitto, che non saranno né libere né eque e si svolgeranno in un clima di crescente repressione da parte delle autorità... L’UE e gli Stati membri dovrebbero subordinare qualsiasi cooperazione con l’Egitto a misure serie e concrete per porre fine all'impunità per i gravi abusi commessi dalle forze di sicurezza egiziane». Come dire: non bisogna chiudere gli occhi su quel che succede lì, all’interno di quei confini. Chi lo farà, a prescindere dalle ragioni di opportunità politica o economica, rischia di trasformarsi in complice.