La statua in onore di Leopardi a Recanati
“Il mio sistema introduce non solo uno Scetticismo ragionato e dimostrato, ma tale che, secondo il mio sistema, la ragione umana per qualsivoglia progresso possibile, non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo; anzi esso contiene il vero, e si dimostra che la nostra ragione, non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ch’ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e che non solo il dubbio giova a scoprire il vero (secondo il principio di Cartesio ec. v. Dutens, par. 1, c. 2., §. 10), ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita, sa, e sa il più che si possa sapere” (Zibaldone, 1655/8 settembre 1821).
1. Errore-verità; teoria-esperienza
La filosofia leopardiana va intesa come «uno Scetticismo ragionato e dimostrato» e la sua sistematicità razionale si configura proprionel percorso del dubbio, in quanto – secondo il principio cartesiano del dubbio – «solo il dubbio giova a scoprire il vero».La filosofia riconoscerà gli errori se rimarrà pratica e legata all'esperienza. In una lettera ‘intima’ alla sorella Paolina Giacomo afferma:«Direte ch’io vi sono sempre intorno cola filosofia. Ma mi concederete che questa non mi è stata insegnata né dai libri né dagli studi né da nessun’altra cosa, se non dall’esperienza: ed io vi esorto a questa filosofia perché credo che vi abbiate i miei stessi diritti e la mia stessa disposizione» [Roma, 19 aprile 1823); e l’8 ottobre 1821 scrive nello Zibaldone: «Se il filosofo non è filosofo nella pratica, e se i suoi principii non corrispondono alle sue azioni, il che accade tutto giorno; ovvero ogni volta ch’egli non è filosofo in questa o quell’azione, o caso della vita, il che accade inevitabilmente spessissimo a’ più stoici e cinici (cioè pratici) filosofi del mondo; egli non pecca per altro, se non perché in tali casi egli fa eccezione del particolare dal generale, e non applica la dottrina e la teoria al caso pratico» (Zib, 1870).
2. Il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi
Leopardi sente particolarmente il tema del rapporto tra conoscenza, scienza, ignoranza e illusione, e ne tratta in forme molto efficaci per il procedere del suo pensiero e della sua poesia. In esso trova un posto di rilievo l’analisi dello sviluppo storico della scienza e del nesso scienza/ignoranza, illuminato dalla ‘disputa dei moderni e degli antichi’.
La migliore testimonianza si ritrova nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi(1815), opera scritta a diciassette anni, maalla quale Leopardi resterà sempre fedele, non abbandonando – almeno fino al 1832 – l’idea di rielaborarla e pubblicarla.Tra le fonti utilizzate primeggiano i testi classici, ma sono ben presenti trattati di mitologia, enciclopedie e storie della scienza. Rimangono consistenti i richiami a testi generali di riferimento, ma è interessante notare come il piano metodologico e progettuale sia ormai il frutto di una riflessione sempre più autonoma rispetto ai repertori manualistici. La presenza di un orientamento generale di descrizione e di denuncia degli errori degli antichi non smentisce la decisa asserzione leopardiana – posta all’inizio della Prefazione– sulla differenza di impostazione rispetto a precedenti opere dello stesso genere, come per esempio ilSaggio sopra gli errori popolareschi ovvero esame di molte opinioni Ricevute come vere, che sono false o dubbiose del medico e antiquario inglese Thomas Brown,pubblicato in edizione italiana a Venezia nel 1743 e posseduto nella Biblioteca di Casa Leopardi. Giacomo vuole proclamare una propria originalità.
La critica ha di recente abbandonato la tendenza a leggere il Saggioin vista della produzione poetica successiva, per riconoscergli un’autonomia di svolgimento nel quadro del pensiero leopardiano e della sua filosofia. Si tratta di un’opera di sincero impegno intellettuale, per l’affermazione della verità di contro all’errore.Ma in essa si mette anche in discussione il rapporto fra antichi e moderni, secondo una visione dialettica del nesso fra errore (antico) e ragione (moderna) che non si risolve necessariamente nella prevalenza della seconda sul primo: la teoria delle illusioni e del ruolo mitopoietico della poesia trova qui le sue prime radici.L’ambivalenza della considerazione leopardiana del rapporto fra errore e verità costituisce così il tratto originale del pensiero del Saggiorispetto alle fonti: da un lato si precisa una propensione illuministica nella teoria della conoscenza nella quale, seguendo le teorie empiriste di Locke (ma anche di Aristotele), l’esperienza ragionata viene posta al centro dell’attività conoscitiva; dall’altro il richiamo alla funzione poetica della cultura classica, i cui errori sono favole popolari degne di grande attenzione, risuona di toni involontariamente vichiani.Differentemente dai philosophesLeopardi propone una vera e propria interpretazione antropologica del mondo primitivo, in direzione di una ricostruzione del rapporto fra natura e cultura che si chiarirà come capovolgimento del primato razionale della civiltà moderna rispetto alla ‘naturalità’ degli antichi. In termini più generali, il Saggiotestimonia dell’affermarsi in modo sicuro dell’adesione al metodo della filosofia moderna: nei riguardi della filosofia antica essa possiede il privilegio di basarsi sull’esperienza e sulla ragione.
Il Saggioè mosso da una chiara preoccupazione conoscitiva e scientifica: non a caso esso privilegia l’astronomia, la cui centralità viene riaffermata a partire dalla sua antichità («L’Astronomia è dunque più antica della Meteorologia»), e la storia naturale.La decisione programmatica – espressa nella Prefazione– di sviluppare alla fine di ogni capitolo un confronto fra antichi e moderni risulta funzionale alla dialettica errore-verità, ma richiama anche il valore dell’ammaestramento dell’antichità: «L’antichità somministra grandi lezioni ad un filosofo, quando è considerata in un modo proprio a farci profittare dell’esempio degli antichi», ancor maggiore a motivo della persistenza nel popolo ‘moderno’ degli stessi errori. Di conseguenza la ricerca trova il suo significato nella rassegna di errori degli antichi che per la loro carica e persistenza popolare divengono errori anche moderni.Inoltre, a differenza degli illuministi, Leopardi non ritiene necessario confutare gli errori popolari, se non attraverso gli scritti degli stessi antichi:«Opponendo così gli antichi agli antichi, mi sono servito forse di un mezzo più valevole a convincere molte persone di tutti gli argomenti che avrei potuto addurre».
È interessante notare come Leopardi distingua nettamente tra la semplicità, che è frutto di ignoranza e in qualche modo prodotto della natura («La natura generalmente nasconde delle verità, ma non insegna degli errori; forma dei semplici, ma non dei pregiudicati»), e il pregiudizio, espressione caratteristica della «cattiva educazione», che «fa ciò che non fa la natura». Se «la maggior parte degli uomini cresce lietamente tra le braccia dell’errore», tuttavia – ricorda il giovane Leopardi – «non v’ha cosa più ingiuriosa allo spirito umano dei pregiudizi».Gli errori popolari sono i pregiudizi che ostacolano il libero uso della ragione, che, sola, può condurre alla ricerca della verità e alla dignità degli uomini liberi. Pur disincantato sull’incidenza di una simile storia dei pregiudizi sull’opinione comune, Leopardi confida nella possibilità di istruire qualche spirito «un poco debole», ma «fornitod’intendimento» e «capace di cangiare opinione». La limitazione metodologica agli errori popolari e non a quelli degli antichi sapienti, in quanto solo i primi si sono diffusi e perpetrati, indica il carattere ‘pedagogico’ dell’opera, che vuole promuovere una crescita culturale dell’umanità lungo la linea di una continuità fra pregiudizi moderni ed errori antichi e nella prospettiva antropologica di una permanenza dei caratteri costitutivi della psicologia umana. Il distacco da una visione semplicemente progressiva delle conoscenze umane emerge con forza nella riflessione conclusiva del Capo x(Degli Astri),nella quale si riconosce il ritorno delle concezioni animistiche degli astri in due padri fondatori dell’astronomia moderna: Tycho Brahe e Johannes Keplero. Al proposito Leopardi argomenta sull’inesistenza nello spirito umano di «una linea retta di cognizioni»e propone l’ipotesi di un «circolo limitato» che conduce a tornare periodicamente alle cognizioni precedenti; una visione ciclica, che fa pensare a Giambattista Vico, ma anche disarmante sulle effettive possibilità di superare gli errori del passato, ridimensionata però nella chiusa del ragionamento in nome del valore della memoria, unica garanzia per non «rinnuovare impunemente gli errori antichi».
La tesi antropologica della continuità dei caratteri psicologici umani distacca nettamente Leopardi dalla visione progressiva della natura umana propria degli illuministi; essa viene ribadita nella Ricapitolazione(«La storia degli errori è lunga come quella dell’uomo»), che si sofferma sul motivo del contrasto fra superstizione («un abuso della Religione nato dall’ignoranza») e Religione, la quale, pur essendo «il più grande di tutti i beni», ha prodotto la superstizione allontanandosi dalla sua verità originaria e favorendo la diffusione dei pregiudizi.Qui appaiono ben visibili le esigenze di un ‘illuminista cristiano’, che identifica errore e superstizione da un lato e verità razionale e Religione dall’altro. Leopardi conferma così per un verso il suo razionalismo critico che riconosce le fonti degli errori nel difetto della ragione critica; ma, per un altro, trova il modo di criticare l’incredulità dei filosofi, ovvero degli illuministi «madre di pregiudizi più perniciosi di quelli che la credulità ha mai prodotti».
Gli errori legati alla visione del cielo sono ben rappresentati in alcuni Capidedicati agli ‘errori fisici’: ix(Del sole), x (Degli astri), xi (Dell’astrologia, delle ecclissi, delle comete), ricchi di osservazioni antropologiche e di materiali utilizzati nell’esperienza poetica successiva.
Propongo una sintesi di alcuni tra questi “errori” degli antichi, e anche dei moderni, che mi sembrano particolarmente interessanti.
Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Sole, Astri, Astrologia
Capo 9 Del Sole
Il Sig. Biot parlando nel dì 6 di gennaio dell'anno 1811 ai membri della classe fisica e matematica dell'Istituto di Francia, sopra l'influenza delle scienze sui pregiudizi popolari, si è congratulato colla umanità dei progressi che lo spirito del volgo ha fatti dopo qualche tempo, profittando, a suo giudizio, del non interrotto crescere e invigorire delle scienze, e cedendo alla ragione una parte dei suoi antichissimi errori.
Duolmi assai di aver letto poco dopo il discorso del filantropo Sig. Biot altro piccolo scritto, ove trovai raccolta ed esposta scherzosamente parte delle infinite superstizioni, che tengono tuttora robustamente incatenate le menti del volgo; duolmi di veder tollerata e propagata sempre più la costumanza di render gli almanacchi l'alimento annuale dei pregiudizi e il baluardo in qualche modo dell'errore, onde nel secolo illuminato acquista maggior credito, e fa maggior guadagno chi sa meglio ingannare con predizioni e con frodi; dorrebbemi finalmente senza misura di dover predire che la parte più grande del genere umano sarà sempre appresso a poco la medesima, sempre schiava della prevenzione, sempre intrattabile al saggio, sempre indurita nell'errore, sempre quasi del tutto insensibile al progresso delle scienze, sempre cieca, sempre in opposizione col buon senso.
L'astronomia fra le altre [scienze] dovè incontrare una sorte non molto favorevole. Non v'ha scienza fisica, che sia come essa opposta ai sentimenti che ogni uomo ha concepiti nella sua infanzia.Una persona del volgocrederà facilmente che tra la calamita ed il ferro, tra la terra ed un sasso v'abbia certa forza di simpatia, che li spinga ad avvicinarsi l'uno all'altra; ma non si persuaderà giammai che i pozzi rivolti colla bocca allo ingiù non perdano per ciò una stilla della loro acqua; che la terra su cui essa posa, e di cui teme tanto le più piccole scosse, si muova tuttogiorno più velocemente di una palla da cannone; che le stelle, che sembrangli altrettanti punti, siano in effetto milioni di volte più grandi del globo che essa abita. Tutto ciò, che è esattamente vero, sembra affatto assurdo al popolo. Quindi errori e pregiudizi senza numero, che si affollano, si moltiplicano, e sono assolutamente ereditari, perchè si giudica ancora, ed è infatti, sotto qualche riguardo, poco necessario l'istruire il popolo sopra queste materie.
Il sole fu il primo oggetto che attirò a sè gli occhi dell'uomo rivolti verso il cielo.
Selden, Buddeo, Fourmont, Banier, Shuckford, Warburton, Poupart, Scheuchzer, Osterman, hanno mostrato che l'astrolatria, ossia culto degli astri, ha avuta un'origine rimotissima, ed è stata commune alle nazioni, quasi altrettanto che il politeismo. Egli è evidente che oggetto primario di questo culto fu il sole.
Quando si volle pronunziar qualche cosa intorno alla natura o agli effetti del sole, il numero degli errori oltrepassò di molto quello delle parole. Accorsero i filosofi in aiuto del popolo, ma Anassagora fece del sole un ferro infocato, Alcmeone lo credè una lastra, Eraclito un battello, Anassimandro una ruota piena di fiamme uscenti per un orifizio, Filolao un globo di vetro, Epicuro una pomice o una sponga infiammata. Il numero degli errori si accrebbe, e i filosofi continuarono a dire. Eraclito diè al sole un piede di diametro, Epicuro lo fe' grande a un di presso come sembra a chi lo riguarda con occhio nudo, Eudosso credè il suo diametro nove volte più grande di quello della luna. Non v'ebbe filosofo che non cadesse in gravi errori, e non v'ebbe quasi errore che non fosse riprovato da qualche filosofo.
Il popolo, lasciato solo in questo fracasso, non rimaneva ozioso, ma lavorava tacitamente per accrescere l'enorme cumulo degli errori umani.
Tutti sanno che, secondo la volgare opinione degli antichi, il sole al suo tramontare, anelante per il caldo, andava a rinfrescarsi nell'acqua del mare.
Solean dire i poeti che l'Aurora sorgea la mattina dal letto dove avea riposato col suo marito.
I poeti e quei Barbari che furon visitati da Pitea lo provvidero di letto, onde passasse commodamente il tempo del commune riposo. Altri giudicarono che il sole alla sera tuffatosi nel mare, si estingueva, e che alla mattina una quantità di particelle ignee si riuniva per formare un nuovo sole.
Senofanestimò il sole composto di esalazioni, e credè che le ecclissi di quest'astro altro non fossero che il suo spegnersi; aggiunse anzi che per un intiero mese durò l'oscurità cagionata da una di queste ecclissi, non avendo il sole potuto riaccendersi. Non è dunque meraviglia che dalla parte di Ponente, quando il sole tramontava si udisse una specie di stridore, cagionato dalle fiamme di questo corpo luminoso, che si tuffavano e si spegneano nell'acqua.
Capo 10 Degli astri
Gli errori volgari degli antichiintorno agli Dei, alla divinazione, agli spiriti sono errori seri e deplorabili, perchè loro cagionavano danni reali e gravissimi. Quelli che riguardano la fisica, e che eran loro di poco nocumento, sono del tutto curiosi e ridicoli, e noi possiamo sollazzarci con essi senza rimorso a spese dei nostri illustri antenati.
Lo spettacolo di un cielo stellato colpisce ogni uomo riflessivo. Esso avrà forse sorpresi e gettati in una dolce estasi i primi uomini. Ma il popolo non è capace di sentimenti delicati, nè questi possono in lui durare assai a lungo, quando l'oggetto che li risveglia è affatto ordinario nella natura. Ben presto cessò la meraviglia, e diè luogo alla curiosità, alla madre del sapere e degli errori. Quello dovea necessariamente esser preceduto da questi.
Frattanto quella opinione [Astra cadunt], che era commune agli agricoltori dei tempi di Virgilio e di Plinio, il quale pure di essa fa menzione, è tuttavia quella del volgo dei giorni nostri.
Men felice sorte toccò a quella sentenza antichissima, che il sole, la luna, le stelle, tutti in somma i corpi celesti si cibino quotidianamente, o si dissetino.La proposizione è veramente molto ardita, ma essa fa onore al coraggio di chi l'ha immaginata. Bisognava però determinare da qual luogo traggano cotesti corpi gli alimenti che loro sono necessari. Chi mai avrà potuto fornire alla enorme spesa che si richiedeva per provvedere di vettovaglie quegl'immensi globi, i quali correndo tutto il giorno indefessamente, e trafelando per il caldo, doveano sicuramente essere di buon appetito? Non si esitò molto sopra a questo punto, e la terra fu incaricata di somministrare tutto il necessario per il mantenimento degli astri. Il loro numero eccedente, la loro smisurata corporatura, la totale insufficienza delle piccole risorse che avea la terra, le quali sarebbono state in un momento ingoiate dalla minima fra le stelle, non furono valutate in modo alcuno, e la terra dovè sottoporsi al peso che le era stato addossato. Il mare principalmente risentì i funesti effetti di questa fatale necessità, perchè le sue acque erano state destinate ad alimentare il sole, il quale, essendo più vicino, esigeva con violenza, e senza risparmio.
Non è meraviglia che Lucano stoico scrivesse in tal guisa, poichè opinione favorita dagli Stoici fu appunto che gli astri si cibassero dei vapori sollevatisi dal nostro globo.Tengono essi, «che cotesti corpi ignei, e, come questi, gli astri tutti, si nutrano con alimenti che il sole trae, secondo la loro opinione, dall'immenso mare, poichè egli è un fuoco fornito d'intendimento; la luna da quelle acque delle quali può beversi, poichè essa trovasi unita all'aria e vicina alla terra...; gli altri astri dal suolo». Afferma anche Plutarco che «il sole è, secondo gli Stoici, una fiamma pensante alimentata dal mare». Clemente Alessandrino scrive parlando del sole: «Vogliono gli Stoici che quest'astro sia un fuoco fornito d'intelletto, il qual riceva dalle acque marine il suo nutrimento». Di cotesta opinione degli Stoici parla ancora Porfirio in quel luogo: «Pensan gli Stoici che il sole si pasca delle esalazioni del mare; la luna di quelle dei fonti e dei fiumi; gli astri di quelle della terra, e, perciò, che il sole sia un ammasso di materia intelligente, formato dal mare, siccome la luna dalle acque dei fiumi, e le stelle dalle esalazioni della terra».Piacque, come era naturale, l'opinione della fame degli astri anche allo stoicissimo Seneca, che fe' su di essa molte osservazioni.
Aristotele si ride di questa opinione; narra però che alcuni stimarono il moto, che sembra fare il sole tra l'uno e l'altro tropico, aver luogo a causa del bisogno che esso ha di nutrirsi, e della impossibilità di trovar sempre sufficiente alimento nello stesso luogo.Cleante dicea che il sole non ardiva oltrepassare i tropici per timore di mancare di cibo allontanandosi dall'Oceano.Epicuro, come si raccoglie da Diogene Laerzio, non fu lontano dal riputare gli astri bisognosi di cibo.Senofane stimò il sole, a dire di Plutarco, «composto di fiammelle raccolte insieme col mezzo di esalazioni umide; ovvero una nube infuocata». «Egli credè gli astri,» dice Achille Tazio, «formati da nubi infiammate, e giudicò che essi si spegnessero, e si riaccendessero alternativamente, come carboni, in modo che al loro accendersi ci sembrassero sorgere, e tramontare al loro estinguersi». Nemmeno il dotto Plinio andò esente dall'errore commune di riputare gli astri affamati, anzi lo sostenne, e inclinò a credere che la salsedine delle acque del mare provenisse dal sole, che tutto brucia e assorbisce.Più avveduto di Plinio sembra essere stato Luciano, il qual dice scherzando, avervi avuto al suo tempo chi credeva «che gli astri bevessero acqua, e che il sole mandando giù nel mare una secchia come per una fune attingesse vapori, e questi distribuiti con saggio ordine, dasse a bere alle sue stelle». Degli Egiziani scrive Plutarco: «Non credono essi che il sole sia stato prodotto bambino dalla pianta del loto, ma così dipingono il nascer del sole per indicare che esso viene acceso dai vapori umidi». Altrove, «Coloro,» dice, «che abitano la luna, se v'ha alcuno di cotesti, saranno verosimilmente gracili di corpo, e checchessia sarà sufficiente ad alimentarli; poichè dicono che la luna stessa, non altrimenti che il sole, il quale è un animal di fuoco molte volte maggiore della terra, si nutra degli umori di questa, e che gli umori medesimi servano pure a nutrire i rimanenti astri, tuttochè infiniti. Cotanto tenui e di sì poco cibo bisognosi reputano gli animali che abitano le regioni superiori alla terrestre».
V'ebbe anche tra i Padri chi tenne per vera la fame del sole e degli astri. S. Ambrogio e S. Isidorofurono di questo numero.
Essa era però sì commune ancora tra il volgo, che il tempo del decrescere della luna appellavasi dai Romani quello della luna assetata, perchè credevasi che questa non potesse allora bevere a suo agio delle esalazioni dei fiumi e delle fontane.
Era ben naturale che gli astri si riputassero bisognosi di cibo e di bevanda, dacchè essi in realtà altro non sono che terribili animali, i quali si muovono di loro posta, e camminano con le loro gambe. Tutta l'antichità perfettamente unanime e concorde ce ne assicura: e chi saprebbe resistere al peso enorme di tanta autorità? A questa si aggiunge la esperienza, poichè Menippo sentì chiamarsi con voce donnesca dalla luna e ne udì varie lagnanze intorno alla soverchia curiosità dei filosofi che non le lasciavano un'ora di libertà e indagavano insolentemente tutti i fatti suoi.
Frattanto vediamo avvanzarsi il ceto venerabile dei nostri antichi maestri, che sulla loro parola ci fanno certi aver gli astri un'anima pensante e intelligente, la qual regola tutti i loro moti, e fa che questi corrispondano esattamente e perpetuamente alle leggi universali della natura. Talete, Pitagora, Platone brillano alla testa della folla. Altrove, presso lo stesso scrittore [Cicerone], si legge un lungo discorso intorno all'anima degli astri.
Chi mai oserà far fronte a simili raziocinii? Un tal Colote ebbe quest'audacia nefanda. Se ne avvidde Plutarco: raccapricciò dapprima, poi scrisse, schiamazzò, mosse guerra terribile al bestemmiatore. «Chi combatte,» grida egli, «ciò che si è sempre creduto? chi ricusa di sottomettersi all'evidenza?Coloro che tolgono la divinazione, che negano la provvidenza degli Dei, che chiamano inanimati il sole e la luna, ai quali tutti gli uomini offrono sacrifici, fanno voti, tributano adorazioni».
Che i Gentili abbiano riguardati gli astri come forniti d'intendimento, non è meraviglioso, poichè cotesto errore è del tutto conforme al loro carattere. L'opinione degli astri animati è una conseguenza naturale, o piuttosto è il fondamento dell'astrolatria.Ma che gli Ebrei, cultori del vero Dio, che i Cristiani, che i Padri dei primi secoli siano caduti nell'errore medesimo, può sembrare alquanto singolare.
Il famoso rabbino Mosè Maimonide, uomo, a dir degli Ebrei, non ad altri inferiore che al gran Mosè condottiere di Israello, commise il grosso fallo d'impiegare due capitoli del suo More Nevochim, ossia maestro o guida di chi dubita, in sostenere la chimera dell'anima degli astri.Rabbi Salomone dicea che il sole cantava in ogni ora qualche inno in lode di Dio.
Fra i Padri, Clemente Alessandrinoscrisse che «gli astri son corpi spirituali, i quali hanno commune l'amministrazione delle cose cogli Angeli destinati al governo del mondo».Altrove afferma che «ancora il sole ha un tal quale libero arbitrio», e però loda Dio insieme colla luna, giacchè è scritto: Laudate eum sol et luna. «È chiaro adunque,» soggiunge, «che anche la luna, e conseguentemente tutte le stelle hanno il medesimo arbitrio.Nondimeno altrove s'induce a sospettare che gli astri abbian peccato, e che il Redentore sia morto ancora per essi, «poichè,» dice «neppure gli astri sono del tutto puri al cospetto di Dio, giusta quel luogo del libro di Giobbe: Et stellae non sunt mundae in conspectu eius: seppur ciò non è detto per iperbole».
Anche tra i Gentili v'ebbe qualche filosofo, che ricusò di sottomettersi all'errore universale, e di riconoscer le stelle per fornite d'intendimento. Tali furono Anassagora, Democrito, Epicuro.
Eppure v'ha avuto tra i Moderni chi ha rinnuovato l'errore antico, e ha fatto degli astri altrettanti animali. Il Cardinal Gaetano, scrittore di tomi in foglio del secolo decimosesto, di polverosa memoria, discorrendo sopra quelle parole che canta la Chiesa Coeli, coelorumque virtutes, dice che per virtù celesti s'intendono le anime dei cieli e degli astri.E nel secolo decimottavo un matematico e filosofo accreditato, il Bertucci, nell'opera inedita De Telluris et Siderum Vita, non ha riguardati gli astri e la terra come corpi organici e viventi? non ha preteso appoggiare il suo sistema alle teorie astronomiche conosciute? non ci ha voluto quasi far sospettare che l'antica opinione degli astri animati sia stata poi tutt'altro che un errore? Io non so a qual partito si sia appigliato Ticone il cittadino del cielo, Keplero il padre dell'astronomia moderna, il rigeneratore della scienza celeste, il legislatore degli astri. Terribile esempio! Esso ci farebbe quasi credere che gli errori, come le comete, abbiano un periodo; che dopo qualche secolo, quando si è cessato di declamare contro di loro, ricompariscano essi sulla scena sotto un nuovo aspetto; e che gli uomini sempre curiosi, sempre inquieti, sempre avidi di scoperte, dopo avere immaginate, adottate e rigettate successivamente opinioni e sistemi, tornino ad abbracciare ciò che aveano rifiutato, e a calcare, senza avvedersene, le pedate impresse dai loro maggiori. Questa riflessione ci condurrebbe a pensare che lo spirito umano non percorra una linea retta di cognizioni, allungata in infinito, ma un circolo limitato, e torni necessariamente di tempo in tempo sullo stesso luogo.Per evitare questo inconveniente dimentichiamo queste tristi immagini. In ogni caso la enumerazione degli antichi errori sarà sempre utile. Essa ci porrà in istato di paragonare le opinioni moderne con cotesti errori, e di conoscere se ciò che ora si tiene per costante sia stato mai sotto altro aspetto condannato dagli uomini; essa metterà i fabbricatori di sistemi, fuori della possibilità di rinnuovare impunemente gli errori antichi; e giacchè la dimenticanza, in cui questi cadono bene spesso, favorisce il loro risorgimento, essa impedirà che i falli dei nostri antenati vadano mai sepolti in questa fatale obblivione.
Capo 11 Dell'astrologia, delle eclissi, delle comete
Ben tosto anche il cielo, che da principio non avea forse eccitata che la sua meraviglia, divenne per lui [per l’uomo primitivo] un oggetto d'inquietudine. Si pensò che i diversi movimenti di quei corpi lucidi, che brillano sopra la volta azzurra del firmamento, potessero aver qualche correlazione coll'avvenire.L'uomo avea conosciuto che la scienza del futuro una volta acquistata l'avrebbe messo in grado di evitar mille pericoli, e di ottener grandi vantaggi. La curiosità, la cupidigia, il timore lo spinsero a far delle ricerche per trovar questa scienza chimerica, e gl'impedirono di ravvisare l'assoluta insufficienza dei mezzi che egli impiegava per conseguire questo intento.Si vide che il sole col cangiar di posizione cagionava la diversità delle stagioni, lo sviluppo o l'inceppamento dei prodotti della terra, la periodica variazione della temperatura dell'aria. Convenne osservare quest'astro per conoscere fra quanto tempo la messe sarebbe stata in ordine per la ricolta, le fronde della foresta avrebbono ingiallito, il lupo sarebbe sceso urlando dalla montagna coperta di neve. Si notò che i diversi moti del sole corrispondevano esattamente alle diverse vicende che si succedeano sulla terra. Dopo ciò non si tardò molto a concludere, che tra il cielo e la terra v'avea una relazione manifesta, e che la parte inferiore del mondo dipendea manifestamente dalla superiore. Si estese la influenza, che il sole esercita sopra il nostro globo, alla luna, ai pianeti, alle stelle tutte; gli astri furon creduti gli arbitri delle cose terrene; la scienza dei loro movimenti fu riputata quella del futuro. Ecco l'origine naturale dell'astrologia.Per conoscere la vanità di quest'arte convenia aver fatto un gran numero di osservazioni, che il tempo non avea permesso di fare. Quando si potè averle fatte, quando si fu in grado di aver conosciuto che gli avvenimenti anche più considerabili non corrispondevano in verun modo alle leggi dell'astrologia e ai moti dei corpi celesti, non era più tempo di spogliare gli astrologi del loro credito e i popoli dei loro pregiudizi.Questi e quello si mantennero a dispetto della ragione e della esperienza, e la pretesa scienza dell'avvenire acquistò sempre nuovi amatori, e si propagò sotto varie forme. Si credè che il pianeta Marte, trovandosi in mezzo al cielo, ponesse qualcuno in necessità di uccidere altri col ferro: che la congiunzione del pianeta stesso con Venere cagionasse adulterii: che Mercurio, congiungendosi con Venere nella propria casa, facesse nascere pittori, e che effettuando questa congiunzione nella casa di Venere, facesse nascere istrioni. Venere in Capricorno, o in Acquario, fu riputata segno infausto per le femmine che nascevano mentre quel pianeta si trovava in questa posizione. Marte in Ariete, congiunto a Venere, fu creduto render forti insieme e delicati gli uomini che veniano al mondo nel tempo di questa congiunzione. Guai a chi nasceva sotto il segno malaugurato dello Scorpione. La sua vita non poteva esser felice.
Era ben naturale che gli antichi tremassero all'improvviso oscurarsi del sole e della luna, e al coprirsi la natura di tenebre tutto ad un tratto. Questo fenomeno è terribile per sè medesimo.Quando il sole è oscurato da una nuvola, si vede il corpo che ce ne toglie la luce. Ma quando esso si ecclissa, niun corpo si vede che se gli sovrapponga: il solo suo disco rimane offuscato, e sembra annerire a poco a poco a guisa di un carbone che va a spegnersi. Questa idea si presenta naturalmente a un intelletto non istruito, all'accadere di una ecclissi. Gli antichi temerono infatti che il sole e la luna si spegnessero al loro ecclissarsi, o corressero almeno pericolo di estinguersi, e questo timore non poteva esser tolto che dalla scienza.Ma questa, come era necessario, fu preceduta dalla ecclissi, e la prevenzione, che seguì il fenomeno, impedì in gran parte l'effetto della scienza, che non potè sopraggiungere così tosto. Si cessò di temere per il sole o per la luna, ma si continuò a tremare per la terra. La violenta impressione, che le ecclissi avean fatta sopra gli animi, non svanì che dalle menti dei più saggi. Il popolo, e con esso gran parte dei dotti, riguardò la ecclissi come un presagio infausto.
Talete avea predetta questa ecclissi, e tutta la Grecia rimase attonita, vedendo avverarsi questa predizione.
Sulpicio Gallofu abbastanza perito nell'astronomia. Conosceva la causa delle ecclissi, e sapeva predirle. La sua scienza, dice Valerio Massimo, giovò alla Repubblica. Egli era militare e tribuno. Nella guerra contro Perseo, nella notte prima della battaglia che decise della sorte della Macedonia, la luna si ecclissò, e i Romani furono colpiti da spavento. Sulpicio fattosi innanzi, e spiegata la cagione del fenomeno, rassicurò l'esercito, che Paolo Emilio menò lieto e coraggioso alla battaglia e alla vittoria. Egli però, dice il citato istorico, non avrebbe vinti i nemici di Roma, se Sulpicio non avesse vinto il timor dei Romani.
Non meno durevole del timore ispirato dalle ecclissi, e più commune forse fra i dotti, è stato quello cagionato dalle comete.
Credeasi volgarmente che le comete presagissero la morte del sovrano che regnava nel tempo della loro apparizione, e il rovesciamento dei regni, come vedesi presso Tacito.
Nel secolo nono uno scrittore che ci ha lasciata la vita di Luigi I il Pio, figlio di Carlo Magno, sotto il titolo di Annali Astronomici, ebbe spirito bastevole per ridersi del timore che ispiravano le comete. Ciò è molto per un contemporaneo di Luigi il Pio, che nell'837 cadde infermo per il terrore concepito all'apparire di una cometa, e nell'840 morì di spavento dopo aver veduta una ecclissi del sole. La cometa nel 1456 apparsa in un tempo, in cui i Turchi, dopo avere schiacciato l'Impero greco, minacciavano di far provare lo stesso trattamento all'Europa, costernò gli spiriti in guisa straordinaria, e gittò gli animi in un estremo abbattimento; eppure essa era quella cometa, che ricomparendo poscia successivamente e con un determinato periodo negli anni 1531, 1607, 1682, 1759, dovea far trionfare il sistema di Newton, che considerò cotesti corpi come altrettanti astri soggetti alla legge astronomica universale della regolare rivoluzione; dovea illuminare il mondo intorno alla natura delle comete e alla vera causa del loro apparire; e dovea rassicurare tutti i saggi, e fare svanire per sempre dalla loro mente i chimerici timori, che la vista delle comete avea per tanto tempo ispirati.
Ma la memoria degli antichi non è ancora spenta, come egli [Seneca] credea dovere avvenire. Dopo dieciotto secoli noi ci ricordiamo dei suoi detti, e rendiamo giustizia alla sua previdenza, e alla profondità delle riflessioni che egli avea fatte intorno alla natura dell'uomo. Anche la memoria dei pregiudizi del suo tempo dura peranche; anche gli effetti di questi si risentono tuttora dal popolo. Quante vestigia delle superstizioni che gli antichi aveano intorno agli astri rimangono ancora in un secolo che si chiama illuminato, e che lo è infatti quanto alla classe istruita! Quanti folli, che calcolano la quantità dei prodotti della terra, la qualità delle stagioni e l'esito persino dei grandi avvenimenti politici, sopra le predizioni di un almanacco! Quanti vili, che si danno il nome di astrologi, che hanno per patrimonio l'ignoranza commune, e che in un tempo di luce contribuiscono grandemente a mantenere le tenebre nelle menti volgari, spargendo di ridicoli presagi i loro miserabili almanacchi, avendo cura di indicare diligentemente tutte le lunazioni, profittando, per fare un sordido guadagno, dei pregiudizi che ogni uomo illuminato dovrebbe cercar di distruggere, e non arrossendo di pubblicare colle stampe cose affatto chimeriche e pazze, colla sola mira di gabbare il volgo e di trarne danaio. Quante osservazioni sopra il crescere e il calar della luna si fanno assiduamente, e si faranno forse sempre dagli agricoltori, osservazioni che M. de la Quintinié e M. Normand, peritissimi agronomi, dopo mille esperienze fatte colla possibile esattezza, e M. Rohault similmente dopo venticinque anni di costante ispezione, hanno trovato essere affatto vane ed inutili! Non sembra egli che i pregiudizi siano immortali? o che gli uomini desiderino che essi lo siano?