SCIENZA E RICERCA

Sulle orme del fantasma delle montagne

Pelliccia maculata, coda folta e lunga, occhi di ghiaccio. Il leopardo delle nevi (Panthera uncia) è uno dei felini più schivi e affascinanti del pianeta, tanto che per la sua elusività è stato soprannominato “il fantasma delle montagne”. Studiarlo nel suo habitat naturale – negli altopiani dell’Asia, tra la Mongolia e il Nepal, fino all’estremo ovest dell'Afghanistan – non è affatto semplice ed è anche per questo che manca una stima di popolazione affidabile a livello globale. Senza contare che una delle più grandi minacce per questo felino è la produzione di cashmere. Ne abbiamo parlato con Claudio Augugliaro, siciliano doc e dottorando all’università di Losanna in Svizzera, che oltre dieci anni fa si è trasferito in Mongolia per seguire le orme di questo magnifico felino.

E io per i felidi ci vado matto

Claudio Augugliaro segue il destino del leopardo delle nevi sui monti Altai, nell’estremo ovest del paese, tra i 2.000 e i 4.500 metri d’altezza: uno dei posti più impervi e mozzafiato dell’Asia. Una catena montuosa fredda e arida, con praterie alpine “spruzzate” qua e là di larici siberiani, nelle cui valli scorrono un’infinità di fiumi che confluiscono nella Great Lake Depression, con immensi laghi come l’Uvs, più grande della Valle d’Aosta. Un paesaggio “sublime”, come avrebbero detto i poeti romantici inglesi.

«Quando sono arrivato qui, la Mongolia mi ha incantato: ci sono 16 ecoregioni in tutto il paese. Alcune specie mongole sono endemiche, come l’orso del Gobi o con areali molto ristretti come i cammelli selvatici (Camelus ferus), non rinselvatichiti, attenzione, che dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) sono considerati in pericolo critico di estinzione. E poi oltre al leopardo delle nevi, qui sono presenti altre 4 specie di felini: lo splendido gatto di Pallas (Otocolobus manul), la lince centroasiatica (Lynx lynx isabellinus), il gatto selvatico asiatico (Felis lybica ornata) e probabilmente anche il gatto leopardo (Prionailurus bengalensis). E io per i felidi ci vado matto» racconta entusiasta a Il Bo Live Claudio Augugliaro che oggi fa il lavoro che ha sempre sognato.

«Quando (molti) anni fa mi iscrissi all’Università di Palermo» continua Augugliaro «l’ho fatto con lo spirito di un ragazzo letteralmente rapito dai documentari di Piero Angela o di David Attenborough dedicati ai grossi felini. Tutto è cominciato così. Poi mi sono specializzato in conservazione delle specie e dei sistemi naturali a rischio e finalmente sono arrivato fare quello che desideravo: studiare il leopardo delle nevi nel suo ambiente naturale».

L’areale di questo felino si estende su 12 paesi, ma la maggior parte degli individui vive tra le montagne della Cina. Mentre altre popolazioni più piccole – comunque importanti per la sua sopravvivenza – si trovano in Mongolia, India e Nepal, neanche a dirlo, sempre in luoghi quasi proibitivi: dai 2.500 ai 5.000 metri d’altezza. E allora come si studia un felino tanto elusivo in luoghi tanto impervi? «Un po’ come si fa per altri mammiferi» spiega Claudio Augugliaro. «Si cammina – moltissimo – seguendo transetti prestabiliti e cercando i segni di presenza: escrementi o carcasse di prede abbandonate. Infatti mi è capitato di dover percorre 25 chilometri in un solo giorno, con mille metri di dislivello a una quota di 2300-3300 metri d’altezza tra morene glaciali. E poi si dissemina sul territorio un buon numero di fototrappole, rispettando una distanza minima tra un dispositivo e l’altro, in modo da evitare di contare lo stesso individuo due o più volte: cosa che falserebbe tutte le analisi statistiche. Il territorio occupato da ogni singolo leopardo, poi, può essere enorme: dai 130 ai 220 chilometri quadrati, l’home-range medio rispettivamente di femmine e maschi è questo e varia a seconda della densità di prede disponibili. Si tratta infatti di una specie solitaria, che vive da sola praticamente tutto l’anno, tranne che nel periodo degli accoppiamenti. E quindi serve non solo rintracciarli, ma anche identificarli con certezza. E per questo utilizziamo un “trucchetto”: cerchiamo sempre di piazzare due fototrappole, una di fronte all’altra, in modo da avere una fotografia di entrambi i profili dei leopardi immortalati. Perché? Perché dalle differenze nella loro pelliccia maculata possiamo distinguere i singoli individui, e come per noi, neanche loro hanno entrambi i profili identici».

Al di là però delle tecniche di monitoraggio, la vita di un ricercatore sulle tracce del leopardo delle nevi in Mongolia è tutt’altro che semplice, e un po’ come i leopardi sono costretti a camminare per chilometri nel nulla, tra neve e ghiacci. «Quando sono fortunato studio il leopardo delle nevi sul Gobi, magari in primavera» prosegue ridacchiando Augugliaro. «Un ambiente decisamente più “semplice”: le vette raggiungono solo i 2.500 metri s.l.m., le temperature sono miti e in primavera non c’è neve. Insomma si possono fare piacevoli trekking piazzando le fototrappole e registrando i segni di presenza. Sui monti Altai, invece, la situazione è ben diversa. Qui le vette raggiungono spesso i 4.000-4.500 metri d’altezza e la neve è presente tutto l’anno. A marzo i fiumi sono ancora congelati e le temperature rimangono a -20 °C: ma la primavera e l’estate sono ovviamente gli unici periodi utili. Studiare i leopardi in inverno, tra dicembre e febbraio, infatti è impossibile: le temperature sono proibitive, si scende a -40°C e ci sono venti fortissimi, e stare in campo 10-12 ore in queste condizioni non è fattibile». 

Il motivo di tutti questi sforzi è provare ad avere una stima affidabile per questi felini, cosa che per adesso non esiste. «In Mongolia probabilmente ci sono un migliaio di esemplari: la nuova stima è molto più rigorosa rispetto al passato, ma la forbice è ancora molto ampia e serve stringerla» chiarisce Claudio Augugliaro a Il Bo Live. «Ma le cose si fanno difficili se andiamo a valutare la popolazione mondiale: si stima che in tutto l’areale ci siano tra i 2.700 e i 3.380 individui maturi. Eppure questa stima ha un grosso problema: è a dir poco approssimativa perché ci si è basati su un censimento portato avanti solo sul 2% del territorio, e quel risultato è stato poi estrapolato e moltiplicato per tutto l’areale» spiega preoccupato Augugliaro. «Si tratta quindi di una sovrastima, ma proprio tale sovrastima nel 2018 ha spinto l’IUCN a spostare il leopardo delle nevi dall’elenco delle specie “in pericolo di estinzione” (Endagered) a quello delle specie “vulnerabili” (Vulnerable)». In pratica per l’IUCN i leopardi delle nevi sarebbero meno in pericolo di un decennio fa. Ma per Claudio Augugliaro e gli esperti che lavorano per la Wildlife Initiative e per la Snow Leopard Conservancy non è assolutamente così. 

A minacciare questi felini sono i cambiamenti climatici, neanche a dirlo, e le capre. Sì, una possibile preda, avete capito bene. La crescita esponenziale dell’allevamento di bestiame nella regione, in particolare di capre da cashmere, infatti, sta creando ben due ordini di problemi. «Innanzitutto le capre raggiungono qualsiasi pendenza e altezza, e quindi competono per il cibo con lo stambecco siberiano (Capra sibirica): la preda preferita del leopardo delle nevi, che infatti è in declino» chiarisce Claudio Augugliaro. «Inoltre, il leopardo delle nevi – proprio come il lupo – non disdegna il bestiame domestico, soprattutto se poco custodito e a chilometri di distanza dalle abitazioni dei pastori. Avvicinandosi al bestiame, però, i leopardi delle nevi si imbattono in morse e cappi, a volte fucili, che di solito sono destinati ai lupi, ma che finiscono con il colpire qualsiasi cosa si muova. Oggi la situazione è migliorata rispetto ad un ventennio fa in termini di sensibilizzazione verso i leopardi delle nevi, ma il conflitto non è risolto. Ecco perché oltre a stimare la distribuzione e l’ecologia delle popolazioni di leopardo delle nevi in varie aree della Mongolia, insieme a un gruppo dell’Università di Firenze e del MUSe di Trento, negli ultimi anni stiamo lavorando anche a progetti concreti di conservazione e mitigazione dei conflitti, collaborando con la Snow Leopard Conservancy, fondata dal mitico Rodney Jackson: lo “Jane Goodall dei leopardi delle nevi”» racconta entusiasta Augugliaro.

Con l’aiuto di Luciano Atzeni, un sardo dottorando alla Beijing Forestry University, (insieme a Claudio Augugliaro sono due isolani che dalle spiagge sono passati all’alta quota”) sono stati individuati i cosiddetti “corridoi ecologici”, cioè lingue di terra che consentirebbero ai leopardi delle nevi di spostarsi da una zona all’altra e anche da una popolazione all’altra, senza essere disturbati, sempre che non vi siano insediamenti umani. Il prossimo passo sarà proteggere proprio questi corridoi, fondamentali per evitare l’isolamento delle popolazioni, mantenendo così la variabilità genetica, e scongiurare reincroci ed estinzioni locali. Come fare?

Proprio con l’aiuto degli abitanti del posto. «Il piano è quello di distribuire sul territorio delle Foxlights, cioè delle luci autoricaricabili con un piccolo pannello solare incorporato, che una volta buio si accendono ad intermittenza, simulando la luce della torcia dei pastori che la sera ispezionano il recinto col bestiame. In questo modo i leopardi delle nevi non si avvicineranno ad aree pericolose per loro. Mentre ai pastori daremo un compenso, per loro molto significativo, per aiutarci a sostituire le schede di memoria e le batterie delle nostre fototrappole e aiutarci a tenere traccia di eventuali attacchi al bestiame» conclude Claudio Augugliaro, che in Mongolia oltre a studiare il leopardo, ha messo radici. 

La speranza è che la massiccia campagna di sensibilizzazione funzioni e che qualche imprenditore che importa cashmere dall’Asia, particolarmente sensibile all’aspetto della sostenibilità, possa dare una mano al progetto, sostenendolo e contribuendo così a mitigare il conflitto tra leopardi delle nevi e le capre da cashmere. Per costruire un futuro in cui il cashmere sia davvero sostenibile.

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