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In Libia si continua a combattere: "Potremmo avere conseguenze simili alla guerra in Siria"

Altro che tregua: in Libia si continua a combattere, nonostante gli sforzi diplomatici e gli appelli a trovare una mediazione, nonostante l’esito positivo (a parole) emerso domenica scorsa alla fine della Conferenza di Berlino, convocata da Angela Merkel per cercare una via d’uscita alla crisi libica. Un cessate il fuoco firmato da tutti i partecipanti al vertice, ma non dai due principali contendenti sul campo. Il primo ministro Fayez al-Sarraj da un lato, a capo del Governo di accordo nazionale (Gna), l’unico formalmente riconosciuto dall’Onu e appoggiato dalla Turchia. E dall’altro il generale Khalifa Haftar, che grazie al sostegno poderoso di Russia, Francia, Egitto, Emirati Arabi e Arabia Saudita ha già il controllo di oltre due terzi del paese e punta a conquistare anche Tripoli.

Ma è stata, appunto, una tregua di carta: mercoledì 22 gennaio le milizie dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (LNA) guidate da Haftar hanno sferrato un nuovo attacco contro l’aeroporto internazionale di Mitiga, a est di Tripoli: sei razzi Grad lanciati non tanto per danneggiare quanto per spaventare, per minacciare l’incolumità del traffico aereo civile. Ahmed al-Mismari, portavoce dell’LNA, ha contemporaneamente annunciato una no-fly zone sullo spazio aereo di Tripoli, giustificando così la minaccia: «I nostri aerei hanno individuato il trasferimento di un gruppo di terroristi dello Stato islamico dalla Siria alla Libia occidentale sotto la supervisione dell’intelligence turca». Lo scalo è rimasto chiuso per circa 24 ore e soltanto ieri è stato riaperto. Altri combattimenti sono stati segnalati nelle zone si registrano scontri a Salah al-Din, Ain Zara e a Wadi Al Rabia.

Altro che tregua: in Libia si continua a combattere

La tensione nel paese resta dunque altissima. Il portale “Libya Observer”, ritenuto vicino al governo di Fayez al-Sarraj, ha riferito che la contraerea delle forze del governo libico ha abbattuto un drone di Haftar mentre stava sorvolando proprio lo scalo internazionale di Mitiga. Anche il Libyan National Army ha fatto sapere a sua volta di aver abbattuto un drone turco decollato dallo stesso aeroporto. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, è stato così costretto di nuovo a intervenire e a richiamare le parti al rispetto degli accordi scaturiti dalla Conferenza di Berlino: «Devono tutti accettare le conclusioni del Vertice di Berlino e rendersi conto è questa la strada per la pace, per una Libia unita in grado di essere governata dal popolo libico in pace e sicurezza, cooperando con i paesi vicini in maniera positiva».

Angela Merkel: rischiamo grandi afflussi di rifugiati

Appare evidente in queste ore come ci siano diversi piani da cui osservare la crisi libica. Il primo è il campo, il terreno di battaglia, con le fazioni (spesso poco omogenee e dunque meno controllabili, soprattutto tra le fila del generale Haftar) e i mercenari stranieri (russi dalla parte di Haftar, turchi dalla parte di al-Sarraj). Poi c’è quello delle diplomazie mondiali, che continuano a organizzare incontri per valutare, vagliare, limare, avvicinare le parti alla ricerca di un punto di mediazione che oggi sembra tutt’altro che vicino.

A partire da Davos, dove è in corso il summit del World Economic Forum (53 capi di stato con i più alti rappresentanti della finanza internazionale). «L’attuale conflitto in Libia potrebbe avere conseguenze simili alla guerra in Siria», ha detto Angela Merkel intervenendo proprio a Davos. «L’Unione Europea deve agire per aiutare i paesi a risolvere i conflitti al fine di evitare problemi futuri a causa di grandi afflussi di rifugiati» (e in Siria la situazione degli sfollati è gravissima). Intanto ad Algeri si sono riuniti gli stati confinanti con la Libia (Algeria, Tunisia, Egitto, Sudan, Ciad e Niger, più il Mali). «In qualità di paesi limitrofi ci opponiamo a un intervento straniero», ha dichiarato al termine del vertice il ministro degli esteri algerino Sabri Boukadoum, come riporta il portale Nena (Near east news agency).

Più netto è stato il commento del ministro degli esteri egiziano (paese che sostiene il generale Haftar), che ha definito i memorandum di sicurezza e marittimi firmati da Ankara e Tripoli lo scorso novembre «una violazione del diritto internazionale e un’interferenza flagrante della Turchia nella legge di un paese arabo». Il prossimo appuntamento è fissato per lunedì prossimo, 27 gennaio, a Ginevra, dove si terrà il primo incontro della commissione 5+5 (decisa a Berlino e composta da 5 componenti scelti da al-Sarraj e altrettanti da Haftar, con il compito di garantire e vigilare sul “cessate il fuoco”). Ma la strada appare già in salita: il governo di al-Sarraj minaccia di disertare l’incontro se Haftar continuerà a violare così platealmente la tregua attaccando obiettivi civili (come l’aeroporto di Mitiga).

L’attuale conflitto in Libia potrebbe avere conseguenze simili alla guerra in Siria Angela Merkel

L’arma del petrolio, la Francia e le mire di Erdogan

Ma c’è anche l’aspetto, tutt’altro che marginale, della cosiddetta “guerra del petrolio”. Proprio alla vigilia della Conferenza di Berlino il generale Khalifa Haftar, che ormai controlla quei territori, ha fatto chiudere i principali pozzi petroliferi del paese. Una mossa spregiudicata, una prova di forza. La National Oil Corporation (NOC) ha lanciato l’allarme: «Ogni giorno la situazione peggiora», ha dichiarato al Financial Times Mustafa Sanallah, presidente della NOC. «Questi blocchi sono azioni illegali e criminali. Il blocco dell’export del greggio ha già determinato uno stop della produzione e diversi blackout elettrici in alcune zone del paese. Inoltre, se proseguirà, entro pochi giorni l’output collasserà ai livelli più bassi dal 2011». Con il blocco dei campi di Sharara ed El Feel complessivamente la produzione del petrolio libico si è abbassata da 1,3 milioni di barili al giorno a circa 400mila, e che presto questo numero scenderà ancora a 70.000 (l’ambizione della Libia era aumentare la sua produzione di petrolio a 1,5 milioni di barili nel 2020 e 2,5 milioni di barili entro il 2030). Una crisi che è già diventata economica (un mancato guadagno che l’intera Libia non può permettersi) e che peraltro rischia di esasperare la crisi dei migranti in Europa, incoraggiando un aumento di partenze dalla Libia attraverso il Mediterraneo. «Le conseguenze saranno devastanti», ha commentato l’Onu. E l’inviato dell’Onu in Libia, Ghassan Salamé, ha aggiunto: «I libici stanno commettendo un grave errore utilizzando il petrolio nel conflitto. Spero che possano comprendere che il petrolio li sta nutrendo tutti».

Il blocco dei pozzi è stato formalmente condannato da Germania, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti, ma il fronte atlantico è spaccato: perché la Francia ha deciso di mettersi di traverso e di non firmare la risoluzione: perché oltre a chiedere che venissero coinvolti nell’iniziativa anche Grecia e Cipro, ha fatto intendere, avallando il blocco dei pozzi, che c’è a tutt’oggi il rischio che il petrolio “finisca in mano ai terroristi”, utilizzando di fatto lo stesso slogan usato dal generale Khalifa Haftar. Questione d’interessi da tutelare. E tutti gli invitati alla Conferenza di Berlino ne hanno in Libia, anche se con diverso “peso” nelle decisioni finali da prendere. La Libia ha il petrolio e il gas naturale (che la Turchia pretende, a scapito di Cipro: ed è questo il vero motivo per cui Erdogan si è schierato al fianco di al-Sarraj, per avere un governo “amico” che continui consentire queste attività), ma non ha le infrastrutture necessarie per l’estrazione autonoma delle risorse: qui intervengono i paesi stranieri. Perciò le diplomazie si affannano a trovare una soluzione: una Libia in guerra non garantisce, sul lungo termine, quegli affari.

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