Il governo inglese sta prendendo in considerazione la proposta di dare 500 sterline a tutti coloro che risultino contagiati dal Covid 19. Si tratterebbe di una misura molto costosa – 12 volte quanto costa l’attuale schema di copertura per chi non può andare a lavorare a causa del contagio – ma che viene valutata per incentivare le persone a stare a casa, mentre adesso c’è una altissima percentuale di lavoratori e lavoratrici che vanno a lavorare benché infetti, oppure evitano i test per paura dell’obbligo di quarantena. Il fatto stesso che questa proposta venga discussa, la dice lunga sulle sfide che la pandemia pone in un mercato del lavoro deregolato e precario, nel quale le fasce più deboli vengono escluse sia dalla copertura reddituale in caso di malattia, che dai “ristori” successivi. E mostra le ombre che si allungano sulla “ripresa” che si preannuncia, o si spera, per la seconda parte del 2021, quando dovrebbero vedersi gli effetti sia della campagna di vaccinazione e del conseguente allentamento dei lockdown, che dell’avvio degli imponenti programmi di spesa pubblica e di riforma avviati sia nello stesso Regno Unito, che negli Usa con l’amministrazione Biden, che nell’Unione europea con il Next generation EU. Basterà questa pioggia di denaro a lenire le ferite lasciate dallo choc del Covid 19 sui sistemi economici e di protezione sociale, e sulla già arrancante globalizzazione? Cosa si prevede, di qui ai prossimi anni?
In tema di previsioni, va detto che i numeri sono più che mai aleatori. Non solo perché i modelli econometrici arrancano, dietro uno choc di portata e struttura senza precedenti – la prima recessione mondiale indotta da misure amministrative di salute pubblica, con un doppio impatto su domanda e offerta -, ma anche perché oggi più che mai tutto dipende dal successo delle campagne di vaccinazione. “Incertezza” è la parola-chiave dell’aggiornamento del World Economic Outlook pubblicato martedì dal Fondo monetario, che rivede le stime date solo qualche settimana fa: in peggioramento, per il bilancio del 2020 a livello mondiale (meno 3,5%, ultima stima); e con un doppio scenario per il futuro, a seconda dell’efficacia e della copertura delle campagne di vaccinazione. Nello scenario peggiore, il mondo nel 2025 sarebbe ancora sotto il livello di produzione del 2019. Per l’Italia, le previsioni sul 2021 sono tagliate di ben 2.2 punti percentuali, con una crescita prevista al 3% (dopo un crollo del 9,2 nel 2020). Tutto ciò, tenendo in considerazione l’impatto degli imponenti programmi di spesa pubblica.
Un’analisi pubblicata sul Financial Times, a firma di Chris Giles, partiva dalle precedenti previsioni del Fondo monetario internazionale per dire che lo “spending party”, la festa della spesa, non sarà un pranzo di gala. È vero, la Cina, da dove è partito il virus e da dove anche la ripresa è già iniziata, ha chiuso il 2020 con una variazione positiva del Pil. Il quarto trimestre dell’anno della pandemia ha segnato addirittura un aumento del 6,5%, guidato da massicci investimenti pubblici, che ha portato la media annua in positivo, a più 2,3%. Visto da qui, pare un miracolo. Eppure, un tasso di crescita del 2,3% per la Cina è il più basso da quarant’anni. Cosa significa, per un motore abituato a viaggiare a 200 all’ora, procedere a 50 all’ora? Ci sarà un problema di riequilibrio strutturale del capitalismo cinese; al quale si aggiunge il nuovo scenario globale: è vero che con l’amministrazione Biden si attenuano i venti protezionisti e le guerre commerciali dell’era Trump, ma la fragilità mostrata dalle catene del valore mondiali durante il grande lockdown ha portato e porterà sempre più i maggiori Paesi a ripensare a quali produzioni essenziali garantirsi in casa, così mettendo a dura prova un sistema, come quello cinese, basato sul traino delle esportazioni.
Dalla nostra parte del mondo, le sfide sono anche maggiori. Le economie avanzate, scrive il Fmi, sono riuscite a mitigare le perdite con massicci programmi di intervento pubblico. Ma questo incide e inciderà in modo diverso sulle differenti zone. In particolare, Stati Uniti e Giappone potrebbero ritornare ai livello del 2019 nella seconda parte del 2021, mentre l’area dell’euro e il Regno Unito a fine 2022 sarebbero ancora al di sotto dei livelli pre-Covid.
La portata dello choc e la difficoltà della ricostruzione spiegano gli eventi straordinari che si sono prodotti anche nella costruzione delle politiche nei centri internazionale e nazionali del potere. Anticipato già dalle riflessioni autocritiche sulla gestione della crisi finanziaria del 2007, un “nuovo consenso” è emerso, che ha annientato quello che ci ha governato per almeno trent’anni ed era chiamato il “Washington consensus”. Si sono ribaltate tutte le parole d’ordine, e basta scorrere l’ultimo documento del Fmi per averne un assaggio: le politiche di supporto pubblico dei governi hanno evitato il peggio – e lo si è sperimentato nell’emergenza nell’azione degli “stabilizzatori automatici” in Europa, sostanzialmente la cassa integrazione, che hanno impedito l’impennata del tasso di disoccupazione che invece si è vista negli Usa; a questi schemi di protezione ordinari si sono aggiunte misure straordinarie per la liquidità, quali quelle intraprese dalle banche centrali americana ed europea; nonché pacchetti fiscali di stimolo, che, dice il Fmi, devono crescere e assolutamente non vanno interrotti, per non ripetere l’errore fatto nel 2010, quando l’austerità pubblica ha innescato un secondo capitombolo più grave di quello provocato dalla crisi della finanza privata. Insomma: spesa, spesa, spesa. I grandi numeri sono noti: 1.900 miliardi di dollari negli Stati uniti, 750 miliardi di euro nell’Unione europea.
Con l’arrivo di questi fondi, e la ripresa della spesa privata che ci sarà quando recupereremo l’economia dei servizi e del tempo libero chiusa per Covid, i motori si riaccenderanno. Ma non automaticamente questo porterà al miracolo economico. I “ruggenti anni 20” possono essere alle porte, profetizzava qualche settimana fa Martin Sandbu sempre sul Financial Times, ma a condizione di ammettere alla festa tutti, poiché oggi più che mai l’aumento delle diseguaglianze non è solo un problema sociale ma anche economico. E purtroppo, non è detto che tutti possano partecipare alla festa: dal punto di vista della struttura sociale, i sistemi di welfare europei anche laddove hanno funzionato non sono riusciti a coprire tutti, e rischiano di restare sul terreno masse di vittime del Covid 19, in particolare nei settori dei servizi a occupazione più precaria, tra i giovani e le donne; mentre sotto il profilo della struttura economica, i settori rasi al suolo dalla pandemia potrebbero non rialzarsi, non torneremo tutti subito a viaggiare e spendere come prima – il tasso di risparmio delle famiglie nell’Unione europea è a livelli altissimi, al 17,3% -, molte attività non riusciranno a riaprire i battenti, e già si discute dell’opportunità di mettere soldi pubblici nel salvataggio di “imprese-zombie”, che non possono risollevarsi. Il nuovo consenso sulla necessità di politiche pubbliche è positivo, ma non sufficiente: indirizzare strategicamente queste politiche e garantirne l’efficacia, di fronte a una struttura economica scossa nei suoi equilibri fondamentali, sarebbe difficile per tutti ma lo è ancor di più dopo decenni nei quali la capacità di intervento pubblico, anche dal punto di vista tecnico, è stata depauperata dall’ostilità ideologica al “big government”. Le difficoltà dei Paesi che saranno i principali beneficiari del piano di aiuti europeo, come Italia e Spagna, a mettere nero su bianco i “piani di ripresa e resilienza”, sono una conseguenza di questo enorme problema, al netto delle piccole e marginalissime baruffe politiche locali.