SCIENZA E RICERCA

L'inquinamento atmosferico minaccia anche il cervello

A livello globale, oltre il 90 per cento delle persone respira aria che non soddisfa gli standard dell'OMS. E’ da questo dato che è necessario partire per capire quanto l’inquinamento antropico può influire sulla salute globale. Sappiamo che l'inquinamento atmosferico colpisce i polmoni e il sistema cardiovascolare, ma uno studio pubblicato sulla rivista scientifica PNAS focalizza l’attenzione su un altro problema di salute che potrebbe derivare dall’inquinamento: i danni celebrali.

Quando parliamo di inquinamento atmosferico intendiamo sempre un mix di gas: dal biossido di azoto prodotto dai motori diesel al biossido di zolfo, dalla “famosa” Co2, all’anidride solforosa (SO2), passando per l’ozono (O3), il metano (CH4) ed arrivando fino all’ammoniaca (NH3). 

Il componente che appare però più preoccupante per il cervello è il PM, cioè quelle particelle che sono sostanzialmente prodotti secondari delle combustioni, del traffico veicolare, delle industrie o del riscaldamento.

Il componente che appare però più preoccupante per il cervello è il PM 2.5

Concentrandoci sugli Stati Uniti, dove sono avvenuti gli studi che citiamo, la US Environmental Protection Agency (EPA) definisce due tipi principali di PM (anche se ne esistono di ancora più piccoli): il PM10 e il PM2.5. Il primo ha un diametro inferiore a 10 micrometri mentre il secondo a 2,5 micrometri. Proprio il PM 2.5, che è noto anche come particolato fine, essendo fino a 30 volte più piccolo della larghezza di un capello umano medio, può rimanere nell’aria per lunghi periodi di tempo fino a penetrare nel corpo. 


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"Gli effetti sulla salute dell'inquinamento atmosferico riguardano la dimensione delle particelle", afferma a PNAS la neurotossicologa Deborah Cory-Slechta dell'Università di Rochester a New York. Gli studi infatti suggeriscono che queste minuscole particelle possono anche risalire il naso ed essere trasportate direttamente nel cervello attraverso il nervo olfattivo, quindi bypassando la barriera ematoencefalica, cioè quella barriera che, regolando il passaggio sanguigno di sostanze chimiche da e verso il cervello, protegge il sistema nervoso da avvelenamenti e intossicazioni.

Le particelle PM inoltre, non viaggiano da sole. Sulla loro superficie trasportano diversi contaminanti: dalle diossine al ferro e piombo, fino ad arrivare ad altri composti chimici.

Di fatto le particelle agiscono come un vettore. Sappiamo inoltre che, proprio partendo da questa conclusione, è al vaglio scientifico l’ipotesi che anche per quanto riguarda il coronavirus ci possa essere una correlazione tra PM e pandemia. Gli studi sono ancora in corso e su questo giornale l’epidemiologo Fabrizio Bianchi ha già fatto il punto della situazione.

Ciò che è certo però è che, come riportato nel sito dell’istituto superiore di sanità, l’esposizione all’inquinamento atmosferico indoor e outdoor - e in particolare al materiale particellare PM (PM10, PM2,5), agli ossidi di azoto (NO e NO2), nonché all’ozono (O3) - può determinare un insieme di effetti sanitari avversi già ampiamente descritti nella letteratura scientifica accreditata.

Nel 2016, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato che globalmente sono circa 7 milioni le morti premature all’anno correlate a questo fattore di rischio, con il 91% di questi decessi a carico dei Paesi a basso-medio reddito e relative alle popolazioni delle aree del sud asiatico, sub-sahariane e dell’America latina. 

Ogni anno nel mondo muoiono più di 7 milioni di persone a causa dell'inquinamento atmosferico

Oltre a questo, dobbiamo ora aggiungere anche i danni celebrali riportati da PNAS. Il team di Cory-Slechta, che analizza la correlazione tra inquinamento atmosferico e danni al cervello, ha notato che, oltre all'infiammazione, ci sarebbero state caratteristiche comportamentali e biochimiche classiche dell’autismo, del disturbo da deficit di attenzione e schizofrenia nei topi esposti agli inquinanti nei primi giorni dopo la nascita.

Nel lavoro, iniziato nel gennaio 2010 e pubblicato lo scorso novembre, il gruppo di Cory-Slechta ha ulteriormente collegato le esposizioni a breve termine all'inquinamento atmosferico con la compromissione dell’apprendimento e della memoria nei topi anziani, analizzando il movimento spontaneo, la capacità di muoversi in un labirinto, riconoscimento di oggetti a breve termine, e la capacità di riconoscere gli odori.

“Le particelle di PM in pratica, sarebbero come dei piccoli cavalli di Troia, che trasporterebbero con loro altri metalli e composti chimici - ha dichiarato la ricercatrice -. Le particelle stesse e gli altri agenti tossici possono sia danneggiare direttamente i neuroni, sia causare danni diffusi influenzando l'attivazione delle cellule della microglia”, cioè quelle cellule gliali che si occupano della difesa immunitaria del sistema nervoso centrale. Queste sostanze in pratica possono accumularsi e scatenare l'infiammazione cronica, che conseguentemente può portare a malattie neurodegenerative.

Le particelle di PM sarebbero come dei piccoli cavalli di Troia, che trasporterebbero con loro altri metalli e composti chimici Cory-Slechta

La ricerca del team di Cory-Slechta mostra inoltre che piccole particelle possono passare attraverso la membrana plasmatica degli alveoli ed essere raccolte poi dai capillari, venendo così distribuite nel sangue. Non è necessario quindi che un inquinante entri nel cervello per causare problemi. Anche il sistema immunitario può reagire alle particelle nel polmone o nel flusso sanguigno, innescando un'infiammazione diffusa che colpisce il cervello. Anche una particella ingerita infatti potrebbe avere effetti neurologici indiretti, attraverso l'intestino essendoci forti connessioni tra il microbioma intestinale e il cervello.


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La rivista PNAS riporta anche un ulteriore studio di un team di ricercatori, guidato da Nicolai Kuminoff, economista ambientale presso l'Arizona State University (ASU) di Tempe, che ha cercato una relazione causale tra inquinamento atmosferico e demenza nell'uomo. Il team hacollegato i dati della qualità dell'aria EPA ai dati Medicare per quasi 7 milioni di americani tra il 2004 e il 2013. L’obiettivo era quello ci capire se se l’abbassamento dell’inquinamento atmosferico potesse ridurre i tassi di demenza .

Dopo aver controllato una serie di fattori sanitari e socio-economici, tra cui ipertensione, istruzione e valori abitativi, hanno scoperto che relativamente meno anziani nelle contee con una qualità dell'aria recentemente migliorata hanno sviluppato demenza rispetto alle contee senza cambiamenti dal punto di vista delle emissioni. Complessivamente, le prove avrebbero collegato come il regolamento federale sui tagli alle emissioni, avrebbe portato a quasi 182.000 persone in meno con demenza nel 2013.

“I danni al cervello in tenera età - spiega Kuminoff -, possono causare una spirale discendente di scarsa istruzione e reddito che spinge le persone a rimanere in aree inquinate per tutta la vita”.

La ricerca scientifica in questo campo è ancora in fase iniziale ma, come riporta PNAS, “tutti sembrano concordare sul fatto che esistono ora prove sufficienti per agire”. 

Un argomento in più, oltre a quelli sviscerati quotidianamente dall’IPCC, che dovrebbe far comprendere come una drastica riduzione delle emissioni antropiche debba essere un argomento all’ordine del giorno in tutti i governi. 

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