SCIENZA E RICERCA

L’oceano del futuro: una prospettiva socio-ecologica

“Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile”: questo l’impegno, contenuto nel Goal 14 dell’Agenda 2030, dichiarato dai leader mondiali per la tutela degli ecosistemi marini. Il quattordicesimo Obiettivo del documento si articola, poi, in numerosi target, alcuni dei quali in scadenza nel 2020: entro quest’anno le 193 nazioni firmatarie avrebbero dovuto “gestire in modo sostenibile e proteggere l’ecosistema marino e costiero per evitare impatti particolarmente negativi”; “regolare in modo efficace la pesca e porre termine alla pesca eccessiva, illegale, non dichiarata e non regolamentata e ai metodi di pesca distruttivi”; “preservare almeno il 10% delle aree costiere e marine”; “vietare quelle forme di sussidi alla pesca che contribuiscono a un eccesso di capacità e alla pesca eccessiva, eliminare i sussidi che contribuiscono alla pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata e astenersi dal reintrodurre tali sussidi”. Inutile sottolineare che, su scala globale, si è ancora ben lontani dal raggiungimento di simili obiettivi.

E tuttavia vi sono stati, negli ultimi anni, alcuni segnali incoraggianti: un passo importante nell’accidentato percorso verso una gestione sostenibile degli oceani è stata la fondazione, nel 2018, dell’High Level Panel for a Sustainable Ocean Economy, promosso dagli Stati di Norvegia e Palau e composto, ad oggi, da quattordici nazioni, alle quali appartengono circa il 40% delle zone costiere e il 30% delle zone economiche esclusive mondiali.

Ma cosa rende gli oceani così importanti e degni di tutela agli occhi della comunità scientifica e dei decisori politici? Alberto Barausse, ingegnere ambientale e ricercatore al Dipartimento di Biologia dell’università di Padova, argomenta: «Per comprendere l’importanza dell’oceano, tanto per l’uomo quanto per il pianeta, è sufficiente guardare una carta geografica. Mari e oceani coprono il 70% della superficie terrestre, e costituiscono un ecosistema di vastissime dimensioni che, ancor più di quello terrestre, è privo di confini: il suo utilizzo, dunque, non può che essere condiviso, e per questo è di estrema importanza gestirlo nel migliore dei modi». L’oceano è per l’uomo un’importantissima risorsa economica, nonché “la più importante riserva di proteine al mondo, con più di tre miliardi di persone che dipendono dagli oceani come risorsa primaria di proteine”, come riporta il sito del Centro Regionale di Informazione delle Nazioni Unite. Esso, inoltre, è essenziale non solo per la nostra specie, ma per l’intera biosfera: è infatti una formidabile riserva di biodiversità, e contribuisce a mitigare l’impatto dei cambiamenti climatici assorbendo circa il 30% dell’anidride carbonica prodotta dalle attività umane.

Prosegue Barausse: «Alla luce di tutto ciò, è chiaro come non possa esservi alcuna distinzione fra la protezione dell’oceano e il perseguimento della prosperità economica: l’obiettivo cui dobbiamo mirare è tutelare entrambi questi aspetti, e salvaguardare la salute degli ambienti marini parallelamente alle esigenze di produzione e sviluppo umani. L’oceano è abbastanza grande per soddisfare i bisogni umani senza che si giunga al collasso degli ecosistemi: bisogna però attuare piani di gestione lungimiranti e sostenibili».

La tutela della biodiversità marina è uno degli aspetti più critici della gestione degli oceani, e il tema è affrontato sia dall’Agenda 2030 sia dall’Ocean Panel. Fra le principali minacce alla diversità della vita negli oceani vi è, senz’altro, lo sfruttamento delle risorse ittiche da parte dell’uomo, che, a causa dell’esponenziale aumento della popolazione mondiale, è destinato a crescere nei prossimi decenni. La sfida che siamo chiamati ad affrontare consiste nel far fronte a questa accresciuta richiesta di cibo in modo sostenibile, evitando di portare al collasso alcune specie e riducendo il più possibile il nostro impatto sugli ecosistemi marini.

I dati attuali non sono certo incoraggianti: come spiega la professoressa Carlotta Mazzoldi, biologa marina dell’università di Padova, «dalle valutazioni contenute nell’ultimo rapporto della FAO risulta che la percentuale di stock di pesca sfruttati entro i limiti biologicamente sostenibili (quei limiti che garantiscono il mantenimento delle popolazioni) è calata dal 90% nel 1974 al 66% nel 2017: ciò significa che, oggi, più di un terzo degli stock è sfruttato oltre il livello di sostenibilità. Secondo lo stesso rapporto FAO, il mar Mediterraneo versa nelle condizioni peggiori, con il 62,5% degli stock sfruttati in maniera non sostenibile».

«Quello del sovrasfruttamento – aggiunge Barausse – è un problema paradossale: pescando di meno, in termini quantitativi, si avrebbe in realtà una maggiore disponibilità di risorse a lungo termine, perché si permetterebbe alle popolazioni marine di rigenerarsi e di mantenere il loro numero a un livello ottimale in un’ottica di medio e lungo periodo».

«Nonostante la difficoltà della situazione e l’urgenza di prendere provvedimenti – prosegue Mazzoldi –, vietare la pesca non può rappresentare la soluzione. La pesca è un’attività essenziale: ad esempio, per molte popolazioni di paesi in via di sviluppo il pesce fornisce più del 20% dell’apporto totale di proteine nella dieta. Inoltre, bisogna tener conto dell’importanza sociale di questa pratica, che costituisce l’unica fonte di reddito per milioni di persone nel mondo. Piuttosto che emanare divieti, dunque, bisogna innovare le modalità di pesca, combattendo le pratiche illegali e distruttive e prediligendo, invece, quelle più sostenibili e dal minore impatto ambientale. Al tempo stesso, è importante educare i cittadini a un consumo responsabile, informando su quali siano le specie maggiormente sfruttate, quali alternative siano disponibili e, inoltre, fornendo al consumatore le conoscenze necessarie per scegliere consapevolmente di acquistare prodotti pescati in modo sostenibile, come quelli certificati dai diversi marchi di sostenibilità».

Lo strumento primario nella gestione di una realtà complessa come quella degli ecosistemi marini è senz’altro una gestione concertata su più livelli, nella quale vengano ascoltate le esigenze di tutte le parti e in cui tutti i portatori d’interesse siano coinvolti nel processo decisionale. È quanto dovrebbe accadere sia nella regolamentazione delle attività economiche, sia nella gestione degli interventi di protezione e salvaguardia degli ecosistemi marini: queste due esigenze vanno conciliate, e per riuscirvi è necessario rafforzare la collaborazione fra le istituzioni, dal livello locale al sovranazionale, gli attori economici e la società civile. Un caso di particolare interesse in tal senso riguarda l’istituzione di Aree Marine Protette: queste, se adeguatamente strutturate, possono costituire – afferma la professoressa Mazzoldi – una strategia vincente nel mantenimento, a livello locale, di alti tassi di biodiversità e nella protezione della salute degli ecosistemi all’interno delle zone coinvolte.

«Ad oggi – spiega la biologa – circa il 6% degli oceani è, sulla carta, area marina protetta, ma in meno della metà dei casi la protezione è effettiva. Si tratta di una perdita di opportunità: i risultati di numerosi studi condotti in diverse aree geografiche confermano, infatti, che quando una riserva è efficacemente controllata e protetta da attività dannose e illegali si rilevano effetti molto positivi in tempi brevi. All’interno di aree marine protette ben strutturate è stata registrata una crescita della biodiversità del 21%, un incremento nell’abbondanza delle specie anche del 166%, e un aumento delle dimensioni degli organismi che vivono nelle riserve, con un conseguente accrescimento della biomassa complessiva, maggiore del 400%.

Gli effetti positivi, poi, si propagano anche al di fuori della riserva. Il passaggio di individui giovanili e adulti e l’esportazione netta di uova e larve può determinare un aumento delle popolazioni anche nelle aree limitrofe non protette e portare, di conseguenza, anche benefici per la pesca, soprattutto quella artigianale, di piccola scala.

Le aree marine protette possono svolgere, inoltre, un ruolo fondamentale anche nella protezione di aree e ambienti particolarmente importanti per il ciclo biologico delle specie, come le zone di accoppiamento o di nursery. È stato dimostrato come le aree marine protette siano molto efficaci nel tutelare le aggregazioni riproduttive di specie dotate di valore commerciale e colpite da un forte declino, come nel caso delle cernie della riserva sarda di Tavolara - Punta Coda Cavallo».

Le aree marine protette, pur avendo come principale obiettivo la tutela della diversità naturale locale, non devono necessariamente essere prive di qualsiasi attività umana al loro interno. In molti casi, al contrario, la cooperazione con le popolazioni locali può apportare beneficio sia alle piccole economie sia al mantenimento delle riserve stesse: promuovere attività a basso impatto ambientale, come la pesca tradizionale o l’ecoturismo, può sostenere l’economia locale senza impedire la conservazione.

Chiaramente, le aree marine protette non sono efficaci in tutti i casi in cui sia necessario un intervento di protezione, come illustra ancora Mazzoldi: «Laddove si debbano tutelare, ad esempio, specie altamente migratrici, un’area marina protetta geograficamente limitata non darà buoni risultati. In casi simili, è essenziale che vengano concordate strategie di conservazione a livello internazionale, e che vi sia un’attiva collaborazione tra i diversi Paesi».

Perché la gestione degli oceani sia veramente “sostenibile” entro pochi anni, come auspicato dall’Agenda 2030, è dunque indispensabile che, da una parte, non vengano anteposti gli interessi strettamente economici alle esigenze di difesa dell’ambiente naturale, e che, dall’altra, le decisioni politiche siano illuminate dalle conoscenze scientifiche più aggiornate e più obiettive disponibili. La speranza, dunque, è che venga imitato da molti l’esempio virtuoso dell’Ocean Panel, in cui i rappresentanti politici di 14 nazioni hanno preso un impegno a breve termine (la gestione sostenibile del 100% delle rispettive acque nazionali entro il 2025) seguendo le indicazioni e le analisi condotte da un gruppo di 250 esperti.

«La scienza è fondamentale – commenta Barausse –, poiché fornisce valutazioni il più possibile oggettive, che sono essenziali per prendere decisioni opportune. La scienza, però, è solo uno fra gli elementi del processo decisionale: gli interessi in gioco, quando si tratta della gestione degli oceani, sono molti e diversi, e, quando sono espressi in modo chiaro e trasparente, sono la base di un processo decisionale che voglia dirsi autenticamente democratico.

Ovviamente, a determinare la scelta tra le diverse soluzioni di gestione possibili concorrono anche le informazioni scientifiche, ma il dibattito democratico è altrettanto importante. Spetta alla politica, però, elaborare le visioni per quello che sarà il mare del nostro futuro. Tali visioni dovranno essere lungimiranti e, al tempo stesso, non inamovibili: esse saranno, invece, dinamiche, capaci di adattarsi alle nuove scoperte e alle nuove esigenze che, nei prossimi anni, emergeranno. Definire queste visioni è il compito della politica e di tutte le parti coinvolte in questa discussione, inclusa la scienza».

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