SCIENZA E RICERCA
La lotta al cambiamento climatico e la rivoluzione alimentare
La lotta al cambiamento climatico in corso passa per una rivoluzione: quella alimentare. Se entro il 2050 riuscissimo a eliminare dal nostro menu carne e derivati – o almeno a limitarne fortemente il consumo riducendolo del 70% – non solo potremmo rallentare l’innalzamento delle temperature e tener fede agli Accordi di Parigi, ma riusciremmo a compensare addirittura un decennio di emissioni. Come? Riforestando le aree oggi dedicate all’allevamento. È quanto scrive, in una breve nota su Nature Sustainability, un gruppo di ricercatori americani guidati da Matthew Hayek, dell’Università di New York, che si è premurato di fare due conti.
Oggi l’83% del terreno agricolo mondiale è destinato alla produzione di carne e derivati. E troppo spesso questi spazi dedicati al pascolo e agli allevamenti sono ricavati distruggendo, abbattendo e bruciando foreste. Un esempio su tutti è la foresta amazzonica, che scompare giorno dopo giorno, divorata dal mercato della carne, alimentato per lo più dai paesi occidentali. Italia compresa.
Se nell’estate del 2019 le immagini dell’Amazzonia in fiamme hanno scosso l’opinione pubblica, oggi sappiamo – o almeno avremmo dovuto imparare – che la produzione di carne è una delle prime responsabili della deforestazione a livello mondiale. E genera anche un discreto quantitativo di emissioni di CO2 e altri gas serra: l’allevamento produrrebbe il 14,5% delle emissioni globali.
Perciò, secondo la comunità scientifica, scegliere un’alimentazione su base vegetale, sostituendo l’apporto proteico da fonti animali con il consumo regolare di legumi, ci aiuterebbe a contrastare il cambiamento climatico. In particolare, come scrivono gli autori su Nature Sustainability, i vantaggi di questo cambio di rotta sarebbero duplici.
Il primo e più immediato sarebbe la riduzione del consumo di suolo: modificando drasticamente la nostra dieta avremmo bisogno solo di una frazione di tutti i terreni utilizzati oggi per la produzione di carne, latte e latticini. In seconda battuta, poi, lo spazio che verrebbe liberato potrebbe essere riforestato per assorbire la famigerata CO2. In un sol colpo, dunque, potremmo produrre meno gas serra e aumentare la capacità del pianeta di assorbirli. Infine ci sarebbe un terzo vantaggio, non sottovalutabile in tempi di pandemia: ripristinare gli ecosistemi e ridurre la popolazione mondiale di bestiame diminuirebbe il rischio di nuove zoonosi e spillover. Con meno allevamenti e carne da macellare in circolazione, diminuirebbe anche il rischio di trasmissione di malattie dalla fauna selvatica a maiali, polli e mucche e, in ultima battuta, agli esseri umani
Ma, quantificando, a quanta carne e latticini dovremmo rinunciare per ottenere un cospicuo beneficio?
Per valutare l’efficacia di una rivoluzione alimentare, i ricercatori hanno individuato tre possibili scenari: il primo con un regime dietetico immutato rispetto a oggi; un secondo in cui il consumo di carne verrebbe ridotto del 70% e un terzo che prevede un’alimentazione vegana.
Ebbene, a conti fatti, nel secondo scenario, scegliendo un regime alimentare con una forte base vegetale e riforestando i terreni si riuscirebbe a sequestrare dall’atmosfera ben 332 gigatonnellate di CO2. Un quantitativo che arriva quasi a raddoppiare, con 547 gigatonellate, se si segue una dieta vegana. Ovvero l’equivalente – rispettivamente – dei precedenti 9 e 16 anni di emissioni. Senza contare che in questo modo avremmo il 66% delle probabilità di limitare l’innalzamento della temperatura a oltre 1,5 °C e rispettare così gli Accordi di Parigi.
Allora per salvare il pianeta dai cambiamenti climatici dovremmo diventare tutti vegani? No, non proprio. Basterebbe far precipitare la richiesta di carne nei paesi industrializzati con reddito medio-alto, dove il suo consumo è maggiore e dove le possibilità di soffrire la fame o la malnutrizione sono decisamente minori rispetto ai paesi in via di sviluppo.
Cambiare il nostro menù entro il 2050, ridimensionare il consumo di carne e latticini affamati di terra e ripristinare le foreste, potrebbe regalarci tempo prezioso: «quel tanto necessario ai paesi per la transizione delle loro reti energetiche verso infrastrutture rinnovabili e prive di combustibili fossili» ha spiegato Matthew Hayek, primo autore del paper.
La scelta ricade sui paesi industrializzati non solo perché sono i maggiori “azionari” di questo mercato, ma anche per motivi socioeconomici. «Sebbene il potenziale per il ripristino degli ecosistemi sia sostanziale» ha aggiunto uno dei coautori, Nathan Mueller della Colorado State University, «l’allevamento estensivo è culturalmente ed economicamente importante in molte regioni del mondo. Ma i nostri risultati possono aiutare a individuare i luoghi in cui il ripristino degli ecosistemi e l’arresto della deforestazione in corso avrebbero i maggiori benefici in termini di lotta al cambiamento climatico».
Cambiare la nostra dieta e le nostre abitudini risulta quindi fondamentale, una scelta obbligata. E a chi si chiede perché non siano sufficienti le operazioni di riforestazione da sole, che tanto vanno per la maggiore negli ultimi anni, gli autori rispondono così.
Per quanto riguarda la riforestazione «abbiamo selezionato solo le aree in cui i semi potrebbero disperdersi naturalmente, crescendo e moltiplicandosi, generando foreste dense e ricche di biodiversità utili per rimuovere la CO2 dall’atmosfera» ha precisato dice Hayek. Stando ai risultati, eliminando o riducendo del 70% il consumo di carne «potremmo guadagnare oltre 7 milioni di chilometri quadrati, in cui le foreste avrebbero abbastanza acqua per crescere e prosperare naturalmente: collettivamente sarebbe pari a un’area grande come la Russia».
Piantare fisicamente fino a un trilione di alberi con una maxi operazione di riforestazione, invece, non solo richiederebbe un notevole sforzo fisico, ma una cattiva pianificazione ambientale potrebbe dar vita a piantagioni di alberi uniformi, con poca variabilità genetica e persino tutti della stessa età, limitando la biodiversità e impattando sulla disponibilità di acqua, soprattutto nelle zone aride.
Mentre «affidare il nostro futuro esclusivamente a tecnologie la cui efficacia non è ancora stata dimostrata su scala più ampia» ha aggiunto un’altra coautrice Helen Harwatt, della Harvard Law School «potrebbe rivelarsi sconveniente. Attualmente, il ripristino della vegetazione autoctona su ampi tratti di terreno agricolo a basso rendimento è quindi la nostra alternativa più sicura» per rallentare il cambiamento climatico e farlo in fretta.