SCIENZA E RICERCA

Lunga vita alla pasta fresca

Se la pasta è una faccenda seria, la pasta fresca è una faccenda serissima. Uno degli alimenti più amati nel mondo (e, soprattutto, in Italia) ha per i suoi innumerevoli fan un principale difetto: la data di scadenza. Che siano trofie, strozzapreti, pizzoccheri, orecchiette o fusilli, possono essere conservati in frigo per un tempo solitamente compreso tra i 30 e i 90 giorni. Non che sia poco in termini di tempo assoluto, ma 30 giorni extra potrebbero forse salvarci dal doloroso spreco di quel pacco di tonnarelli che giacevano da un mese in fondo al frigo e di cui ci eravamo completamente dimenticati.

Un gruppo di ricercatori dell’Istituto di biomembrane, bioenergetica e biotecnologie molecolari del CNR, dell’università Aldo Moro di Bari e del Food Safety Lab potrebbe aver trovato il modo di estendere il tempo di conservazione della pasta fresca fino a ben 120 giorni. I risultati di questo studio potrebbero fornire un prezioso aiuto per la lotta contro lo spreco alimentare, considerando che ogni anno circa un terzo del cibo prodotto in tutto il mondo viene gettato oppure va a male. Il modello di produzione sperimentato dai ricercatori si basa sull’aggiunta all’impasto di alcune colture bioprotettive e su un innovativo processo di confezionamento della pasta. Ce lo ha raccontato Francesca De Leo, biotecnologa dell’istituto di biomembrane, bioenergetica e biologie molecolari del CNR di Bari, che ha coordinato il lavoro.

“Le paste fresche corrono il rischio di contaminazioni batteriche e fungine anche prima della data di scadenza”, osserva De Leo. “Per cercare di ridurre tale rischio, i team coordinati dalla Prof De Angelis e dal Prof Pesole dell'università di Bari insieme al gruppo del CNR-IBIOM hanno modificato alcuni passaggi del processo già standardizzato nell’azienda di pasta con cui abbiamo collaborato e che ha sede a Bari. Tali modifiche riguardavano sia il confezionamento, e prevedevano quindi l’utilizzo di una diversa composizione dell'atmosfera modificata all’interno del pacco di pasta e di una specifica tipologia di pellicola protettiva per l’assemblaggio dell’incarto, sia l’aggiunta, nella fase di preparazione della pasta, di alcune colture probiotiche (Lactobacillus acidophilus, Lactobacillus casei, Bifidobacterium e Bacillus coagulans). La pasta trattata con questi bioprotettori resta un prodotto clean label, ovvero privo dell’aggiunta di conservanti o additivi sintetici potenzialmente dannosi per la salute che vengono talvolta impiegati nella produzione di alimenti a livello industriale. Infatti, le colture probiotiche in questione sono da tempo utilizzate per produrre probiotici funzionali alla prevenzione di alcuni disturbi gastrointestinali (come disbiosi e squilibri della flora batterica) negli esseri umani; non solo garantiscono la sicurezza alimentare, ma non alterano neanche il sapore originario della pasta”.

Come abbiamo anticipato, in questo lavoro di ricerca è stata testata anche una nuova modalità di confezionare la pasta per rendere l’incarto più resistente al rischio di contaminazioni.

“Il processo di confezionamento dei cibi che riempiono gli scaffali dei supermercati prevede la sottrazione dell’ossigeno (che causa ossidazione e accelera il deterioramento del prodotto), e la sua sostituzione con una miscela di altri gas, quali anidride carbonica e azoto, creando così un’atmosfera controllata all’interno della confezione”, spiega De Leo. “Solitamente, quest’atmosfera controllata è composta dal 20% di anidride carbonica e dall’80% di azoto; quella che invece abbiamo sperimentato nel nostro lavoro era composta al 40% da anidride carbonica e dal 60% da azoto. Anche in questo caso, si tratta di una modifica che non comporta alcun rischio per la salute del consumatore”.

I processi di preparazione e confezionamento appena descritti hanno lo stesso livello di ecosostenibilità rispetto a quelli tradizionali, e lo stesso vale per i nuovi incarti sperimentali utilizzati per lo studio. Infatti, come spiega De Leo, “i materiali che compongono le confezioni da noi testate sono utilizzati già da tempo per il packaging alimentare. Nel nostro studio, però, tali componenti sono state assemblate in maniera diversa per limitare ancora di più la permeabilità dell’ossigeno che, come abbiamo detto, causa la proliferazione batterica”.

Lo studio è stato condotto utilizzando un campione di trofie fresche fornite dal pastificio che ha collaborato allo studio. Di queste, una parte è stata confezionata secondo i metodi tradizionali, una seconda parte è stata confezionata utilizzando l’atmosfera modificata e il packaging ideati dai ricercatori, mentre alle restanti trofie (anch’esse conservate utilizzando il metodo di confezionamento sperimentale) sono state aggiunte, tramite un’applicazione spray, le colture bioprotettive.

Trascorsi 120 giorni, i ricercatori hanno potuto constatare che il terzo gruppo di pasta era quello che si era conservato meglio e non conteneva alterazioni microbiche. “Per valutare le condizioni dei campioni di pasta il controllo microbiologico non è stato eseguito solo con un'analisi colturale, ma con un’analisi di metagenomica compiuta con tecnologie innovative. Tale lavoro è stato effettuato dal gruppo di ricerca di genomica e bioinformatica del CNR-IBIOM e dell'università di Bari partner dell'infrastruttura di ricerca europea per lo studio della bioinformatica ELIXIR, la cui sede principale è a Bari ma che comprende altri 23 membri tra cui l’università di Padova”, precisa De Leo.

La speranza degli autori, quindi, è che le aziende di pasta fresca inizino a integrare le tecniche sperimentate in questo studio nei loro processi di produzione. Nonostante questo, è ancora presto per sapere quando potremmo cucinarci senza pericolo un pacco di tagliatelle rimasto in frigo da oltre tre mesi.

“Bisogna comunque considerare che il nostro è un progetto pilota e che le evidenze raccolte sono pur sempre dei risultati di ricerca, sebbene siano stati tratti anche grazie alla collaborazione con il pastificio che ha fornito i campioni di pasta e ha eseguito le modifiche all’impasto e al confezionamento che sono state indicate loro”, spiega De Leo. “Starà alle aziende, naturalmente, valutarne la fattibilità. L’utilizzo delle colture probiotiche da noi testate comporta infatti un certo costo economico, che potrebbe però essere ripagato dalla possibilità, per le aziende, di esportare il loro prodotto a una maggiore distanza – entrando quindi in nuovi mercati – data la maggiore resistenza alla contaminazione batterica delle confezioni, e di ridurre il reso (ovvero quella percentuale di prodotto che viene rimandato indietro all’azienda perché difettato e contaminato prima della data di scadenza)”.

Ma il valore dello studio in questione non va misurato considerando solo i vantaggi attesi per consumatori e aziende. Infatti, l’adozione di questi procedimenti per la preparazione dei cibi confezionati potrebbe ridurre, in parte, lo spreco alimentare.

“Una buona parte dello spreco di cibo è causata dalle contaminazioni microbiche sia prima che dopo l’arrivo del prodotto sugli scaffali dei supermercati”, osserva De Leo. “Allungare il tempo di conservazione della pasta e migliorare la resistenza delle confezioni riduce quindi gli sprechi sia da parte del cliente, che ha più probabilità di riuscire a consumare in tempo il cibo che ha comprato, sia da parte delle aziende, che possono adottare un modello di business più sostenibile basato sulla produzione di una quantità inferiore di merce, che può restare in vendita sugli scaffali più a lungo senza il rischio di deteriorarsi”.

“Gli obiettivi futuri della ricerca saranno quelli di implementare questo modello di produzione anche per altri prodotti, come i sostituti del pane privi di glutine, fondamentali nelle diete delle persone celiache”, continua De Leo. “Questi alimenti, non solo comportano in media costi di produzione più alti, ma corrono un rischio di deteriorabilità maggiore perché hanno una composizione glucidica più elevata e sono quindi più vulnerabili alle contaminazioni microbiche. Aumentarne la durata costituirebbe perciò un vantaggio sia per i clienti, che avrebbero a disposizione più tempo per consumarli, sia per le aziende, che potrebbero produrne meno. Stiamo conducendo lavori analoghi anche su alcuni prodotti surgelati – come, ad esempio, le focacce pronte – per renderli adatti anche alla conservazione in frigorifero. Poter mantenere e trasportare un prodotto a 4°C, invece che a -20°C. permetterebbe infatti di tagliare i costi energetici dei produttori, dei trasportatori, dei venditori e, perché no, anche dei consumatori”.

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