SCIENZA E RICERCA

Un manifesto per la rinascita di una nazione

Ciao Pietro. Le colleghe e i colleghi della redazione ti vogliono ricordare nel modo più bello: attraverso i tuoi articoli, il tuo pensiero critico e sempre puntuale. Tra i tanti pezzi che hai scritto – sarebbero troppi da mettere tutti – abbiamo fatto questa selezione che vorrebbe riassumere i tuoi molti punti di vista sulla scienza, sulla società e sulla storia di entrambe.

 

Era il 25 luglio 1945. Settantacinque anni fa. La guerra in Europa era finita, ma continuava nel Pacifico. Gli Stati Uniti stavano vincendo anche quella. Il Giappone era allo stremo. Nove giorni prima, il 16 luglio, ad Alamogordo, nel New Mexico, il Trinity Test aveva dimostrato che la bomba atomica funzionava. In poco più di sei anni una ricerca di base sulla risposta del nucleo di uranio al bombardamento con neutroni lenti si era trasformata in un’applicazione concreta e, purtroppo, tragica: la più potente arma di distruzione di massa mai costruita dagli umani. 

Il presidente che aveva voluto il Progetto Manhattan e, dunque, la sua realizzazione, Franklin D. Roosevelt, era morto poche settimane prima, il 12 aprile per la precisione. Il suo consigliere scientifico, un ingegnere e fine matematico, un grande manager scientifico, Vannevar Bush era il responsabile politico di quel progetto e ne aveva da tempo tratto tutte le conseguenze. 

La più importante di queste deduzioni è contenuta in un rapporto di settanta pagine, Science, the Endless Frontier (Scienza, la frontiera che non ha confini), che Bush consegna al nuovo presidente, Harry Truman. Il nuovo inquilino della Casa Bianca si trova tra le mani il rapporto forse più influente nella storia americana e planetaria degli ultimi 75 anni, perché non solo inaugura la moderna politica della scienza ma, a ben vedere, anche la terza grande transizione nella storia dell’economia, quella che oggi chiamiamo “economia della conoscenza”. 

Il rapporto era la risposta a una domanda: cosa devono fare gli Stati Uniti per assumere una posizione di leadership non solo militare ma anche economica nel nuovo ordine mondiale, garantendo la sicurezza, anche sanitaria, dei suoi cittadini? 

La risposta contenuta in quel rapporto è ancora estremamente attuale. Anche e forse soprattutto per l’Italia.

Quando Roosevelt pose la domanda, nel 1944, gli Usa erano in piena guerra, anche sul fronte europeo. In realtà il presidente era stato stimolato dallo stesso Bush. La domanda è, dunque, stata posta dal consigliere scientifico del presidente a se stesso attraverso il suo presidente. E si inserisce nell’ambito delle politiche keynesiane che l’Amministrazione Roosevelt aveva inaugurato una decina di anni prima.

Dopo aver messo su una commissione, da lui stesso guidata, in pochi mesi Vannevar Bush propone il suo rapporto, che è una vera e propria ricetta per l’economia del futuro. Seguita, più o meno fedelmente, dagli Stati Uniti ma anche buona parte dei paesi europei e, oggi, da molti paesi asiatici, la “ricetta Bush” costituisce la base teorica di quel “modello di sviluppo fondato sulla ricerca” che chiamiamo “economia della conoscenza”.

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Possiamo provare a riassumerla, la “ricetta Bush”, riducendola in 15 punti. I quindici punti di un programma di governo per lo sviluppo economico più che mai attuale. 

  1. Il Paese ha bisogno di innovazioni costanti. L’innovazione continua è necessaria anche in campo economico. Perché crea lavoro e ricchezza sostenibile. Una delle nostre speranze – scrive Bush – è di avere un regime di piena occupazione e un tenore di vita più alto grazie alla produzione di beni e servizi di qualità. Per innovare abbiamo bisogno di tutte le energie creative e produttive del nostro paese. Oggi questa intuizione va declinata per un’economia socialmente ed ecologicamente sostenibile, ma l’assunto di fondo non cambia: il bisogno di innovazione.
  2. Dobbiamo cambiare la specializzazione produttiva del Paese. Dobbiamo puntare su nuove industrie ad alta tecnologia e capaci, appunto, di innovazione continua. Perché «non otterremo nulla rimanendo immobili, continuando a produrre gli stessi articoli venduti a prezzi uguali o più alti. Non avanzeremo nel commercio internazionale se non offriremo prodotti nuovi, più appetibili e meno costosi». Oggi dobbiamo aggiungere “prodotti a basso impatto ambientale che producano ricchezza meglio distribuita, ovvero benefici per tutti”.
  3. La scienza è la leva principale per il cambiamento della specializzazione produttiva. Perché solo la scienza, con la sua capacità di produrre nuova conoscenza in maniera incessante, genera innovazione continua.
  4. La storia recente ha dimostrato che la scienza assolve a questo compito. Bush, che era il responsabile primo del Progetto Manhattan, non faceva riferimento solo alla storia della bomba atomica (ormai pronta, non ancora usata su Hiroshima e Nagasaki), ma anche ad altro: dalle nuove materie polimeriche di sintesi (gomme, plastiche) sia alla messa a punto degli antibiotici, che consentivano ai soldati americani di non morire per banali infezioni contratte sui campi di battaglia di mezzo mondo. Oggi la storia dimostra che la scienza e, più in generale, la conoscenza sono alla base di almeno i due terzi dell’economia mondiale.
  5. Per lo sviluppo del Paese occorre un flusso costante e sostanziale di nuova conoscenza scientifica frutto di un gioco di squadra che deve coinvolgere l’intera nazione. Occorrono più fondi, ma anche più università e, soprattutto, luoghi particolarmente adatti all’innovazione. Ambienti creativi. È l’intero paese che “deve crederci”.
  6. Ma ha un’importanza decisiva la scienza di base. Occorre puntare prima e sopra ogni altra cosa sulla scienza fondamentale. Quella generata dalla curiosità degli scienziati e non da un obiettivo pratico immediato. Perché è la scienza di base che, nel medio e lungo periodo, crea più innovazione. E che, già nel breve periodo, crea il clima adatto all’innovazione.
  7. Un paese padrone del proprio destino non può dipendere dall’estero per la produzione di nuova conoscenza di base. È miope pensare: “la ricerca la fanno gli altri e io compro il know how”. Questa idea crea dipendenza e mortifica la creatività. Alla lunga (ma anche a breve) è un’idea perdente. Ne sa qualcosa il Giappone e, pur con motivazioni diverse, anche l’Italia.
  8. L’impresa privata non ce la fa a sostenere la ricerca di base. Le imprese private chiedono risultati certi e immediati. L’esatto contrario di quanto richiede una buona ricerca di base (o, come la chiamiamo oggi, curiosity-driven, diretta dalla curiosità), che ha bisogno di serenità e di tempi non determinati apriori.
  9. Per lo sviluppo economico fondato sulla conoscenza occorre che intervenga lo Stato a finanziare la ricerca, salvaguardando sempre la ricerca di base. Non ci sono scappatoie. Senza l’intervento pubblico non è possibile creare le condizioni per la ricerca motivata dalla curiosità. Gli investimenti in ricerca devono essere un priorità per lo Stato.
  10. Lo sviluppo tecnologico deve essere tutto a carico delle imprese. Sono i privati che devono essere capaci di trasformare la conoscenza scientifica in beni e servizio commerciabili. Lo stato non deve finanziare la ricerca delle imprese. Su questo Bush non aveva considerato che il mercato da solo non ce la fa a evocare una domanda alta di innovazione. La storia degli USA (e non solo) dimostra che occorre ancora lo stato per evocare una forte domanda di beni e servizi ad alto contenuto di conoscenza aggiunto, per favorire lo sviluppo di imprese hi-tech. Negli USA ha assolto a questo compito la conquista dello spazio. E poi, a partire dagli anni ’70, la ricerca biomedica.
  11. Occorre un programma nazionale. Occorre una politica nazionale che non è solo una politica della ricerca ma è anche una politica economica. Ancora una volta la “mano invisibile” del mercato non ce la fa a realizzare un simile progetto. 
  12. Occorre aumentare il capitale scientifico del paese aumentando il capitale umano. Occorrono non solo più fondi per la ricerca, ma anche più persone per la ricerca. E queste persone non possono che venire dalle università. Occorrono dunque università che accolgano un numero crescente di studenti e diano loro una formazione di alta qualità.
  13. Conta solo il merito. Per selezionare gli scienziati migliori e i progetti di ricerca da finanziare occorre puntare su un unico fattore: il merito. Occorre scegliere i migliori. Ma occorre anche che il bacino entro cui si sceglie sia accessibile alle menti migliori. Per cui occorre che i ragazzi più bravi abbiano facile accesso ai centri di formazione, a prescindere dal reddito delle loro famiglie, dal genere, dal luogo di provenienza, dall’etnia, dal credo religioso.
  14. Occorre rimuovere le barriere. Ci sono molti ostacoli, culturali e burocratici, che impediscono ai migliori, locali o stranieri, di fare ricerca e di partecipare allo sviluppo scientifico del paese. Questi ostacoli vanno sistematicamente rimossi.
  15. Occorre un’agenzia nazionale per la ricerca. Occorre un centro unico di coordinamento – un’agenzia nazionale della ricerca – che, in piena autonomia scientifica, indirizzi il lavoro e assegni i fondi sulla base del merito.

Questi quindici punti esprimono, in sintesi, il programma di Vannevar Bush che, con un abbrivio relativamente lento, ha davvero consegnato agli Stati Uniti la leadership tecnologica ed economica mondiale. Il programma ha trovato applicazione in così tanti paesi da assurgere, ormai, a vero e proprio “manifesto dell’era della conoscenza”.

A ben vedere, il programma, con i suoi quindici punti, è una ricetta per la rinascita del nostro Paese. L’unica ricetta, forse, che abbiamo. La consegniamo al nostro governo. Che investa in questa prospettiva le risorse economiche che gli ha appena consegnato l’Europa. 

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