SCIENZA E RICERCA
I meccanismi con cui il nostro cervello gestisce l'attenzione selettiva
Sappiamo che la nostra capacità di mantenere alta l'attenzione per un periodo prolungato di tempo è limitata e varia con l'età. Il massimo della potenzialità lo si raggiunge tra i 18 e i 26 anni quando riusciamo a rimanere concentrati per circa 45 minuti prima che il cervello inizi a rallentare. Naturalmente i fattori che influenzano la durata dell'attenzione sono diversi e in questo l'interesse e la motivazione svolgono un ruolo centrale: un'attività stimolante riesce ad assorbirci senz'altro molto di più rispetto a un compito monotono e ripetitivo.
Parallelamente si discute molto anche dell'impatto di social media, Internet e dispositivi tecnologici e della possibilità che spezzettino la nostra attenzione in frazioni sempre più brevi e instabili. La rete e gli strumenti digitali hanno arricchito la nostra vita in termini di accesso alle informazioni e a un'ampia gamma di servizi ma questa trasformazione, che nel complesso è senza dubbio positiva, non è priva di impatto sulle nostre abitudini. Uno studio pubblicato qualche tempo fa su World Psichiatry aveva indagato l'impatto di Internet sul funzionamento del cervello concludendo che se da un lato la Rete, e i device tecnologici attraverso cui vi accediamo, possono migliorare la capacità di multitasking, dall'altro tendono a far diminuire l'abilità di mantenere la concentrazione su un singolo compito. E immaginarne i motivi non è certo difficile, basti pensare alla quantità di notifiche che appaiono continuamente sui nostri smartphones o alla tentazione (accentuata dalla pandemia da Covid-19) di cercare in modo quasi compulsivo le ultime notizie.
Se però spostiamo l'analisi dal piano della concentrazione a quello dell'attenzione, o meglio ancora della fluttuazione degli stati attentivi, la scala temporale sulla quale occorre ragionare è decisamente più breve. Ci sono infatti molte situazioni in cui in una frazione di secondo dobbiamo indirizzare la nostra attenzione su qualcosa che pochi istanti prima era completamente assente dalla nostra mente. E' quanto accade quando stiamo guidando immersi nei nostri pensieri e riusciamo ad evitare un potenziale pericolo solo all'ultimo momento perché abbiamo sentito il clacson di un'altra auto oppure quando camminiamo con la nostra musica preferita nelle cuffie (per non dire con gli occhi puntati sul telefonino) e ci rendiamo conto che stavamo per attraversare senza guardare bene la strada.
Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Trends in Cognitive Sciences e condotto da scienziati del Max Planck Institute for Human Development e University of Southern California ha preso in esame i risultati più significativi delle ricerche che in passato hanno indagato i meccanismi alla base degli spostamenti improvvisi dell'attenzione per proporre una cornice teorica unificante. Lo studio si sofferma in modo particolare sulla noradrenalina, un neurotrasmettitore che coinvolge parti del cervello deputate al controllo dell'attenzione e delle reazioni (ma anche della memoria e del controllo dello stress) e che ha nel locus coeruleus, un'area chiamata anche punto blu per la caratteristica colorazione tendente all'azzurro, il suo principale sito di sintesi.
How can we shift from inattentiveness to highest attention? Researchers @mj_dahl, @MaraMather @USC & @WB_Markus describing the way the blue spot regulates our brain’s sensitivity to relevant information in situations requiring attention. 🧠 @TrendsCognScihttps://t.co/qq6YEMz24K
— Max Planck Institute for Human Development (@mpib_berlin) January 7, 2022
Abbiamo chiesto a Roberto Dell'Acqua, professore del dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione dell'università di Padova e del Padova Neuroscience Center, un commento sulla proposta teorica avanzata da questo lavoro e abbiamo poi colto l'occasione per ampliare lo sguardo sul funzionamento della nostra attenzione su scale temporali maggiori anche per comprendere quanto le nostre capacità attentive siano condizionate dall'età e se sia possibile allenarle per migliorare la loro efficacia ed efficienza.
L'intervista al professor Roberto Dell'Acqua del dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione dell'università di Padova. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar
"Lo studio - introduce il professor Roberto Dell'Acqua - non ha una parte empirica ma è una panoramica su una serie di ricerche condotte nel passato. L’obiettivo è stato sicuramente centrato perché il lavoro intendeva fornire una cornice unificante a ricavati empirici ottenuti da ricerche precedenti proponendo una rivalutazione del talamo come stazione di relay che innesca o modula i nostri stati attentivi a diverse scale temporali. C’è quella dei millisecondi, la nostra reattività immediata legata agli stimoli interessanti o di allertai, e quelli che invece più comunemente vengono chiamati stati attentivi e che si riferiscono alle azioni che compiamo".
"E’ quindi uno studio che fa una proposta teorica e fissa alcuni paletti sulla discussione intorno al ruolo dei circuiti talamo-corticali nella modulazione degli stati attentivi. L’esistenza dei circuiti talamo-corticali è nota da tempo e ad essere già conosciuti sono anche i ritmi che li caratterizzano", prosegue il docente spiegando che "in particolare si discute della centralità del ritmo alfa che è un’oscillazione di cariche elettriche che avviene tipicamente attorno ai 10 Hertz, quindi 10 oscillazioni al secondo".
Queste oscillazioni alfa, ha sottolineato un comunicato del Max Planck Institute for Human Development, possono essere intese come un filtro che regola la sensibilità del nostro cervello per le informazioni esterne perché si ritiene che sopprimano l'elaborazione attiva degli input sensoriali durante la disattenzione.
"Un altro elemento importante che questa overview ha fatto emergere è un dato controintuitivo: quando il talamo è ben sincronizzato con le porzioni corticali a cui è connesso le sta in realtà inibendo, tanto è vero che non appena si presenta uno stimolo di allerta, oppure decidiamo noi endogenamente di prestare attenzione a qualcosa, nel cervello si osserva una desincronizzazione di talamo e aree connesse, al di fuori del ritmo alfa", approfondisce Roberto Dell'Acqua.
Il docente passa poi a considerare un punto meno convincente dello studio. "Il terzo pilastro della proposta teorica avanzata dagli autori di questo lavoro è forse quello più debole ed è quello dove i meccanismi alla base dei cambiamenti degli stati attentivi, che possono oscillare nell’arco di poche centinaia di millisecondi, vengono proposti come possibile spiegazione di cambiamenti che avvengono anche sull’arco dei secondi e delle ore. E’ una proposta che mira a unificare alcuni meccanismi ma che non risulta del tutto convincente".
Tornando nello specifico al ruolo ricoperto dalla noradrenalina Mara Mather, professoressa di gerontologia alla University of Southern California e coautrice dello studio, ha spiegato che attraverso la ricerca condotta su animali è stato possibile dimostrare che le fluttuazioni delle dimensioni della pupilla sono legate all'attività del locus coeruleus e questo ha poi consentito ai nostri occhi di "essere considerati come una finestra su una regione del cervello che a lungo sembrava inaccessibile".
Attraverso valutazioni non invasive, realizzate facendo risolvere a un gruppo di volontari un compito impegnativo di attenzione al fine di indagare, con l'elettroencefalogramma, il legame tra dimensioni della pupilla e oscillazioni neurali, gli scienziati hanno avuto la conferma che nei momenti di maggiore attività noradrenergica l'attenzione era superiore. E hanno anche scoperto che con l'avanzare dell'età la capacità di elaborare in modo selettivo aspetti rilevanti dell'ambiente diminuisce parecchio.
Come precisa il professor Dell'Acqua, "il dato biologico ci dice che il cervello a partire dai 30 anni va incontro a una decrescita della sua performance e dunque tutte le componenti della resa cognitiva, compresa l’attenzione, cominciano piano piano a diminuire". Fortunatamente però "con il trascorrere dell’età cambiano anche le strategie con cui noi trattiamo le informazioni a cui prestiamo attenzione. Diventiamo più efficaci non tanto nell’assorbire le informazioni, che è il dato vincolato alla struttura dei processi sensoriali, quando piuttosto nell’organizzarle tenendole attive".
In primo luogo è comunque importante definire con precisione cosa intendiamo per attenzione. Se ci riferiamo alla classica situazione in cui si è impegnati nello studio o nella lettura stiamo parlando di attenzione come capacità di concentrazione dove "i ritmi tendono ad essere in linea con quelli circadiani e ogni picco attentivo inizia a diminuire dopo circa 45 minuti per poi tornare a stati di maggiore efficacia dopo un periodo di pausa. E’ un tipo di attenzione che funziona su scale temporali molto lunghe rispetto al meccanismo di fluttuazione negli stati attentivi che avviene in poche centinaia di millisecondi e che è l’ambito su cui si concentrano gli studi del mio laboratorio", puntualizza il docente del Padova Neuroscience Center.
Ma la capacità di restare concentrati può essere allenata? "Proprio su questi processi di empowerment cognitivo più che l’attenzione sembra che ad essere centrale sia allenare la ritenzione a livello di memoria a breve termine. Gli studi dell’ultimo quinquennio hanno mostrato che l’attenzione va vista come una sorta di filtro: quando poniamo attenzione a qualcosa stiamo dando un accesso preferenziale per il trasferimento di queste informazioni dal piano sensoriale a quello mnestico a breve termine. Se l’attenzione filtra le informazioni per caricarle sulla memoria a breve termine questo significa che tanto più siamo efficaci nel gestire questo spazio mnestico tanto più siamo in grado di gestire le nostre capacità attentive. Siamo bravi selettori se siamo anche dei bravi ritentori di informazioni a livello di memoria a breve termine", conclude il professor Dell'Acqua.