SOCIETÀ

Mercato unico africano, un punto di svolta tra opportunità e sfide da superare

Per l’Africa il 2021 è iniziato nel segno di una svolta storica. Il 1° gennaio, dopo un lungo percorso che nella sua fase conclusiva è stato ritardato anche dalla pandemia, il continente è diventato la più grande area di libero scambio del mondo. L’accordo che ne è alla base si chiama African Continental Free Trade Area (AfCFTA), vi aderiscono tutti gli stati ad eccezione dell’Eritrea e prevede l’eliminazione dei dazi sul 90% dei prodotti e dei servizi, con l’obiettivo di incrementare il volume degli scambi commerciali tra i diversi Paesi e favorire la creazione di milioni di posti di lavoro.

Ad oggi l’economia africana si basa in larga parte sulle esportazioni verso l’Europa e l’Asia, mentre gli scambi interni al continente rappresentano appena il 15% del totale. I prodotti più venduti sono le materie prime frutto delle attività estrattive: un ambito che, dato il ruolo chiave di macchinari e tecnologie, ha limitati riflessi occupazionali.

Ed è proprio sul nodo del lavoro che l’AfCFTA punta particolarmente. Nella cerimonia ufficiale di lancio dell’accordo è stato più volte sottolineato che l’eliminazione dei dazi e delle barriere non tariffarie potrà creare nuove opportunità per piccole e medie imprese, in settori che potranno dare uno sbocco importante all’occupazione femminile, spesso concentrata nell’economia informale, e a quella giovanile.

Secondo la Banca mondiale, se l’African Continental Free Trade Area sarà reso effettivo sotto tutti gli aspetti previsti dall’accordo, entro il 2035 decine di milioni di africani potranno uscire dalla povertà e il continente potrebbe vedere il proprio Pil complessivo aumentare in modo considerevole: attualmente il Pil nominale è di circa 2.500 miliardi di dollari ma c'è una forte eterogeneità tra gli stati e la crescita, che a partire dal 2009 aveva caratterizzato in modo costante l'economia africana, adesso subisce i contraccolpi della crisi legata alla pandemia da Covid-19.

La cerimonia di lancio dell'African Continental Free Trade Area

Ad aver ratificato l’accordo sono al momento 35 dei 53 Paesi aderenti, ma la situazione è in rapida evoluzione e richiede anche un forte sforzo di coordinamento per superare quegli ostacoli che rischiano di indebolire le potenzialità di questa svolta. Esiste un problema di infrastrutture con una rete di viabilità interna che in molte aree del continente è carente, ma occorre anche garantire che il transito delle merci alle frontiere sia rapido ed efficiente e che le procedure doganali siano snellite. Inoltre, prima dell'avvio del mercato unico di libero scambio in Africa erano già stati costituiti otto blocchi economici regionali che dovranno ora adeguare le proprie regole a quelle di AfCFTA

“L’African Continental Free Trade Area non deve essere solo un accordo commerciale ma uno strumento per lo sviluppo dell’Africa”, ha affermato Wamkele Mene, segretario generale del segretariato della zona di libero scambio continentale africana, aggiungendo che l’obiettivo è quello di raddoppiare in 15 anni il volume degli scambi interni e “uscire dal modello economico coloniale che abbiamo ereditato e che per 50 anni abbiamo mantenuto”.

 

L'organismo che ha il compito di accompagnare l'implementazione dell'accordo ha sede ad Accra, capitale del Ghana, e il segretariato sta lavorando con Afreximbank per creare una piattaforma commerciale panafricana che consenta alle piccole imprese di commerciare efficacemente attraverso i confini e in diverse valute. "Spesso negli accordi commerciali i grandi vincitori sono i paesi già industrializzati e le grandi aziende che possono accedere ai nuovi mercati letteralmente dall'oggi al domani", ha dichiarato Wamkele Mene al Financial Times, spiegando che sarebbe un grave fallimento se l'integrazione del mercato finisse per accentuare le disparità tra gli stati.

Abbiamo chiesto a Gianfranco Tusset, professore di Storia economica al dipartimento di Science economiche e aziendali dell'università di Padova, di spiegarci più nel dettaglio quali effetti potrà avere l'accordo di libero scambio sullo sviluppo del continente africano, come è stato articolato il percorso che ha portato all'istituzione del mercato unico, quali ambiti di attività riceveranno maggiori benefici e quali sono le difficoltà da superare per rendere concrete le prospettive di questa svolta.

"Dobbiamo pensare all’accordo di libero scambio come a una premessa per lo sviluppo africano, non come a un punto di arrivo", afferma il professor Tusset, avvertendo però che "non potrà produrre effetti economici senza un'azione di coordinamento tra i diversi Paesi e senza adeguate riforme istituzionali". 

L'intervista completa al professor Gianfranco Tusset del dipartimento di Scienze economiche e aziendali dell'università di Padova, sulla nascita ufficiale del mercato unico africano. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

"E’ un accordo decisamente interessante di cui, tra l’altro, non si è parlato molto. 27 dei Paesi che vi aderiscono sono classificati nei ranking mondiali come a reddito basso, gli altri sono a medio reddito e uno soltanto è a reddito elevato. Coinvolge quindi realtà che hanno un diverso livello di sviluppo economico e che sono anche molto eterogenee dal punto di vista della dimensione e del numero di abitanti", introduce il professor Gianfranco Tusset, docente di Storica economica all'università di Padova.

E proprio nella diversità di sviluppo e di caratteristiche dei Paesi che fanno parte del mercato unico africano il docente individua un possibile elemento critico. "Parliamo di una realtà molto complessa e questo non favorisce lo sviluppo di un’area di libero scambio perché normalmente queste aree si sviluppano maggiormente quando i Paesi sono omogenei. Manca anche una locomotiva che possa fungere da hub e guidare gli altri Paesi africani: molto spesso si è pensato che questo ruolo potesse essere ricorperto dal Sudafrica ma è una funzione che in realtà non ha ancora svolto".

All'origine dell'accordo c'è la volontà di stimolare il commercio interno in un mercato che complessivamente conta su 1,2 miliardi di persone. "La realtà africana è caratterizzata da un livello di scambi tra i paesi interni al continente che è molto contenuto e si punta quindi a correggere questa situazione. La quota di import/export interna all’Africa è di appena il 15%, mentre in Europa siamo intorno al 67% e in Asia è di circa il 61%. I principali scambi interni al continente sono costituiti da cibo e qualche manufatto ma perlopiù l’economia si basa sull’esportazione di materie prime, prevalentemente prodotti minerari e legname, verso altre aree del mondo. Le importazioni riguardano soprattutto manufatti, prodotti chimici, macchinari e attrezzature per il trasporto. Il partner tradizionale del continente africano era rappresentato dall’Europa ma il volume degli scambi sta diminuendo. A crescere sono invece i commerci con l’Asia che importa minerali e legname ed esporta in Africa prodotti tessili. Gli effetti non sono sempre stati positivi perché l’arrivo di prodotti tessili dalla Cina ha spiazzato le produzioni tessili locali", approfondisce il professor Tusset.

La creazione del mercato unico africano è l'esito di un lungo percorso e i negoziati degli ultimi anni sono solo la parte conclusiva. L'accordo è stato firmato nel 2018 nel corso di un vertice straordinario a Kigali, in Ruanda. In quel momento i Paesi aderenti erano 44. E' entrato in vigore nel 2019 quando la ratifica da parte del Gambia ha consentito di raggiungere la soglia minima richiesta di 22 Stati. La successiva fase dell'implementazione si è dovuta scontrare con la crisi sanitaria legata al coronavirus e per il lancio ufficiale è stata scelta la data, anche simbolica, dell'1 gennaio 2021. Dalla pandemia, ha affermato Wamkele Mene, è però arrivato un ulteriore impulso a livello motivazionale perché "Covid-19 ha dimostrato che l'Africa dipende eccessivamente dall'esportazione di materie prime primarie e dalle catene di approvvigionamento globali".

Per avere un quadro più completo è importante ricostruire anche tutto quello che è avvenuto nei decenni precedenti e in particolare dopo il 1960, quando l'Africa iniziò ad avviarsi verso il processo di decolonizzazione.

"Se ci soffermiamo sul periodo post-coloniale gli anni ’60 sono stati dedicati a una stabilizzazione delle realtà nazionali dopo la decolonizzazione, tra gli anni ’70 e ’80 si è tentato di porre soluzioni ai problemi dello sviluppo attraverso la creazione di realtà regionali, negli anni ’90 questo processo è stato intensificato e ha posto le basi per arrivare alla firma dell’accordo di libero scambio. Parallelamente dall’Organizzazione dell’unità africana, fondata nel 1963, si è arrivati nel 2002 all’Unione Africana, organizzazione internazionale comprendente tutti gli Stati africani, sotto la cui egida è stata gestita la negoziazione dell’accordo", spiega il docente di Storia economica dell'università di Padova.

"Il momento in cui si è iniziato a riflettere su una realtà di libero scambio sono i primi anni ’90 con il Trattato di Abuja, capitale della Nigeria, ed è interessante notare che si tratta dello stesso periodo in cui in Europa si ponevano le basi di Maastricht" prosegue Tusset, precisando però che "questo accordo è un prodotto autoctono della realtà africana" e che, affinché possa funzionare, "servono un importante adeguamento istituzionale e una forte azione azione di coordinamento tra i diversi Paesi".

Il mercato unico africano prevede l'eliminazione dei dazi doganali sul 90% dei prodotti, in cinque anni per le economie più avanzate e in 10 anni per le nazioni meno sviluppate. Secondo Gianfranco Tusset quello che finora ha impedito il decollo del commercio interno al continente è però riconducibile solo in parte al problema delle barriere tariffarie, in quanto "non sono particolarmente elevate e non costituiscono un grosso problema di limitazione alle importazioni. Il vero problema sono le barriere non tariffarie, vale a dire i vincoli tecnici, sanitari e fitosanitari. E poi i costi delle transazioni determinati da problemi collegati ai sistemi di pagamento tra i diversi paesi, le difficoltà a livello di sistema di trasporti e di movimenti delle persone". 

E proprio su quest'ultimo punto l'accordo avrebbe dovuto spingersi con maggiore decisione. "E' più facile circolare in Africa per i cittadini europei, statunitensi o australiani di quanto non lo sia per i cittadini africani e questo rappresenta un grosso problema anche per la stessa circolazione delle merci. Questo aspetto è evocato nell’accordo ma non è sufficientemente sottolineato e occorrerebbe procedere con una serie di riforme in tal senso", commenta il professore del dipartimento di Scienze economiche e aziendali dell'università di Padova. 

Nello sviluppo di una politica industriale occorrerà inoltre superare la scarsa differenziazione che già caratterizza il mercato africano e che rischia di accentuarsi in presenza di un accordo che mantiene la protezione tariffaria su una quota di prodotti. "In passato situazioni di questo tipo hanno portato i Paesi a concentrarsi tutti sulla produzione dei prodotti protetti. E' importante che i policy makers riescano a coordinare le proprie politiche industriali per diversificare le produzioni in modo tale da rendere l’Africa meno dipendente dalle importazioni e aumentare il livello di scambi", approfondisce Gianfranco Tusset. 

Diversi sono gli indicatori con cui si è cercato di stimare l'impatto del mercato unico africano entro il 2035. "Le proiezioni sulle fasce lavorative sono interessanti perché dovrebbero essere favorite le persone senza una particolare preparazione e le donne. L'export interno al continente dovrebbe arrivare a 68 miliardi di dollari e le statistiche prevedono un aumento del Pil del 5% su scala continentale: non è una crescita molto elevata ma è comunque importante considerando anche il contesto della pandemia", sottolinea il docente.

Secondo Tusset il settore più promettente per l'Africa è quello dei servizi, come dimostra anche il boom del Ruanda. "Gli investimenti diretti esteri fluiti verso l’Africa in questi ultimi anni si sono concentrati soprattutto sui servizi, intendo sia il settore bancario, finanziario e assicurativo ma anche quello del turismo, delle costruzioni e dei trasporti. A mio avviso le potenzialità sono maggiori rispetto a quelle offerte dalla manifattura e dall'industria. Si tratta inoltre di attività labour intensive rispetto a quelle industriali e quindi potrebbero creare maggiore occupazione". E poi le tecnologie. "Le nuove generazioni sono nate digitali e questo consiglia di non seguire un modello di sviluppo tradizionale ma saltare direttamente ad una fase in cui l’utilizzo delle tecnologie trovi un’ampia diffusione".

 

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