Sessant'anni fa, in quello che viene ricordato come “l'anno dell'Africa”, furono ben 17 le colonie africane che ottennero finalmente l'indipendenza. Dopo decenni passati sotto il controllo dei più potenti paesi europei, la cui attività di colonizzazione era iniziata tra la fine dell'Ottocento e la prima guerra mondiale, cosa portò in un periodo così breve a un'accelerazione della storia così marcata? Ne abbiamo parlato con la professoressa Elena Calandri, del dipartimento di scienze politiche, giuridiche e studi internazionali all'università di Padova.
“Parliamo di quella specifica fase della guerra fredda, tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta, in cui il tema del colonialismo era stato politicizzato enormemente e che, soprattutto dopo l'arrivo al potere di Kruscëv in Unione Sovietica, diventò uno dei terreni su cui si giocavano il futuro delle relazioni est-ovest e la rivalità tra mondo occidentale e mondo comunista. Kruscëv ebbe la formidabile intuizione che, al di là delle divergenze ideologiche, le ex colonie fossero degli alleati naturali contro le potenze occidentali e contro il mondo capitalista. Per questo, l'accelerazione del 1960 fu anche una risposta politica del mondo occidentale che aveva molto a che fare con quella nuova dimensione della guerra fredda.
La decolonizzazione, comunque, era già iniziata in Asia più di 10 anni prima. L'India, per esempio, diventò indipendente nel 1947, e negli anni successivi lo stesso avvenne per la gran parte delle colonie dell'Asia meridionale e del sud-est asiatico.
I movimenti indipendentisti in Africa, invece, comparvero tardi. Fu solo dopo la seconda guerra mondiale che si costituirono delle forme di organizzazione propriamente politiche legate all'osservazione e alla condivisione di ciò che era successo in Asia. Prima di allora, nessuno immaginava che gli stati africani potessero essere indipendenti, ma che al massimo potessero sviluppare forme di rappresentatività della popolazione, di autogoverno e di autonomia, dentro dei confini molto circoscritti.
Un altro grande acceleratore, che si lega alla decolonizzazione asiatica, è la conferenza di Bandung del 1955, che ha avuto un ruolo importante nella formazione di una coscienza comune di quello che iniziava a chiamarsi il terzo mondo. Fu infatti il primo momento in cui questa comunità di stati che uscivano dalla colonizzazione e che dovevano affrontare un processo di sviluppo a cui non si erano mai nemmeno avvicinati, in qualche modo, si riconobbe".
C'è da dire che c'è stato un grande dibattito storico e politico su chi abbia avuto la principale responsabilità della decolonizzazione.
Come spiega la professoressa Calandri, “nei libri di una volta, si scriveva che fosse stata concessa ai paesi africani dalle potenze coloniali europee, le quali ritenevano che la colonizzazione avesse fatto il suo tempo e che fosse più vantaggioso, da un punto di vista politico ed economico, riconoscere loro l'indipendenza. La storiografia africana dei primi anni dell'indipendenza, invece, scrive che tale conquista fu strappata alle potenze coloniali.
La risposta sta probabilmente nel mezzo perché, effettivamente, in Europa maturò la convinzione che non fosse utile né possibile mantenere gli imperi così com'erano, ma questo avvenne solo nella seconda metà degli anni Cinquanta. In un primo momento, infatti, durante i primi anni dopo la seconda guerra mondiale, le potenze coloniali europee fecero il massimo sforzo per conservare i loro imperi.
Fu solo allora, infatti, che si cercava per la prima volta il modo di utilizzare le colonie per fare gli interessi economici delle potenze europee e contemporaneamente renderle politicamente accettabili per le popolazioni che le abitavano.
Le colonie africane, infatti, oltre ad essere mercati garantiti verso cui indirizzare la macchina industriale europea, erano anche grosse fonti di materie prime indispensabili sia per l'industria, sia dal punto di vista monetario, perché potevano essere vendute sul mercato internazionale. Inoltre, la forza demografica di quei paesi era utile per far funzionare l'apparato industriale europeo, tant'è vero che la migrazione di lavoratori verso l'Europa continuò fino agli anni Settanta.
Per tutte queste ragioni, le colonie erano considerate indispensabili, il che è dimostrato anche dal fatto che mai prima di allora c'era stata una migrazione così consistente di europei che si trasferivano nelle colonie africane.
Fu il primo periodo della storia, inoltre, in cui le potenze europee spendevano soldi per lo sviluppo delle colonie, tramite investimenti pubblici. Tradizionalmente, le colonie dovevano mantenersi da sole, e finanziare i loro bilanci con le ricchezze recuperate in loco. Dopo la seconda guerra mondiale, invece, soprattutto la Francia e il Regno Unito investirono nelle colonie. Era la condizione perché le leadership che stavano emergendo in quei territori accettassero questa collaborazione. Era, insomma, la prima volta che realmente si cominciò a lavorare per la creazione di istituzioni politiche che potessero avere come orizzonte teorico l'autogoverno.
Si formarono assemblee di diversi livelli, si moltiplicarono i processi elettorali, incentivando lo sviluppo di una realtà politica che, nella visione degli europei, doveva servire semplicemente a rafforzare delle forme di rappresentanza all'interno di un quadro in cui la decisione ultima rimaneva nelle loro mani.
Questi processi politici, però, diedero un risultato ben diverso, come dimostra il caso del Ghana, grande produttore di cacao e caffè, in cui l'attività politica e la proprietà della terra erano nelle mani degli abitanti, mentre i britannici si occupavano della commercializzazione del prodotto, che diventò nel 1957 il primo paese dell'Africa subsahariana a ottenere l'indipendenza.
Ciò fu possibile anche grazie agli sforzi di Kwame Nkrumah, il carismatico rivoluzionario che, ispirandosi a Gandhi, fece della resistenza passiva uno strumento politico”.
Kennedy incontra Kwame Nkrumah, allora presidente del Ghana, nel 1961
Il fatidico anno 1960 interessò invece soprattutto le colonie francesi. In seguito alla guerra di Algeria, infatti, il governo francese, pur di non perdere la preziosa colonia, provò a concedere una forma di autogoverno al suo impero coloniale.
“In realtà, nell'Africa francese, erano decisamente predominanti coloro che pensavano che mantenere un solido legame politico ed economico con la Francia fosse la soluzione migliore per un processo di sviluppo politico ed economico”, precisa la professoressa Calandri. “L'ammirazione per la sua cultura, con le sue parole d'ordine come democrazia e fratellanza, aveva un richiamo molto forte in gran parte delle élite politiche dell'impero francese.
L'idea della Comunità francese di de Gaulle era un sistema in cui la Francia teneva nelle sue mani le leve della politica estera e della moneta, ma in cui veniva accelerato il processo di formazione dell'autogoverno nelle colonie. Era un modo per riconoscere le istanze indipendentiste e le forti richieste da una parte della leadership africana che stava emergendo, facendosi carico delle opere di sviluppo e modernizzazione. Alla Communauté aderirono tutti i paesi tranne la Guinea, ma ben presto fu chiaro che questa entità politica non poteva stare in piedi, perché l'aspirazione alla piena indipendenza degli stati africani era troppo forte.
Al suo scioglimento, nel 1960, ci fu quindi un passaggio in massa all'indipendenza che, da parte francese, non venne contrastato. Lo sforzo francese, a questo punto, era negoziare degli accodi economici e militari che garantissero una continuità dei legami personali e clientelari con i leader politici dell'Africa indipendente.
Era più efficace mantenere un rapporto con l'autorità politica esistente, piuttosto che sostenere le spese necessarie per fare piazza pulita dei politici e delle governance locali.
Ma quale fu, nella storia africana l'impatto di questa rapida decolonizzazione? Cosa avvenne nei decenni successivi alla conquista dell'indipendenza?
“Nelle colonie, a partire dagli anni Venti e Trenta, si erano venute a formare delle nuove élite che avevano studiato nelle scuole degli europei ed erano state educate ai valori e alla cultura occidentale. Queste si posero in competizione con quelle tradizionali, che erano le interlocutrici privilegiate degli europei, nonché quelle più disposte a collaborare e a mantenere la continuità del potere”, spiega la professoressa Calandri. “La competizione tra gli esponenti di queste due leadership fu forte fin dall'inizio. Cominciò così una serie di colpi di stato e tensioni politiche. In pochissimi paesi fu possibile assistere alla creazione di regimi abbastanza stabili da approfittare, da un punto di vista politico ed economico, dell'indipendenza.
Gli anni Sessanta furono caratterizzati da un grande entusiasmo politico per l'indipendenza e da risultati positivi in termini di crescita; tuttavia rimasero deluse le aspettative di quei teorici occidentali che si aspettavano uno sviluppo che potesse portare al decollo economico.
Ciò non avvenne per vari motivi. Ci fu una grossa sottovalutazione del ruolo dell'agricoltura, considerata un settore “vecchio” in cui non valeva la pena di investire, a differenza di quello industriale. Inoltre, la crescita economica non fu mai in grado di essere superiore a quella demografica.
Perciò, dal 1973, quando l'economia mondiale rallentò ed entrò in crisi, i nodi vennero al pettine. Molti paesi si ritrovarono indebitati, con un'industrializzazione che non era ancora decollata, e in situazioni in cui gli investimenti avevano assorbito moltissime risorse, a scapito della produzione agricola. Tutto ciò causò una crisi finanziaria complessiva che influì negativamente anche sugli investimenti nell'educazione, nell'alfabetizzazione (che era una delle sfide principali), nel sistema sanitario e nell'assistenza sociale, settori che, con l'entrata in crisi dei bilanci pubblici, si trovarono in estrema difficoltà”.