SCIENZA E RICERCA

Da minacciata a protetta, il ritorno della foca monaca nel Mediterraneo

È uno dei pinnipedi più minacciati del pianeta, l’unico che abita le acque del Mediterraneo e ne restano appena 700 esemplari. Un tempo – prima di essere portata quasi all’estinzione per mano umana – la foca monaca mediterranea (Monachus monachus) popolava le coste italiane da est a ovest: la grotta del bue marino a cala Gonone, in Sardegna, o quella delle isole Tremiti, o ancora la spiaggia del bue marino a Favignana, in Sicilia, sono alcune delle tantissime località marine italiane a lei dedicate. Oggi fortunatamente questi toponimi non sono più l’unica testimonianza del pinnipede: negli ultimi anni e soprattutto negli ultimi mesi, la foca monaca è tornata a fare capolino lungo le coste italiane. E il clima nei suoi confronti è cambiato: adesso c’è chi lavora per monitorarla e prepara il terreno per una convivenza pacifica con questa splendida creatura. È il gruppo che lavora al progetto Care4Seal, ideato da Sofia Bonicalza, responsabile giovanile del Gruppo Foca Monaca, e che promette di cercare la foca monaca con una tecnica innovativa: il DNA ambientale, grazie al coinvolgimento di Elena Valsecchi, ecologa molecolare all’Università di Milano Bicocca.

«Creare un clima accogliente per la foca monaca è un passo fondamentale» spiega a Il Bo Live Sofia Bonicalza, che con Care4Seals si è aggiudicata il premio Terre de Femmes, istituito da Yves Rocher per le donne che si impegnano nella tutela della biodiversità. «Veniva cacciata per la sua pelliccia e per vari scopi, e come tutti i grandi predatori marini era considerata “nociva” soprattutto dai pescatori. L’antropizzazione selvaggia delle coste, l’inquinamento e l’aumento del traffico navale hanno fatto il resto. Tanto che dagli anni ’70 è stata considerata estinta in Italia, anche se gli avvistamenti sporadici non sono mai mancati in tutti questi decenni. Ma popolazioni di foca monaca oggi restano solo in Grecia e Croazia meridionale, insieme a Turchia, Marocco, e l’arcipelago di Madera».

Proprio in Grecia, nel 2019, Sofia Bonicalza ha incontrato per la prima volta la foca monaca, che può raggiungere i 300 kg di peso e immergersi fino a 90 metri. Ed è stato amore a prima vista: dopo quell’incontro, tornata in Italia, ha dedicato tutta se stessa alla tutela di questa specie, inizialmente organizzando le “settimane della foca monaca”, dei corsi formativi pratici e teorici per studenti e appassionati, e poi il progetto Care4Seals, nato dalla collaborazione tra il Gruppo Foca Monaca e l’Università di Milano Bicocca.

«È proprio grazie alla collaborazione con la professoressa Elena Valsecchi, che possiamo monitorare la presenza della foca monaca nelle acque italiane, grazie al DNA ambientale (eDna), ovvero DNA disperso in mare, proveniente da cellule epiteliali, escrementi, muco e gameti per lo più» continua Bonicalza. 

«Fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile monitorare la presenza della foca monaca in questo modo, perché per raccogliere informazioni significative era necessario avere campioni più corposi o addirittura, negli anni 90, stabilizzare delle colture cellulari» ricorda Elena Valsecchi, ecologa molecolare all’Università Milano Bicocca. «Oggi, invece, grazie alle nuove tecniche di biologia molecolare possiamo leggere tracce infinitesimali di materiale genetico disperso nell’acqua e capire quali animali sono passati in quella zona». Ovviamente il primo passo fondamentale è isolare delle sequenze di Dna che siano specifiche solo per la foca monaca del Mediterraneo, sul cui “stampo” costruire una sonda molecolare in grado di intercettare in modo univoco la sequenza genetica target all’interno di campioni di Dna prelevati in mare. 

Creare un clima accogliente per la foca monaca è un passo fondamentale

«Avevamo bisogno di identificare una sorta di “calamita molecolare” capace di “pescare” il Dna della foca monaca tra i milioni di molecole di organismi marini che avremmo ritrovato nei campioni d’acqua. Serviva una sequenza di Dna specifica di questo pinnipede che, come la tessera di un puzzle, potesse combaciare perfettamente con i frammenti di Dna di foca monaca ritrovati in mare» prosegue Elena Valsecchi. «Per mettere a punto la tecnica e validarla, nel 2019, nella prima fase del progetto Spot the Monk, abbiamo campionato acqua marina in prossimità della costa di Madeira, dove risiede una piccola popolazione di foca monaca, composta da una trentina di individui, per vedere se la nostra tecnica era in grado di identificarne la presenza. [Abbiamo utilizzato tre sequenze genomiche target caratteristiche della specie, per poter stabilire quale funzionasse meglio.] Le abbiamo testate e abbiamo visto che non solo erano in grado di “pescare” il Dna di foca monaca, ma i campioni con il segnale più forte erano quelli raccolti in prossimità delle grotte in cui erano presenti le foche al momento del prelievo, consentendo di “tarare” il sistema di rilevamento molecolare. A questo punto abbiamo applicato lo stesso approccio nel Mediterraneo: le analisi condotte a largo dell’Arcipelago Toscano e di Lampedusa, hanno addirittura anticipato alcune delle importanti segnalazioni di foca monaca avvenute di recente».

Che sia lungo la costa o in mare aperto, il Dna ambientale consente di “vedere” quello che i nostri occhi non vedono: scoprire le tracce del passaggio di una specie, le aree che frequenta abitualmente, le rotte, gli spostamenti stagionali. E la raccolta dei campioni può essere effettuata in pochi passaggi: «raccogliamo sacche da circa 12 litri di acqua marina, successivamente quest’acqua viene filtrata: viene fatta passare attraverso dei filtri di nitrocellulosa a bassa porosità, su cui vengono trattenute le cellule e le altre tracce biologiche da cui estraiamo il DNA, che poi analizziamo. Per raccogliere le sacche d’acqua servono alcune precauzioni, per evitare che i campioni vengano contaminati dagli operatori o dai campioni precedenti. Ma in fondo, il procedimento può essere svolto anche da non addetti ai lavori, dietro formazione… questo è il secondo anno in cui Spot the Monk si è avvalso della Citizen Science per il monitoraggio su larga scala delle acque costiere del Mediterraneo centro-occidentale. Forse, in futuro, il campionamento potrebbe essere effettuate persino in modo automatico: un vantaggio che permetterebbe di raccogliere enormi quantità di dati» conclude Valsecchi.

In mare siamo ospiti, dobbiamo sempre ricordarcelo

Ed è proprio al coinvolgimento di studenti, appassionati e comuni cittadini che punta il progetto Care4Seal: aver cura della foca monaca significa monitorarla, proteggerla e creare le condizioni per il suo ritorno, aumentando la consapevolezza dei cittadini e della società nei confronti di questa specie a rischio di estinzione. «Nel progetto Care4Seal, infatti, con le settimane della foca monaca prevediamo una fase di training e di didattica» racconta Sofia Bonicalza. «Queste settimane, che si tengono a giugno e a settembre, sono aperte a studenti e appassionati: in queste occasioni spieghiamo tutto sulla foca monaca e le sue abitudini, e su come si fanno i monitoraggi. Per esempio, oltre agli avvistamenti e alla raccolta del Dna ambientale, per monitorare e tutelare la foca monaca è importante controllare e avere una cartografia precisa delle grotte costiere: queste potrebbero essere potenziali siti riproduttivi, quindi spieghiamo come cartografarle, per esempio.

La speranza è sempre che la foca monaca torni a riprodursi lungo le nostre coste, perciò monitorare le grotte con una cartografia idonea e controllare se vi siano campioni biologici di foca monaca è estremamente importante». Inoltre con Care4Seal è stata coinvolta una rete di cittadini che aiutranno i ricercatori a raccogliere campioni d’acqua marina lungo le coste, in barca, in kayak o sul sup: campioni preziosi da sottoporre poi ad analisi del Dna ambientale per avere una panoramica quanto più chiara possibile del ritorno della foca monaca lungo le coste italiane. «Intanto, se si è tanto fortunati da incontrarne una, l’importante è non disturbarla e segnalare l’avvistamento al Gruppo Foca Monaca e alla Capitaneria di Porto locale. In mare siamo ospiti, dobbiamo sempre ricordarcelo» conclude Bonicalza.

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