Virus, scienza e luoghi comuni. Da più parti molti intellettuali di successo vanno sostenendo che siamo entrati in una nuova era del disincanto e che il SARS-CoV-2 sta sgretolando sia l’immagine di onnipotenza della scienza sia il suo corollario, la (pretesa) invulnerabilità dell’uomo. Da ultimo, un editorialista molto noto e di solito molto equilibrato su Il Corriere della Sera.
Ma questa è una rappresentazione della scienza vecchie e che da oltre un secolo non esiste più. Non nella rappresentazione che della scienza hanno gli scienziati, almeno.
In realtà già Giacomo Leopardi ironizzava sulle “magnifiche sorti e progressive” non propagandate dalla scienza ma immaginate dai positivisti. Ma è almeno un secolo e mezzo che questa visione della scienza si è erosa, sia tra i filosofi che tra gli scienziati. Nessuno più guarda alla scienza come al taumaturgo capace di risolvere ogni problema. Semmai l’immagine di onnipotenza e di invulnerabilità dell’uomo è incessantemente proposta dal sistema di marketing e dai suoi assiomi, il principale dei quali è: consumate e raggiungerete felicità e immortalità.
Ma non è il caso, qui e ora, di discutere né di filosofia né di consumismo. Veniamo a un fatto facilmente documentabile: se c’è qualcuno che non negli ultimi giorni, ma negli ultimi decenni, ha sostenuto che un piccolo virus o comunque qualche microscopico agente patogeno avrebbe potuto mostrare quanto fragile sia l’umanità nell’era della globalizzazione, beh questa è stata la comunità scientifica. Cassandra inascoltata.
L’affermazione andrebbe assolutamente ribaltata. La scienza va avvertendo da tempo di non considerarla onnipotente e che l’umanità è tutt’altro che invulnerabile.
Sia chiaro: il progresso è stato ed è tuttora reale della scienza. E questo progresso ha aiutato e sta aiutando l’umanità a vivere meglio. Ma non ci mette al riparo da attacchi anche catastrofici, come quelli dei cambiamenti globali o di una pandemia molto aggressiva. Quello che ci dà la scienza è “un’enorme coscienza” e molti strumenti per cercare di minimizzare le minacce. Nulla di più. Ma anche nulla di meno.
Prendiamo proprio il caso delle pandemie. Proprio cento anni fa, nel 1920, se ne concludeva una di tipo influenzale, chiamata spagnola. In un paio di anni uccise, si calcola, tra 50 e 100 milioni di persone in tutto il mondo: tra il 2,5 e il 5% dell’intera popolazione mondiale. Una catastrofe biblica.
Né la scienza né alcun altro, allora, conoscevano quel rischio. Neppure c’erano strumenti per contrastarla: né ospedali attrezzati, né farmaci, né tantomeno vaccini.
È vero, il primo vaccino utilizzato contro un agente infettivo è quello del vaiolo, messo a punto da Edward Jenner nel 1798. Ma è solo dopo la seconda guerra mondiale che i vaccini diventano un’arma capace di sconfiggere numerose malattie infettive e di salvare la vita di centinaia di milioni di persone. Tanto da illudere molti – anche alcune donne e uomini di scienza – che Homo sapiens aveva acquisito se non l’onnipotenza, certo una potenza tale da potersi considerare ormai invulnerabile agli agenti patogeni.
Il quarto cavaliere dell’Apocalisse, con la sua oscena falce, sembrava vinto o sul punto di essere vinto per sempre.
Ma poi ci sono stati l’Aids, Ebola, i coronavirus…
Ed è allora che molti scienziati – e nessun altro – hanno studiato la lezione della “spagnola” e hanno ammesso che a tutt’oggi, malgrado l’enorme coscienza acquisita, non abbiamo farmaci antivirali decisivi e che ci sono problemi anche con le malattie di origine batterica, a causa del fatto che stanno emergendo ceppi patogeni capaci di resistere agli antibiotici.
Insomma, il quarto cavaliere dell’Apocalisse non è stato sconfitto. La sua è stata solo una ritirata strategica, come tante altre nel corso della lunga guerra tra uomo e agenti patogeni.
Di più, ha sostenuto la comunità scientifica più avvertita: oggi ci sono condizioni nuove – gli intensissimi spostamenti umani (soprattutto per turismo o affari). il contatto con ecosistemi finora sostanzialmente inesplorati, i cambiamenti climatici – che rendono abbastanza probabile una pandemia aggressiva come quella “spagnola” di un secolo fa.
Sono appunto decenni che gli scienziati ci avvertono. E ogni volta che ha lanciato un allarme e l’allarme è parzialmente rientrato – si vedano i casi della SARS (un coronavirus apparso sulla scena nel 2002) o della SIV (la cosiddetta influenza suina, determinata da un virus H1N1 di tipo influenzale apparso nel 2009 – la comunità scientifica è stata irrisa e persino oltraggiata. Accusata di essere al soldo di qualche multinazionale.
Cassandra ancora una volta è stata ascoltata, ma messa alla berlina.
Risultato: a tutt’oggi non abbiamo né farmaci specifici né soprattutto un’organizzazione sanitaria in grado di contrastare una diffusione del nuovo coronavirus che dovesse interessare non centomila persone (com’è oggi), ma decine, milioni e persino nello scenario peggiore miliardi di persone.
No, non è stata la scienza ad alimentare l’idea dell’onnipotenza e dell’invulnerabilità dell’uomo. Semmai è stato il resto della società che non ha creduto agli scienziati che inutilmente avvertivano: guardate che le nostre conoscenze non ci rendono né onnipotenti né invulnerabili.
Quando tutta la vicenda della Convid-2019 sarà finita, avremo imparato la lezione?