SCIENZA E RICERCA

La neve non è più come una volta: diminuita nel 78% delle aree montane

“La neve e il ghiaccio ci accusano soprattutto con la loro assenza”. Parte da qui Daniele Zovi nel suo ultimo libro, Autobiografia della neve (UTET). In oltre trent’anni da dirigente del Corpo Forestale dello Stato ha visto cambiare l’ambiente montano, quel mondo che come recita il sottotitolo - Le forme dei cristalli, la fine dei ghiacci e altre storie da un mondo silenzioso - diventa silenzioso quando d’inverno si ricopre di neve. Nella sua carriera ha visto progressivamente contrarsi i ghiacciai alpini e la loro sparizione è uno dei racconti più frequenti del cambiamento climatico. Ma a modificarsi in conseguenza dell’aumento delle temperature globali è anche quanto nevica. Capire di quanto, però, è questione tutt’altro che banale.

Ci ha provato Claudia Notarnicola, fisica ed esperta di remote sensing  (o telerilevamento, in italiano), la tecnica che permette di utilizzare le immagini e i dati raccolti dai satelliti in orbita per analizzare quello che accade sulla Terra. Notarnicola è vicedirettrice dell’Istituto per l’Osservazione della Terra dell’EURAC, un centro di ricerca privato situato a Bolzano. Qui, da almeno 12 anni la criosfera, quella porzione variabile del nostro pianeta ricoperta di acqua allo stato solido (neve e ghiaccio), è uno dei suoi principali argomenti di lavoro. “Un primo lavoro mi ha visto sviluppare un algoritmo”, racconta Notarnicola, “per la mappatura del manto nevoso a livello alpino che forniamo alla Provincia Autonoma di Bolzano”. Una mappatura che serve a dare indicazioni quotidiane sulla copertura nevosa delle montagne del Südtirol/Alto  Adige  che venie utilizzate congiuntamente a modelli idrologici.

 

La neve e il ghiaccio ci accusano soprattutto con la loro assenza Daniele Zovi - Autobiografia della neve (UTET)

Da Bolzano uno sguardo sulla neve di tutto il mondo

Con uno sguardo globale, invece, Notarnicola ha completato lo scorso anno uno studio che ha permesso di mappare la copertura nevosa di tutta la Terra. Analizzando i dati raccolti tra il 2000 e il 2018, “possiamo vedere che nel 78% delle aree la neve è in calo”. Sono 45 i parametri presi in considerazione dalla ricercatrice per valutare la variazione della copertura nevosa. Uno dei risultati sintetici è la mappa qui sotto, proveniente dal suo paper “Hotspots of snow cover changes in global mountain regions over 2000–2018” pubblicato la scorsa primavera su Remote Sensing of Environment.

Sul planisfero sono individuate le aree in cui nei diciotto anni presi in esame c’è stata una variazione statisticamente rilevante della copertura nevosa. Rosso indica una variazione negativa, il blu una variazione positiva. Come si vede, molte aree montane della Terra, dalle Ande alle Montagne Rocciose settentrionali, dai monti dell’Iran all’Himalaya, sono caratterizzate da una diminuzione della copertura nevosa. Le montagne, insomma, si comportano, come talvolta vengono definite, da sentinelle del cambiamento climatico: l’innalzamento delle temperature ha visto diminuire la copertura e la durata del manto nevoso.

 

Non tutto è quello che sembra

La mappa qui sopra però mostra anche alcune zone colorate in blu dove la neve è aumentata. È il caso di quell’area della Siberia orientale verso l’Oceano Pacifico. Come mai? “Questo è un caso interessante”, sottolinea Notarnicola, “perché siamo in presenza di un aumento delle temperature che però in queste zone rimane sotto zero e quindi con umidità nell’aria determina un aumento delle nevicate. In questo caso dunque, nonostante l’aumento della neve, siamo di fronte forse a un effetto controintuitivo dell’innalzamento delle temperature. Inoltre, un altro effetto è legato al permafrost: la neve, agendo da isolante, ne ritarda o impedisce la formazione.

Un’anomalia positiva

Per costruire le sue mappe e le sue analisi, Notarnicola si è basata su quella che si può definire una “anomali positiva”. Ha infatti utilizzato i dati inviati dai due satelliti chiamati Terra e Acqua del programma MODIS (Moderate Resolution Imaging Spectroradiometer) che orbitano oramai da più di vent’anni attorno al nostro pianeta. “È un’anomalia”, spiega la ricercatrice, “perché normalmente la vita operativa di un satellite è di alcuni anni, forse un decennio, non certo vent’anni”. Questa situazione straordinaria, però, in questo caso permette di avere a disposizione un set consistente di dati su di un arco temporale lungo senza dover conciliare e fondere insieme informazioni provenienti da diversi satelliti. MODIS, che è operato dalla NASA, raccoglie dati dall’ottico all’infrarosso termico, raccogliendone un’immagine dell’intero globo a livello giornaliero.

Oltre alla fotografia sintetica appena vista, c’è però anche altro che emerge dall’analisi di Notarnicola. Per esempio, la contrazione della stagione invernale, intendendo quella che va dalla prima nevicata alla fusione delle nevi. “Sappiamo che comincia a nevicare più tardi”, spiega Notarnicola, “ma la mia analisi mostra anche un anticipo della fusione primaverile”. Come si legge nell’articolo scientifico, “cambiamenti significativi della durata del manto nevoso sono legati nel 58% delle aree sia al ritardato inizio della neve, sia a una fase precoce di fusione”.

Sappiamo che comincia a nevicare più tardi, ma la mia analisi mostra anche un anticipo della fusione primaverile Claudia Notarnicola, Istituto per l'Osservazione della Terra - Eurac Bolzano

Le conseguenze a valle

Una stagione invernale più breve, con minore durata della neve, ha importanti conseguenze sugli ecosistemi che sono legati alle montagne. Come ha scritto recentemente Elisa Palazzi, ricercatrice presso l’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del CNR, in un articolo divulgativo scritto per Radar Magazine, “un effetto dell’aumento di temperatura è l’alterazione della portata stagionale dei torrenti e dei fiumi che portano l’acqua di fusione della neve fino a valle. Con l’anticipo della fusione primaverile si corre il rischio che l’acqua sia già terminata quando a valle la richiesta è maggiore, ovvero durante l’estate, quando fa caldo e si riducono le piogge”.

Ma c’è anche un effetto diretto sulla flora e la fauna che vive negli ambienti montani. Scrive Palazzi: “La fusione anticipata della neve ha anche un effetto diretto sugli ecosistemi alpini; per esempio, porta a un anticipo della fioritura di alcune specie di piante, con effetti sugli animali che si nutrono delle erbette. Questo si traduce in sfasamenti degli ecosistemi stessi”. Un caso molto noto è quello degli stambecchi del Parco Nazionale dello Stelvio: negli ultimi trent’anni la loro popolazione è diminuita proprio a causa dell’anticipo della stagione primaverile che porta a estati con scarsità di cibo a disposizione.

Con l’anticipo della fusione primaverile si corre il rischio che l’acqua sia già terminata quando a valle la richiesta è maggiore, ovvero durante l’estate, quando fa caldo e si riducono le piogge Elisa Palazzi, ricercatrice dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del CNR

Rapporto acqua e neve

Sulle conseguenze delle variazione della copertura nevosa e la disponibilità di risorse idriche si è interrogata anche Notarnicola. In un altro studio, “figlio del lockdown”, si è concentrata sulle aree montagnose dell’Asia cercando, oltre che di affinare la propria analisi su di una scala minore, di analizzare il rapporto tra la variazione della neve e la disponibilità idrica. Questa analisi poi partendo dall’Asia è stata estesa a tutte le zone montane. Ciò è stato possibile grazie alla disponibilità di un’altra serie di dati, in questo caso raccolti tra il 2002 e il 2015 dal satellite GRACE, che sfrutta le variazioni del campo gravitazionale terrestre per capire quanta acqua è presente nei diversi punti della Terra.

“Confrontando le due serie di dati si osserva che fino al 30% delle aree osservate nel periodo invernale e primaverile mostrano una forte correlazione tra la variazione della neve e la variazione della disponibilità di acqua”, racconta Notarnicola. “Lo spostamento del picco di fusione espone la copertura nevosa anche a un diverso irraggiamento solare”: a parità di neve, insomma, c’è proprio stata una variazione del ritmo della sua fusione. Il problema, come sottolinea Notarnicola, è che a valle tutto il sistema - da quello naturale a quello modificato artificialmente dall’uomo - è impostato su regimi e stagionalità che nell’arco dei vent’anni circa osservati si è modificato profondamente. “Le mie analisi, come quelle di altri colleghi, non sono basate su serie trentennali, come vorrebbero i climatologi per poter parlare effettivamente di trend, ma dicono sicuramente che quantità di neve, sua durata e sua fusione sono cambiati nella maggior parte del pianeta”.

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