Una veduta aerea del delta del Niger. Foto: Reuters
Dopo quasi settant’anni di sfruttamento sistematico delle risorse nell’enorme territorio del delta del fiume Niger, nel sud della Nigeria, il colosso petrolifero britannico Shell ha deciso di fare un passo indietro: di completare un’operazione di disinvestimento progressivo e definitivo dalle attività “onshore”, e di vendere a un consorzio di società locali le sue quote residue (al momento sono il 30%) della controllata “Shell Petroleum Development Company” (SPDC), che da decenni gestisce le attività nel delta (attualmente si tratta di 263 pozzi petroliferi in produzione, 56 pozzi di gas e una rete di 3.173 km di oleodotti). Un’operazione colossale, per un valore stimato di 2,4 miliardi di dollari: si tratta di scelte economiche e strategiche, fin qui tutto legittimo. Quel che invece non è affatto lecito, secondo alcuni, è che Shell se ne vada dal paese africano senza aver contribuito a ripulire lo “sporco” provocato in questi decenni dalle continue fuoriuscite di petrolio: con devastanti conseguenze in termini d’inquinamento dei bacini d’acqua, sui terreni che un tempo erano agricoli e che oggi sono ricoperti da uno spessore nero e viscoso, e dunque sulle popolazioni che abitano ancora oggi, a prezzo di indicibili sacrifici, quelle terre. La querelle, a dire il vero, si trascina da anni. Ma nei giorni scorsi il tema è tornato d’attualità grazie al rapporto pubblicato dal Centre for Research on Multinational Corporations (Somo), un’organizzazione indipendente e senza scopo di lucro, con sede nei Paesi Bassi, che indaga sulle azioni delle multinazionali in tutto il mondo per analizzare le conseguenze delle loro attività sulle persone e sull’ambiente. Nel rapporto, titolato Selling Out Nigeria – Shell’s irresponsible divestment, i ricercatori di Somo sostengono: «La Shell ha tratto profitto dall’estrazione di petrolio per decenni e, così facendo, ha reso il delta del Niger uno dei luoghi più inquinati dal petrolio nel mondo, lasciando le comunità locali ad affrontare le terribili conseguenze che rimarranno ben oltre la vita dell’azienda. Non si può permettere alla Shell di disinvestire dall’industria petrolifera onshore nel delta del Niger prima di assumersi la responsabilità della sua eredità tossica di inquinamento e di smantellamento sicuro delle infrastrutture petrolifere abbandonate». Si legge ancora nel rapporto: «Sparsi per il paesaggio del delta del Niger ci sono oleodotti abbandonati, teste di pozzo e altre infrastrutture petrolifere che sono un ulteriore disastro annunciato. La Shell sostiene di aver fatto pulizia, ma il nostro nuovo rapporto mostra come l’inquinamento storico rimanga un problema serissimo e come la Shell stia cercando di evitare la propria responsabilità, nonostante i miliardi di dollari che ha guadagnato dal petrolio. Il processo di certificazione utilizzato dalla Shell per affermare di aver ripulito i siti di fuoriuscita di petrolio risulta profondamente incompleto e non affidabile». Qui un dettagliato approfondimento, pubblicato la scorsa estate da Nature, sullo stato dell’inquinamento nella regione, prima saccheggiata, poi devastata.
La divisione nigeriana della Shell. Foto: Reuters
Incidenti e sversamenti: rimpallo di accuse
La Shell, che ha preso “possesso” dei giacimenti nigeriani nel 1956, mentre la commercializzazione dei prodotti petroliferi è cominciata nel 1958, ribatte sostenendo di aver sempre agito in maniera responsabile: «Abbiamo rispettato le normative - ripetono -. E, negli anni, abbiamo apportato miglioramenti sulla prevenzione delle fuoriuscite e sulla pulizia degli impianti, oltre alle misure di vigilanza contro i furti e ai continui investimenti nelle infrastrutture». Quanto all’inquinamento da fuoriuscite di petrolio la risposta che arriva da Londra è sempre la stessa: non è colpa di guasti strutturali degli impianti, ma è in gran parte conseguenza dei numerosi furti e danneggiamenti agli oleodotti che si sono verificati nel corso degli anni (anche durante azioni di protesta dei nigeriani del luogo, che vivevano di agricoltura e di pesca, esasperate dalla presenza dei “predatori stranieri”). Al contrario, le comunità locali accusano la Shell di utilizzare a tutt’oggi apparecchiature obsolete. E portano come esempio eclatante quel che accadde a novembre del 2021: l’esplosione di una “testa di pozzo”, ferma da vent’anni ma mai dismessa né da Shell né dai nuovi proprietari (la Aito Eastern E&P, società petrolifera nigeriana), che ha rigurgitato per 38 giorni petrolio grezzo e gas nel fiume Santa Barbara, che attraversa il delta del Niger, devastando per decine e decine di chilometri l’ambiente circostante, con conseguenze drammatiche sui terreni (e sulle fattorie che sorgevano lungo il fiume), nelle foreste limitrofe, sulle acque, con rilascio in atmosfera di enormi quantità di sostanze tossiche. Il Washington Post riporta il parere di Richard Steiner, un consulente ambientale che ha lavorato a lungo nel Delta del Niger: «L’esplosione sul fiume Santa Barbara del 2021 evidenzia il rischio che la Shell e altre major petrolifere trasferiscano beni a nuove aziende locali senza prima risolvere le preoccupazioni ambientali e sociali ereditate. E molte delle società acquirenti non hanno la capacità tecnica o finanziaria per gestire queste operazioni in modo sicuro». A titolo di cronaca: l’attuale assetto della SPDC vede in maggioranza la Nigerian National Petroleum Corporation (55%), la Shell con il 30%, la francese Total con il 10% e l’italiana Eni con il 5% (ma in Nigeria, in altri progetti, sono presenti anche gli altri colossi del settore: Chevron, ExxonMobil e TotalEnergies). Nel 2023 Shell ha registrato un utile complessivo di 28 miliardi di dollari, peraltro in calo del 30% rispetto al 2022.
Perciò lascia tutt’altro che tranquilli la notizia, diffusa lo scorso 16 gennaio dalla Shell, di aver raggiunto un accordo con Renaissance, un consorzio di cinque società (quattro società di esplorazione e produzione con sede in Nigeria e un gruppo energetico internazionale, la Petrolin, fondata dal miliardario gabonese Samuel Dossou-Aworet, con sede a Ginevra, in Svizzera) per la cessione del proprio 30% di quote della “Shell Petroleum Development Company”. La compagnia britannica, che ha deciso di restare in Nigeria, ma di concentrare le proprie attività future nei progetti “deepwater”, ha inoltre dichiarato che la nuova proprietà di SPDC «sarà responsabile della bonifica delle aree in cui si sono verificate fuoriuscite in passato». I ricercatori di Somo, sul punto, non hanno dubbi: «La Shell ha messo a segno l'ultimo atto di Houdini. Mentre l’industria petrolifera mondiale entra nella sua fase finale, che sia nei prossimi 5 o 25 anni, la Shell ha deciso di vendere i suoi asset tossici». Ma c’è di più. Sempre i ricercatori di Somo spiegano che «secondo la legge nigeriana, la Shell deve ripulire le fuoriuscite di petrolio, indipendentemente dalle cause delle perdite. E non è riuscita a farlo».
Abusi ambientali e violazioni dei diritti umani
Secondo Amnesty International siamo di fronte a “…una lunga storia di danni e di abusi ambientali. Perché le operazioni della Shell sono avvenute a scapito dei diritti umani delle persone che vivono lì. Centinaia di fuoriuscite all’anno da condutture e pozzi mal mantenuti, insieme a pratiche di pulizia inadeguate, hanno portato a una diffusa contaminazione da petrolio, comprese le falde acquifere e le fonti di acqua potabile, i terreni agricoli e la pesca, e hanno danneggiato la salute e i mezzi di sussistenza di molti abitanti» (qui uno straordinario reportage realizzato nel 2022 dal Guardian). Lo scorso novembre l’Alta Corte di Londra ha stabilito che «migliaia di abitanti dei villaggi nigeriani hanno diritto di presentare ricorsi per violazione dei diritti umani contro la compagnia petrolifera Shell per l’inquinamento cronico da petrolio delle loro fonti d’acqua e la distruzione del loro stile di vita”. L’agenzia di stampa americana Associated Press riporta la testimonianza di una contadina dell’Ogoniland, una delle regioni del Delta più colpite (assieme a Rivers, Ondo, Bayelsa, Edo, Akwa Ibom), che alla fine di febbraio ha partecipato a una manifestazione nella capitale petrolifera del paese, Port Harcourt: «Al mattino, i bambini e le donne devono fare chilometri per trovare acqua potabile, e i nostri raccolti agricoli sono sempre più scarsi. Chiediamo che la Shell ripristini la nostra terra e pulisca la nostra acqua prima di procedere a qualsiasi disinvestimento».
Il tema è importante perché riporta in primo piano un argomento assai delicato: le responsabilità ambientali, e di rispetto dei diritti delle comunità locali, da parte delle multinazionali che s’insediano nei più remoti, e spesso più poveri, angoli del mondo. Interventi anche preziosi per i governi locali, che possono “guadagnare” cedendo lo sfruttamento delle proprie ricchezze a chi ha i mezzi e la tecnologia per estrarle. Ma a nessuno dovrebbe essere permesso d’ignorare il rispetto delle regole. Regole che continuano a essere aggiornate (come quelle dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), anche perché si stima che più della metà delle emissioni di anidride carbonica globali siano provocate da attività dannose di imprese multinazionali, a loro volta responsabili anche della maggior quantità di rifiuti tossici generati dal settore dell’industria chimica e manifatturiera. E come contrastare chi tenta di “sottrarsi” ai propri doveri, che dovrebbero essere morali oltreché legali? Ancora due anni fa David Boyd, relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani e l'ambiente, sosteneva: «Le imprese che operano nell’economia globale abusano abitualmente del diritto a un ambiente pulito, sano e sostenibile e di altri diritti umani». E mentre l’Onu continua a lanciare appelli per una “più forte azione globale”, le risposte sul campo dovrebbero arrivare dai singoli governi, da coloro che hanno firmato quelle concessioni. E difatti gli attivisti nigeriani, spalleggiati dai più grandi gruppi ambientalisti internazionali, stanno chiedendo al governo nigeriano, cui spetta l’ultima e definitiva parola sull’operazione Shell-Renaissance, non di bloccare, ma di ritardare l’approvazione della vendita delle attività onshore della compagnia petrolifera Shell. Almeno fin quando il colosso britannico non avrà “riparato” i danni di cui comunque è legalmente responsabile. La parola dunque passa al presidente nigeriano Bola Ahmed Tinubu, 71 anni, chiamato “il padrino di Lagos”, eletto lo scorso anno al termine di elezioni assai contestate e dal passato tutt’altro che cristallino. Finora Tinubu non ha detto parola sul passo annunciato dalla Shell. Ma lo scorso dicembre aveva annunciato: «Siamo molto concentrati sulla risoluzione di tutte le questioni relative agli investimenti. Non c’è “collo di bottiglia” troppo difficile da rimuovere per noi nella nostra marcia determinata per fare della Nigeria il paradiso africano per gli investimenti su larga scala in tutti i settori chiave. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro». Come dire: un accordo di reciproca convenienza, alla fine, lo troveremo. Bisognerà vedere sulla pelle di chi. Il portavoce del presidente nigeriano, contattato dai giornalisti locali per avere un commento sul rapporto pubblicato dal Centre for Research on Multinational Corporations, ha preferito non rilasciare dichiarazioni ufficiali.