SCIENZA E RICERCA

Nobel per la medicina agli scopritori del virus dell’epatite C

Nell’anno della pandemia da nuovo coronavirus, l’Istituto Karolinska ha assegnato il premio Nobel per la fisiologia o medicina 2020 agli scienziati che hanno scoperto un altro virus ritenuto ancora oggi una minaccia per la salute globale, quello dell’epatite C.

Harvey J. Alter, classe 1935 di New York, era in forze al dipartimento di medicina trasfusionale del National Institute of Health (NIH) al momento del lavoro che gli è valso il riconoscimento.

Micheal Houghton, nato nel Regno Unito, era affiliato alla Chiron Corporation in Califronia, mentre oggi lavora all’università dell’Alberta.

Charles M. Rice, nato nel 1952 a Sacramento, lavorava alla Scuola di medicina della Washington University di St. Louis, mentre oggi è in forze alla Rockefeller Universtiy.

Nei suoi ultimi report l’Oms ha stimato 70 milioni di casi di epatite C nel mondo e 400.000 morti all’anno, ma potrebbe essere una sottostima, perché molti casi restano non diagnosticati e i decessi potrebbero in realtà superare il milione. Insieme all’Hiv e alla tubercolosi è ritenuta una delle più serie minacce alla salute globale. L’epatite C causa infiammazioni croniche al fegato che possono degenerare in cirrosi e cancro al fegato. È anche una delle maggiori cause di trapianto di fegato.

Oggi sappiamo che esistono diversi tipi di virus dell’epatite che causano malattie diverse. Il virus A viene trasmesso tramite acqua o cibo contaminati, provoca un’infezione acuta che solitamente si risolve in un paio di settimane e il paziente è protetto dal punto di vista immunitario per il resto della vita. I virus B e C vengono invece trasmessi attraverso il sangue e portano a un’infezione cronica del fegato. Contro l’epatite A e B esistono vaccini, mentre non ne esiste ancora uno contro l’epatite C. Esistono poi anche i virus dell'epatite D e E. Il primo si contrae solo avendo già l'infezione da epatite B, il secondo invece similmente all'A si contrae con cibi e acque contaminati e dà disturbi simili. L’epatite cronica è una malattia silente ma progressiva che distrugge le funzioni del fegato nel corso degli anni, conducendo a cirrosi e cancro al fegato, che spesso richiedono il trapianto dell’organo.

Negli anni ‘60 del ‘900 la scoperta del virus dell’epatite B e della sua capacità di venire trasmesso dal sangue consentì lo sviluppo di un vaccino e di test diagnostici efficaci, e valse a Baruch Blumberg il premio Nobel per la medicina nel 1976.

In quegli anni Harvey J. Alter, un clinico che lavorava in corsia all’NIH, seguiva pazienti che avevano subito una trasfusione, alcuni dei quali sviluppavano epatite cronica. A quei tempi era noto solo il virus dell’epatite B. “Prima della scoperta del virus dell’epatite C la trasfusione di sangue era quasi una roulette russa” ha commentato un membro del comitato per la consegna del premio Nobel alla conferenza stampa di presentazione dei vincitori. Alter iniziò a indagare sistematicamente i casi di epatite in seguito a trasfusione e mostrò che non potevano essere spiegati dall’azione di virus già noti. Nel 1978 dimostrò che il trasferimento di plasma da pazienti con questa forma di epatite poteva trasmettere la malattia agli scimpanzé. E capì che il responsabile era un nuovo virus.

Dell’isolamento del virus in laboratorio si occupò Michael Houghton con il suo team, riuscendoci nel 1989. Lo clonarono con tecniche di biologia molecolare e immunologia definite “non ortodosse” da Thomas Perlmann, segretario generale del comitato per l’assegnazione del Nobel per la medicina. Hougthon infatti fece un azzardo, anzi due, assumendo che il DNA del virus fosse presente nei campioni di sangue di animali infetti e che esistessero anticorpi specifici nel plasma umano che potevano essere usati per individuare il virus. Iniettarono frammenti di DNA virale in batteri in coltura e utilizzarono gli anticorpi umani per individuarli. La scommessa fu vinta e il virus dell’epatite C venne isolato.

Questo permise di studiarlo e sviluppare un test sierologico con buona specificità e sensibilità per identificare il virus nel sangue. Il test aiutò ad abbassare notevolmente i casi di epatite nel mondo.

L’isolamento del virus fu un momento decisivo, ma occorreva ancora capire se il virus da solo potesse essere l’unico fattore a scatenare l’epatite C. Charles Rice e il suo gruppo notarono una regione del genoma del virus che non era ancora stata identificata con precisione ma che poteva giocare un ruolo chiave nella sua replicazione. Ipotizzarono inoltre che il virus che era stato clonato potesse contenere mutazioni che in parte lo rendevano inattivato. Grazie a tecniche di ingegneria genetica Rice generò una variante a RNA del virus dell’epatite C che includeva le regioni rimaste indefinite e che lo rendevano più funzionale. Iniettato questo virus nel fegato degli scimpanzé e confrontato con quello identificato nei pazienti che sviluppavano forme croniche della malattia, fu scoperta la somiglianza tra i due, giungendo alla definitiva caratterizzazione del virus dell’epatite C. Fu la prova definitiva che il virus da solo poteva causare anche quelle forme di epatite che fino ad allora non avevano ricevuto spiegazione.

Quest’ultimo passo servì a sviluppare farmaci antivirali più efficaci che hanno contribuito a salvare milioni di vite. “È difficile trovare qualcos’altro che sia stato di così tanto aiuto per l’umanità” ha commentato in conclusione Thomas Perlmann.

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