SOCIETÀ

Il Nobel per la pace ai giornalisti coraggiosi e utili

C’era allerta neve, a New York, a fine gennaio 2015. Non la solita, quella che arriva più volte all’anno. In quei giorni sembrava dovesse scatenarsi proprio una tempesta senza precedenti. E il sindaco Bill De Blasio, memore dei disastri associati alla mala gestione dell’uragano Sandy, aveva ordinato insieme al governatore dello stato di New York Andrew Cuomo la chiusura totale di trasporti pubblici e perfino di negozi e ristoranti. Io vagavo per le strade di midtown Manhattan in un silenzio surreale. New York non si ferma (quasi) mai. Ma quel giorno era tutto ovattato e silenzioso. La neve è poi arrivata, nella notte, ma alla fine, lì nella città, è stata molta meno di quanto previsto. Sindaco e governatore si sono scusati per il danno economico e l'eccessivo allarme. E io che avevo temuto di rimanere bloccata e che l’incontro per cui ero andata fin lì potesse essere cancellato, ho tirato un sospiro di sollievo.

La mattina dopo “Cracking the code - women digital news entrepreneurs summit and hackathon”, una tre giorni organizzata dalla Internet Women Media Foundation, ha dato il via ai lavori. E io ho fatto colazione con Maria Ressa. Non noi due da sole, eh. Non siamo amiche, non abbiamo fatto le scuole insieme, non abbiamo un parente in comune. Eravamo in tante, invece, quel giorno: una cinquantina di giornaliste e attiviste impegnate sul fronte dell’innovazione digitale e sociale che arrivavano da diverse parti del mondo. C’erano una collega afghana, una che arrivava da Kathmandu con cui ho fatto velocemente amicizia e che solo tre mesi dopo ci ha raccontato in diretta il terrificante terremoto nepalese, un'ucraina molto determinata che aveva fondato un sito di informazione per raccontare in presa diretta la guerra del Donbass, una spagnola molto intraprendente, una vivacissima giornalista dello Zimbabwe e una altrettanto vivace collega brasiliana e il vulcano Mariana Santos, fondatrice di Chicas Poderosas, che in quell’occasione ha aperto i lavori con la sua keynote. 

Tutte donne, perché l’idea alla base di questo incontro era creare una rete di giornaliste accomunate dalla convinzione che fosse necessario rafforzare la presenza femminile non solo in termini di numeri nelle redazioni ma soprattutto come contributo effettivo, spazio riconosciuto, creatività messa in gioco. Di quello che in America amano definire empowerment, l’aumento di possibilità e di riconoscimento.

Maria Ressa era seduta al mio tavolo. Eravamo in sei o sette. Lei raccontava come avesse deciso di fondare la sua testata, Rappler, nelle Filippine, solo tre anni prima. Maria era una giornalista di lunga esperienza, aveva lavorato in televisione per la CNN negli Stati Uniti e poi in altri paesi. Nonostante il modo di parlare tranquillo, privo dell’enfasi che animava altre partecipanti, era chiaro, chiarissimo, che in lei carisma e determinazione erano e sono due ingredienti centrali. E contagiosi.

Maria Ressa è stata insignita del premio Nobel per la pace 2021 insieme a Dmitry Muratov, uno dei fondatori, nel 1993, del giornale indipendente russo Novaja Gazeta. Dal 1995, Muratov è il direttore e da sempre il suo lavoro è stato improntato a produrre un giornalismo indipendente e critico nei confronti del potere. Un giornalismo che riesce a raccontare aspetti della società russa poco trattati da altri media, con una particolare attenzione alle situazioni di corruzione, abuso di potere, violenza istituzionale, frodi elettorali e via dicendo fino alle troll factories protagoniste di vicende non più solo nazionali ma di caratura globale. Per questo suo lavoro coraggioso, la Novaja Gazeta ha subito molte intimidazioni e molteplici atti di violenza. Sei dei suoi giornalisti sono stati uccisi, inclusa Anna Politkovskaja nota per il suo lavoro di inchiesta sulla guerra cecena. Ma le intimidazioni non hanno fermato Muratov che ha continuato imperterrito a difendere un giornalismo coraggioso svolto all’interno dei criteri etici e deontologici che dovrebbero caratterizzare sempre questa professione.

In quella giornata fredda di gennaio sei anni fa, a New York, Maria Ressa ci ha poi raccontato, in un talk limpido tenuto davanti a tutta l’assemblea, che Rappler era stato fin dall’inizio un mezzo di informazione nativo digitale. Lei e le altre fondatrici - Rappler è una azienda a maggioranza femminile - avevano ideato un modello di business che garantiva indipendenza al progetto editoriale, anche grazie a un sistema di finanziamenti internazionali e non vincolati a singoli donatori, e avevano puntato tutto sull’idea di un giornalismo indipendente, coraggioso, utile. Un giornalismo che non scende a compromessi con i diversi poteri, a partire da quello politico, ma anzi tiene alta l’attenzione sulla corruzione, sulle politiche autoritarie, sulla manipolazione che le classi dirigenti tentano e attuano continuamente nei confronti dei propri cittadini. 

Fin dall’inizio Ressa ha sfruttato le piattaforme digitali per costruire anche un giornalismo partecipato, di ascolto delle necessità delle persone e delle richieste di informazione e approfondimento. Raccolta di informazioni, segnalazioni e un rigoroso fact checking sono stati tra gli asset di Rappler fin dall’inizio. E fin dall’inizio questo metodo ha dato fastidio. A chi nella corruzione naviga, a chi usa il potere sistematicamente contro il proprio popolo. Al presidente filippino Rodrigo Duterte, per dire, eletto nel 2016 e noto a livello mondiale per la sua discutibilissima guerra contro la droga diventata di fatto la cortina per una guerra contro il suo stesso popolo. E infatti Duterte ha scatenato contro Rappler e contro Maria Ressa una guerra continua. Fatta di minacce, rappresaglie, false accuse, tentativi di intimidazione. Maria è stata arrestata e rilasciata, con accuse false di evasione fiscale e altre irregolarità amministrative. Le sue vicende giudiziarie sono molto difficili da gestire ancora oggi e la sua incolumità è continuamente a rischio. Lei è finita sulla copertina di Time come Person of the Year nel 2018, assieme ad altri giornalisti definiti “I guardiani” per la loro lotta nella war on truth, la guerra contro la verità, che vede vere e proprie campagne di disinformazione sfociare spesso in attacchi violenti, online e anche offline, e scatenarsi contro chi cerca di informare correttamente. Maria Ressa ha vinto innumerevoli premi giornalistici per il suo lavoro in difesa della democrazia e del diritto all’informazione. E ora, a suggellare il riconoscimento internazionale per il suo lavoro, è arrivato il Nobel per la pace, che esula dal mondo del giornalismo in senso stretto ma che giustamente inserisce il giornalismo, come è stato spiegato durante la conferenza di assegnazione del premio, tra quelle attività che sono essenziali per la democrazia e per la vita in una società e collettività pacifica. 

Ho potuto poi rivedere e riascoltare Maria Ressa altre volte. A Perugia, al festival del giornalismo. A Lisbona, in un incontro organizzato da Google per ragionare su trend e problemi dell’ecosistema mediatico digitale, e poi di nuovo a New York, alla Columbia University, nel 2019, in occasione del lancio del Craig Newmark Center for Journalism Ethics and Security.

In quest’ultimo caso, purtroppo, Ressa non ha potuto partecipare di persona perché stava gestendo una delle questioni giudiziarie di cui sopra e doveva essere a disposizione del tribunale per una serie di udienze. Ma anche in videochiamata il suo messaggio e il suo appello sono suonati molto chiari: “L’informazione è potere. Questo è quello che stiamo imparando in questa epoca. Ed è una questione globale.” Ressa ha molte volte sottolineato la doppia potenzialità associata alle piattaforme social e agli strumenti di comunicazione online: il fatto che consentano di connettere i giornalisti con le persone e dunque di capire i bisogni informativi e di costruire un giornalismo che risponda alle necessità dei cittadini e cittadine. Ma al contempo, il fatto di poter essere utilizzate come strumenti di vera e propria guerra all’informazione, e quindi per organizzare campagne di disinformazione, odio e violenza. Non si è fermata, Ressa, e ha continuato a insistere su questo punto. “Dobbiamo chiedere che le piattaforme che gestiscono i social media si prendano la responsabilità e passino all’azione. Non è una questione di libertà d’opinione e parola, secondo me. È invece questione di eliminare il veleno dall’ecosistema informativo.” E accanto a questa richiesta alle piattaforme, Ressa ha anche sempre sottolineato quanto l’attenzione globale nei confronti della libertà d’informazione è utile, utilissima, a chi fa il suo mestiere nelle sue condizioni perché almeno un po’ limita lo spazio di azione di chi detiene il potere e vorrebbe ridurre in silenzio i giornalisti.

Per questo è importante questo Nobel per la pace. Per l’attenzione che mette, ulteriormente e sperabilmente, sulla necessità di proteggere lo spazio democratico dell’informazione. E sui giornalisti che incarnano questa visione e la difendono nonostante tutto.

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