Il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping con la direttrice del Fmi Christine Lagarde a Port Moresby, Papua Nuova Guinea, per il summit Apec
Sui giornali italiani la notizia è rimasta sottotraccia ma sui maggiori quotidiani al mondo occupa stabilmente da giorni le prime pagine: l’ultimo vertice dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (Apec), l’organizzazione internazionale che riunisce 21 Paesi che si affacciano sul Pacifico, ha infatti registrato l’ennesimo scontro tra Cina e Stati Uniti, uno dei più violenti finora. Per la prima volta nella storia di questa Istituzione, nata in Australia nel 1989, al termine dell’incontro non è stata emessa alcuna dichiarazione congiunta da parte dei leader partecipanti.
Troppo grandi e numerose le frizioni tra la delegazione americana, guidata dal vicepresidente Mike Pence, e i rappresentati del Dragone asiatico: dai dazi sulle importazioni alla guerra sui segreti industriali, fino alla lotta per la supremazia strategica nella penisola coreana e nel mar cinese meridionale, dove corrono alcune delle principali rotte del commercio mondiale. Con toni che ogni giorno di più assomigliano a quelli di una nuova guerra fredda; “il mondo intero è spaventato” ha dichiarato il padrone di casa Peter O’Neill, primo ministro di Papua Nuova Guinea, e la situazione di stallo rischia di ripercuotersi anche sulla riunione del G20 che si terrà tra poco a Buenos Aires.
“È stata l’ennesima occasione persa per pacificare i toni e riavvicinare le due potenze”, spiega a Il Bo Live Roberto Antonietti, docente di economia internazionale all’università di Padova. Verrebbe anzi da dire che stavolta quasi è stato quasi cercato un pretesto per lo scontro: all’ultimo momento infatti la Cina ha chiesto che dalla dichiarazione finale venisse cancellato un riferimento alle pratiche commerciali sleali all’interno della Wto. Il fatto però va letto nel suo contesto: negli ultimi tempo infatti gli Stati Uniti, assieme ad altri Paesi come il Giappone, hanno contrastato decisamente il grande progetto cinese di una “nuova via della seta” – Belt & Road Initiative (BRI) o OBOR (dal corrispondente acronimo inglese One Belt One Road). “Si tratta non solo di infrastrutture ma di un vero e proprio programma di investimenti in molti Paesi in via di sviluppo, che però è stato percepito dall’amministrazione americana come una mossa di Soft Power per estendere il proprio dominio e mettere le mani su una serie di importanti aree strategiche”.
Una sorta di piano Marshall che evidentemente non poteva non insospettire gli Stati Uniti, che hanno a loro volta presentato un loro contropiano di investimenti che Pechino non ha preso molto bene. A questo aggiungiamo l’annosa guerra commerciale tra le due potenze e si ha un quadro delle tensioni che caratterizzano attualmente il commercio internazionale. Un rischio di escalation a cui, secondo Antonietti, non è sicuramente estranea la figura del presidente Trump “con la sua visione muscolare della politica estera e dei commerci internazionali, caratterizzata da un ritorno al mercantilismo. Soprattutto nei confronti della Cina, accusata più meno giustamente di penetrazione commerciale senza controllo nel mercato Usa, anche agendo con un vero e proprio dumping. Accuse a cui la Cina da parte sua ha replicato annunciando una serie di dazi verso alcuni dei più noti prodotti americani. Tutto questo può seriamente portarci a una guerra commerciale, e temo che stiamo andando proprio in quella direzione”.
“ Una contrazione del commercio mondiale porta sempre anche a un calo generalizzato del benessere economico Roberto Antonietti, economista
Una situazione che rischia di avere ripercussioni sull’economia globale: “Parliamo delle due maggiori potenze al mondo, che con le loro scelte influenzano le dinamiche del commercio mondiale sia dal lato della domanda che dell’offerta. Il rischio è quello di una contrazione del commercio mondiale che, come è dimostrato da tutte le evidenze scientifiche, porta sempre anche a un calo generalizzato del benessere. Una diminuzione del commercio porterebbe inoltre a una riduzione degli investimenti, che all’inizio riguarderebbe soprattutto le multinazionali ma che a lungo andare si ripercuoterebbe inevitabilmente anche sulle piccole e medie imprese, che nelle catene globali del valore agiscono soprattutto come fornitori di quelle più grandi”.
Quali sono le ragioni di questa rivalità? “Non c’è dubbio sul fatto che la Cina stia emergendo come nuovo centro di potere mondiale, un po’ come gli Stati Uniti tra l’Ottocento e il Novecento, come dimostra la stessa reazione americana. Le relazioni tra i due paesi sono però molto più complesse di quanto normalmente si tende a pensare. Non dimentichiamo ad esempio che una parte importante del debito Usa è detenuto proprio dalla Cina, che però allo stesso tempo rimane un Paese comunista, e questo agli occhi degli americani continua ancora oggi ad avere un significato particolare”.
Lo strapotere economico della Cina non va in qualche modo contenuto? “Gli Usa in questo momento sono ripartiti dopo la crisi e hanno praticamente raggiunto il pieno impiego, quindi pur avendo la bilancia commerciale in deficit commerciale continuano comunque a crescere. Inoltre i fondamentali della loro economia sono solidi e rimangono il Paese più innovatore. Trump però vuole riportare la bilancia commerciale in attivo e punta a favorire la produzione domestica, anche andando contro alcuni fondamentali della teoria economica. Farsi tutto in casa è una concezione un po’ vecchiotta, non solo dal punto di vista scientifico”. E l’Europa cosa può fare? “Bella domanda; potrebbe forse avere un ruolo molto importante come mediatore, ma anche rimanere presa tra due fuochi. Difficile però che riesca a trovare una posizioni unitaria, divisa com’è al suo interno e presa da altre questioni interne”.