SCIENZA E RICERCA
Le origini del senso morale. L’etica alla prova delle neuroscienze
Cosa succede nel nostro cervello quando formuliamo un giudizio morale del tipo “è giusto aiutare quella persona che sta soffrendo” o dobbiamo risolvere un dilemma etico e decidere, ad esempio, se danneggiare una persona innocente per salvarne molte altre? Quali aree cerebrali e connessioni neurali sono coinvolte nei processi di elaborazione di giudizi morali e nei comportamenti prosociali?
Esiste un termine, quello di neuroetica, che può essere utilizzato con due diversi significati: il primo è quello di etica delle neuroscienze, una branca della filosofia che si occupa di sollevare e discutere le questioni etiche che derivano dallo studio del cervello umano e, soprattutto, dall’uso che è possibile fare di questa conoscenza; l’altro significato è quello di neuroscienze dell’etica, che definisce un filone di ricerca compreso nell’ambito delle scienze cognitive che si avvale delle tecniche di neuroimaging per fare luce sui substrati neurali alla base dei nostri pensieri, sentimenti, decisioni, giudizi e azioni relativi alla sfera morale.
È questo il significato di neuroetica che abbiamo approfondito con l’aiuto del neuroscienziato Marco Iacoboni, professore di psichiatria e scienze comportamentali alla University of California di Los Angeles, dove dirige il laboratorio di Stimolazione Magnetica Transcranica dell’Ahmanson-Lovelace Brain mapping center.
“Per molti secoli, il discorso sull’etica è stato sempre inquadrato da una prospettiva esclusivamente filosofica”, riflette Iacoboni. “Successivamente, con la nascita degli studi neuroscientifici volti a indagare il legame tra i nostri pensieri e comportamenti con l’attività cerebrale, è nata l’esigenza di studiare le basi neurali dei giudizi e dei comportamenti etici e dei dilemmi morali”.
È in questo modo, quindi, che è nata la volontà di indagare sperimentalmente qualcosa che per molti secoli non si credeva fosse possibile osservare con metodo scientifico: il senso morale. E lo stesso vale per molti altri concetti ad esso collegati, come quello del sé, della scelta, dell’empatia, del libero arbitrio.
“Ci sono sostanzialmente due modi di concepire l’indagine neuroetica – riflette Iacoboni – come una collaborazione tra filosofi, psicologi morali e neuroscienziati per scoprire i sostrati neurali di certi comportamenti morali, oppure come un modo per utilizzare le neuroscienze per dirimere alcune questioni di tipo filosofico o psicologico relative, ad esempio, alle giustificazioni dei comportamenti prosociali (ovvero al motivo per cui una persona compie un gesto morale)”.
È proprio questo il tipo di studi che svolge Iacoboni; in particolare, in alcuni lavori di ricerca il professore si è dedicato all'indagine dei meccanismi neurali legati all’empatia, una capacità umana che può giocare un ruolo centrale nell’esperienza morale.
Empatia affettiva e cognitiva
“Alcuni studi di psicologia sociale hanno mostrato che le persone che tendono a imitare di più gli altri durante i rapporti sociali sono anche quelle più empatiche”, racconta Iacoboni. “Ispirati da questi risultati, abbiamo deciso di intraprendere una serie di studi sul rapporto tra imitazione, neuroni specchio ed empatia utilizzando le tecniche di neuroimaging per scoprire se fosse possibile predire il comportamento morale di una persona dall’analisi della sua attività cerebrale.
In uno studio del 2008 abbiamo utilizzato la risonanza magnetica funzionale su un gruppo di giovani volontari. Abbiamo chiesto loro di guardare alcune immagini che raffiguravano persone che stavano mostrando emozioni e di imitare le loro espressioni facciali. Abbiamo scoperto che analizzando le caratteristiche dell’attività cerebrale rilevata dalla risonanza magnetica funzionale era possibile scoprire quanto i ragazzi fossero competenti dal punto di vista sociale (quanto fossero popolari, quanti amici avessero, ecc) e il loro livello di empatia. I nostri risultati suggerivano inoltre che le aree specchio del nostro cervello (quelle che ci spingono a imitare un comportamento che osserviamo in qualcun altro) giocassero un ruolo centrale nell’empatia.
Quando i risultati del nostro lavoro sono stati pubblicati, abbiamo ricevuto alcune critiche e obiezioni che ci hanno ispirati ad approfondire altri aspetti dell’empatia. Ci era stato fatto notare, infatti, che l’empatia che avevamo indagato era solamente quella di tipo affettivo. Si tratta di quel genere di empatia, in altre parole, che ci spinge a provare dolore e dispiacere quando ci imbattiamo in una persona che sta soffrendo. Ci è stato obiettato, però, che l’empatia può manifestarsi anche a un livello più complesso, con il cosiddetto perspective-taking. Stiamo parlando della cosiddetta empatia cognitiva, che richiede un ragionamento, e che sperimentiamo, ad esempio, quando vogliamo aiutare qualcuno e ci soffermiamo a pensare a quale sia il modo migliore per farlo.
Abbiamo perciò approfondito la questione in un altro studio, distinto in due fasi: nella prima fase, abbiamo sottoposto alcuni soggetti a una sessione di neuroimaging per rilevare le loro attivazioni cerebrali mentre osservavano delle persone che soffrivano e ne imitavano le espressioni facciali. Successivamente, abbiamo chiesto loro di cimentarsi con un gioco economico di puro altruismo da svolgere utilizzando un computer. Il gioco funzionava in questo modo: ogni persona riceveva 10 dollari per 24 volte. Ogni volta doveva decidere se tenere tutti i soldi per sé oppure donarne una parte a un’altra persona, della quale conosceva solo due dettagli: il fatto che abitasse a Los Angeles e il suo livello di ricchezza. Ogni partecipante svolgeva le sue scelte (che sarebbero rimaste anonime e non riconducibili in nessun modo al suo nome) senza essere osservato, in modo tale che non fosse influenzato, inconsciamente o meno, dal giudizio esterno (sappiamo, infatti, che sapere di essere osservati modifica le nostre scelte morali). Abbiamo constatato, com’era prevedibile, che i partecipanti tendevano, in generale, ad essere più generosi con chi aveva pochi soldi, donando quindi buona parte dei 10 dollari ricevuti a uno sconosciuto che aveva un conto in banca più misero. Al contrario, quando sullo schermo comparivano i dati di una persona che aveva già parecchi soldi, decidevano di tenere per sé la maggior parte della cifra incassata. Questo comportamento non solo è comprensibile, ma è anche razionale. Comportandosi così, infatti, i partecipanti mostravano di ragionare e di non scegliere casualmente quando donare e quando intascare la somma ricevuta.
La domanda che ci siamo posti era la seguente: l’attività neurale registrata attraverso la risonanza magnetica funzionale (e legata quindi a un’empatia di tipo affettivo) poteva fornire un indizio utile per predire quanto una persona si sarebbe dimostrata generosa durante la prova economica (mettendo in atto un tipo di empatia più cognitiva e ragionata)? La risposta era sì”.
Agire o non agire? Questo è il dilemma (morale)
“Il passo successivo è stato quello di domandarci se fosse possibile indagare, da un punto di vista scientifico, anche i dilemmi morali, che da sempre costituiscono una importante frontiera della speculazione filosofica e che sono più che mai attuali al giorno d’oggi (basti pensare ai nuovi e giganteschi dilemmi morali aperti dal periodo di pandemia, che ci ha imposto di effettuare scelte impossibili tra diversi diritti umani: come salute e lavoro)”, continua il professor Iacoboni. “In particolare, volevamo scoprire perché, quando una persona si trova di fronte a un dilemma morale, decide di agire in un certo modo, piuttosto che in un altro.
Uno dei dilemmi morali più classici e conosciuti è il seguente: immaginiamo di trovarci in tempo di guerra. Il nostro villaggio viene occupato dai soldati nemici e noi facciamo parte di un gruppetto di persone che si nasconde, sperando di non essere trovato. Nel gruppo, però, c’è anche un bambino molto piccolo che all’improvviso inizia a piangere, esponendoci tutti al rischio di essere trovati dai nemici. Dobbiamo perciò effettuare una scelta difficile: tappiamo la bocca al bambino, rischiando di soffocarlo, pur di non essere scovati e uccisi tutti, oppure lo lasciamo piangere esponendo l’intero gruppo al pericolo di finire in mano ai soldati nemici?
È noto che davanti a questo dilemma morale, il 90% degli umani non tappa la bocca al bambino, rispondendo quindi ai principi di un’etica di tipo deontologico, in cui ci si focalizza sulla moralità dell’azione in sé, più che sulle sue conseguenze. Da un punto di vista utilitaristico, invece, la scelta migliore sarebbe quella di soffocare il bambino.
Nel 2017 abbiamo condotto un esperimento in cui abbiamo proposto questo dilemma morale a un gruppo di soggetti, sempre dopo aver rilevato tramite le tecniche di neuroimaging la loro attività cerebrale mentre osservavano persone che provavano emozioni e ne imitavano le espressioni del volto. Lo scopo dell’esperimento era quello di capire se l’attività neurale potesse predire anche le risposte ai dilemmi morali.
In questo studio ci siamo avvalsi della collaborazione di Paul Conway, uno psicologo sociale esperto di dilemmi morali, il quale ha creato un sistema di punteggio per distinguere il comportamento deontologico (ovvero la tendenza a focalizzarsi sulla moralità intrinseca di un’azione) da quello utilitaristico (proprio di chi dà maggior peso alle conseguenze di un gesto, piuttosto che al gesto in sé). Ebbene, abbiamo scoperto che chi tendeva ad agire secondo un’etica deontologica (e a lasciar piangere il bambino) presentava diversi pattern di attivazione cerebrale rispetto a chi agiva in maniera utilitaristica (e uccideva il bambino).
L’altro risultato importante di questo studio sta nell’aver scoperto che l’attività cerebrale collegata all’etica deontologica è quella localizzata nelle aree specchio, che sono associate all’empatia affettiva. Si tratta di un risultato importante perché contraddice una tesi filosofica secondo la quale le persone che agiscono moralmente dal punto di vista deontologico, in realtà lo fanno per motivi egoistici: non uccidono il bambino perché non vogliono accettare di essere persone in grado di compiere un gesto del genere”. Sembra un ragionamento contorto? A pensarci bene, forse non così tanto. In ogni caso, lo studio di Iacoboni e coautori suggerisce che le cose non stiano così, perché le aree specchio legate all’empatia affettiva che si attivano in chi salva il bambino sono notoriamente quelle associate a comportamenti altruistici, e non egoistici. “Questi risultati – commenta Iacoboni – rappresentano un chiaro esempio in cui le neuroscienze possono dirimere una controversia della filosofia morale”.
Cervello a compartimenti stagni? Non esattamente
Come abbiamo già accennato, gli studi condotti dal professor Iacoboni e dal suo team di ricerca suggeriscono che i due livelli di empatia di cui abbiamo parlato, quello affettivo e quello cognitivo, corrispondano all’attivazione di diverse parti del cervello umano. Le aree legate all’empatia affettiva (e ai giudizi morali di tipo deontologico) sono sostanzialmente quelle della corteccia frontale inferiore, mentre l’empatia cognitiva sembra connessa, piuttosto, all’attivazione delle aree della corteccia prefrontale mediale.
“Eppure, non ci convinceva del tutto l’idea che il cervello umano presentasse una divisione così netta tra due aree connesse entrambe a un sentimento empatico”, racconta Iacoboni. “Possibile che non si “parlassero” affatto e che ognuna di loro svolgesse il suo lavoro in maniera indipendente rispetto all’altra?
Per risolvere questo dubbio abbiamo condotto un altro studio in cui abbiamo mostrato che, in realtà, le due aree cerebrali deputate rispettivamente all’empatia affettiva e a quella cognitiva interagiscono eccome. Lo abbiamo scoperto osservando l’attività cerebrale di alcuni soggetti che si trovavano in una condizione di resting state (in parole semplici, non stavano facendo assolutamente niente). Osservando le fluttuazioni del segnale, abbiamo appurato che le due aree in questione erano funzionalmente connesse. Abbiamo poi paragonato questi dati cerebrali con dei dati comportamentali che servivano a misurare il livello di empatia di ogni individuo, raccolti tramite dei questionari. Dopodiché, abbiamo dato tutte queste informazioni in pasto a un sistema di machine learning. L’algoritmo, quindi, conosceva sia i dati comportamentali (il livello di empatia) sia i dati neurali (ovvero le connessioni cerebrali funzionali) di ogni individuo.
A quel punto, abbiamo raccolto i dati neurali di un nuovo gruppo di soggetti e li abbiamo forniti all’algoritmo chiedendogli di provare a indovinare, sulla base di essi, il livello di empatia di ogni soggetto. Ebbene, il computer ci è riuscito.
Il nostro esperimento ha dimostrato quindi non solo che le due aree di empatia affettiva e cognitiva sono connesse, ma anche che il tipo di connessione che intercorre tra loro ha un peso nel determinare il comportamento morale di una persona. Una delle due aree si attiva maggiormente rispetto all’altra a seconda che il comportamento in una determinata circostanza sia più affettivo che cognitivo e viceversa, ma esse sono tutt’altro che separate. Comunicano per tutto il tempo: è il diverso modo in cui lo fanno, a seconda della situazione, che determina il livello di empatia di una persona”.
Dalla ricerca scientifica alla pratica clinica
Alla luce delle evidenze scientifiche tratte dagli studi di Iacoboni e coautori, risulta chiaro il senso dell’indagine neuroscientifica del senso morale e dei collegamenti tra filosofia e neurobiologia. Ma la ricerca dei sostrati neurali del senso morale può avere anche dei risvolti in ambito clinico.
“Gran parte dei pazienti psichiatrici, nonostante vengano trattati con successo da un punto di vista farmacologico (e vedano quindi sparire sintomi neurologici come, ad esempio, le allucinazioni), continuano ad avere uno scarso rendimento sociale (il cosiddetto community functioning) che incide negativamente sulla loro quotidianità”, afferma Iacoboni. “Spesso, il loro difetto di cognizione sociale, che impedisce loro di relazionarsi con gli altri, è dovuto proprio alla difficoltà di provare empatia. Per questo motivo, se capiamo come le connessioni tra le diverse aree cerebrali determinano la capacità di rendimento sociale, si potrebbe anche pensare di utilizzare tecniche di neurostimolazione cerebrale per intervenire clinicamente su questo tipo di pazienti per aumentare il loro livello di empatia e migliorare quindi la qualità della loro vita. In uno studio condotto nel 2016, ad esempio, abbiamo dimostrato che è possibile interferire con la normale attività cerebrale delle persone per modificare il loro livello di generosità”.
Le frontiere di questa ricerca in ambito clinico aprirebbero anche alla dibattuta strada del potenziamento morale e quindi alla possibilità di intervenire anche su persone prive di deficit cognitivi per migliorare le loro abilità prosociali e renderle, per così dire, “artificialmente più buone”. Naturalmente, come riflette il professor Iacoboni, questo tipo di questioni richiederebbe un attento confronto tra le neuroscienze dell’etica e l’etica delle neuroscienze.
Siamo “solo” il nostro cervello?
L’indagine neuroscientifica del senso morale può far venire in mente, infine, l’obiezione filosofica al riduzionismo biologico, secondo la quale indagare i meccanismi morali da questo punto di vista rischierebbe di “appiattire” l’individuo alle sue funzioni puramente biologiche. “Non è certamente questo lo scopo degli studi di cui stiamo parlando”, chiarisce Iacoboni. “Al contrario, l’obiettivo è piuttosto quello di capire quali sono i meccanismi biologici che riflettono il nostro comportamento prosociale. Sappiamo, infatti, che le nostre scelte di vita sono necessariamente frutto anche dei modelli culturali di riferimento. A maggior ragione, quindi, il confronto e la collaborazione tra neuroscienziati, psicologi sociali, antropologi e filosofi morali sono vitali per la ricerca in questo settore, perché risultati provenienti da discipline diverse non fanno altro che arricchire la visione di ognuno e orientare gli studi futuri”.